18/05/2007

Miles Davis

Bitches Brew (Columbia, 1970)

«Esecuzione  telepatica»: sono queste le parole usate da critici e  osservatori d’epoca per descrivere l’ Bitches Brew. Esagerati? No.  Perché se Kind Of Blue, alla fine degli anni Cinquanta, ha  traghettato l’improvvisazione dallo stadio adolescenziale (il furore  bebop) all’età adulta (il modale: concentrato sulle linee melodiche  e le loro variazioni piuttosto che il gioco degli accordi), con  Bitches Brew la musica cambia strada. Dieci anni dopo. Directions in  music, farà scrivere il trombettista sulle copertine dei suoi album.  Una provocatoria quanto caleidoscopica strumentazione. Elettrifica ed  elettrizza, Miles. Un modo di dare evangelicamente . Musica in  sintonia (e che anticipa) i tempi. Davis attacca la spina all’amplificatore.  Alza il volume. Come il rock e forse meglio, salvo eccezioni.

È  musica liquida, quella di Bicthes Brew. Musica organica. Che si  compone, si decompone, acquista forme nuove. Musica metamorfica.  Infaticabile sperimentatore, il trombettista aveva esaurito la spinta propulsiva del suo , quello con Herbie Hancock, Ron Carter, Tony  Willliams e Wayne Shorter. In Filles de Kilimanjaro s’introducono  quasi di soppiatto il basso dell’inglese Dave Holland e il piano  (elettrico) di Chick Corea. È il primo, progressivo slittamento verso  il suono del futuro. Che, si badi bene, prima e dopo Davis, è rimasto  fermo lì. Alcune novità tecniche, ma nessuna novità estetica.

La  fine del quintetto è la fine del mondo. Di un mondo ai confini con l’informale.  Libero senza essere mai free (jazz). Eppure il musicista di Alton,  nell’Illinois – dove nasce il 25 maggio del 1926, segno zodiacale  creativo e irrequieto per eccellenza: Gemelli – vuole andare oltre.  Un alchimista alla ricerca del sound filosofale. Il cui inizio è l’album  precedente a quello in esame, In A Silent Way, in cui Miles evoca e  canta il corpo elettrico (I Sing The Body Electric sarà poi il titolo  del disco-manifesto dei Weather Report di Joe Zawinul e Wayne Shorter,  entrambi protagonisti di Bitches Brew). Ricorda Dave Liebman, sassofonista intellettuale e intelligente che con Davis condivide  quegli anni fecondi: .

Motivi  commerciali? Sollecita-zioni dalla major Columbia con l’intento di  vendere più dischi? Impossibile rispondere con sicurezza. Dividendo  il suo periodo fusion in tre fasi differenti, lo stesso Liebman  osserva: so dalle normali convenzioni jazzistiche».

È un’orgia  di ritmi, suoni e timbri. L’avamposto della rivoluzione. Una giungla  di (s)concertanti polifonie. Tribale e futuribile. Arcaico e  tecnologico. Elementi contrastanti, che giocano sullo stesso tavolo  sonoro e a tutto campo. Un mix rischiosamente (post?) moderno. Dicono  che fu merito di Wayne Shorter e soprattutto di Zawinul. Oggi tutti o  quasi (sper)giurano sulla rivoluzione di Bitches Brew e sulle  intuizioni anticipatrici di Davis, capace di universi e topografie  sonore della musica prossima ventura. Tra rock, funky e jazz. Con un  sottofondo psichedelico. Sempre e comunque con una radice black  marchiata a fuoco, segno dell’identità. Ma allora, e in parte  ancora oggi, fu uno choc. Sciamano elettrico e stregone del jazz  (forse della nuova musica tout court), Miles è davvero the man with  the horn, l’uomo con la tromba, il leader che dà il segnale non  della rivolta ma dell’avvenuta rivoluzione. Lui fa ciò che gli  altri pensavano ». Sullo sfondo delle sue innovative ipotesi sonore  si muovono le ombre di Jimi Hendrix e di Sly & The Family Stone. E  con entrambi, ricorda Gianfranco Salvatore che al Davis elettrico ha  dedicato uno studio ricco di spunti, .

