18/11/2013

Mark Lanegan

Il sacerdote con la voce demoniaca celebra un funerale blues in una chiesa sconsacrata

Bisogna camminare costeggiando un canale che parte poco distante dalla caotica Leidseplein e si snoda nell’ombra tra le tante casette silenziose per arrivare davanti a De Duif, una chiesa sconsacrata praticamente intatta dove è atteso l’ex “albero urlante” oramai assurto al ruolo di funambolo dell’abisso e di cantore dell’ombra. Esiste una poesia rituale nello starsene seduti davanti al tabernacolo tra altri “fedeli” in attesa del sacerdote che ha saputo trasmutare così tante volte se stesso da far apparire il sacrificio eucaristico come una condicio sine qua non dell’ascesi creativa. Risalite le voragini tentacolari della tossicodipendenza che aveva disseminato croci nel mondo del grunge, scalciata la morte con il rock vitale dei Queens Of The Stone Age, abbracciata l’oscurità con il gemello Greg Dulli e prestatosi alle collaborazioni più disparate (tra tutti con i Soulsavers e con Isobel Campbell), ora Mark ritorna a se stesso.

Entra di nero vestito e l’ombra è scarna come l’atmosfera denudata di ogni orpello. Non c’è più Dave Rosser ad accompagnare alla chitarra i suoi lamenti sputati fuori a denti stretti, attraverso quel ghigno che pare uno sforzo immane dell’anima, ma un’intera band che lo omaggia e sostiene, come fanno gli apostoli al cospetto del loro maestro più talentoso. La scarna e splendida When Your Number Isn’t Up risuona dall’altare come una preghiera desolata e bellissima e anche il Cristo, da lassù, tace. La messa non si scosta molto dall’umore di un funerale blues e a catena vengono snocciolate The Gravedigger’s Song e Phantasmagoria Blues. L’energia di quel capolavoro che fu Bubblegum viene stemperata in una sommessa e raminga One Hundred Days, ma per il resto Lanegan ci tiene a scendere dal ruolo di messia per diventare l’interprete della voce altrui, come nel suo ultimo lavoro Imitations.

Al solito immobile e aggrappato al microfono, getta un fiato cupo su Pretty Colors che fu di Frank Sinatra, You Only Live Twice di Nancy Sinatra, On Jesus’ Program di O.V. Wright, Mack The Knife di Kurt Weill e Solitaire di Neil Sedaka. Il sangue e il corpo di Cristo si immolano nell’ovazione al profeta Lou Reed in Satellite Of Love, mentre Mescalito, Mirrored e Pentecostal creano echi sbilenchi, alla maniera di salmi letti al contrario. L’ode sinistra si chiude lì dove era iniziata con Halo Of Ashes degli Screaming Trees, mentre il tempo fa il giro dell’oca e va a gettare un  riflesso iridescente su quelle fessure che Lanegan ha al posto degli occhi, perennemente socchiusi. Chi è stato troppo nella notte fa fatica ad adattarsi alla luce, anche se dal volto cereo e spesso del crooner trapela un velo diverso, di chi sa che le tenebre alla fine bastano a se stesse. Fuori dall’ipossia, emette un altro respiro e bofonchia un: «Thank you». La possente figura umbratile lascia il pulpito girandosi di spalle, con il passo lento e pesante che hanno i cowboy e i sopravvissuti. Poi sparisce. La messa è finita. Andate in pace.

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