Non  solo. Tra le coincidenze legate alla nascita di questo album – che  segnò, più che la nascita, l’affermazione e la sistematizzazione  del cosiddetto jazz rock o, meglio, jazz elettrico – ce n’è una  che merita attenzione. La seduta inaugurale di Bitches Brew risulta  contemporanea all’inizio di Woodstock: 19 agosto 1969. Data  simbolica, da non dimenticare. E se Ornette Coleman aveva sdoppiato  nell’epocale Free Jazz il suo quartetto, Miles va oltre. Le batterie  diventano tre (tra queste, Jack DeJohnette) più un percussionista,  mentre si duplicano i bassi (normale e Fender) e i pianoforti  elettrici (Zawinul e Corea) addizionati in alcuni brani dall’organo  lisergico di Larry Young. Una sconvolgente discesa nel Maelstrom articolata in sei temi, perlopiù di lunga durata e con un ritmo  rockeggiante di base. Pharaoh’s Dance, che insieme a Sanctuary di  Shorter è l’unico brano non firmato dal leader (fa parte del  repertorio di Zawinul), comincia con un contagioso beat di batteria  intercalato da accordi di piano elettrico. Le sonorità della chitarra  di John McLaughlin – cui il trombettista dedica il tema omonimo, un  siparietto di quattro minuti – e poi del clarone di Maupin danno al  brano una tensione particolare, che il primo intervento di Miles non  scioglie. Anzi. Chiamata e risposta: questi i riferimenti del doppio  album, che nulla hanno a che vedere con il tradizionale schema  jazzistico tema-assoli-tema. Qui trionfa un dionisiaco caos (ben)  organizzato. Il di suoni che arrivano da ogni parte, di timbri che s’intrecciano  e si accavallano, di strumenti che dialogano come voci impazzite.  Drammatico nei 27 minuti della title-track. Strepitosamente solare in  Spanish Key: il tema che apriva in origine il secondo lp e dove,  passata autorevole la tromba del leader, ecco emergere il soprano di  Shorter (intonazione meravigliosa), che sembra condurre la musica  verso sentieri tutt’altro che selvaggi. Anche se, fa notare  Salvatore, .

Quindi  con Miles Runs the Voodoo Down e Sanctuary, . Una nuova cosmogonia  sonora. Dopo l’incisione di Bitches Brew, propiziata dal genio del  producer Teo Macero, niente nel jazz sarà più come prima. Per fortuna.

DISCHI DELLA  MEDESIMA VENA ARTISTICA

Bill  Laswell / Panthalassa (Columbia, 1998)
 Bassista e produttore, Bill Laswell non compare in veste di leader nel  cd ma solo nei crediti. Eppure l’operazione di remixaggio della musica  di Davis è tipicamente sua. Nei 58 minuti di questo album si ascoltano  medley da In A Silent Way e altri capolavori successivi. Temi accorpati,  incollati, espansi ma con un certo timore reverenziale.

Henry Kaiser – Wadada Leo  Smith / Yo, Miles! (Shanachie, 1998)
 Un’operazione bizzarra quanto geniale. Due improvvisatori radicali, il  chitarrista bianco Kaiser e il trombettista nero Smith, riprendono  partiture estreme del Davis afro-elettro-funky, successive a Bitches Brew. Che però fa capolino nei 34 minuti di medley Themes From Jack  Johnson, dove spunta anche la citazione di Spanish Key. Un doppio cd al  tempo stesso rispettoso e irriguardoso nei confronti di Miles. Cui,  forse, sarebbe piaciuto.

Nils Petter Molvaer / Solid  Ether (Ecm, 2000)
 Giovane trombettista venuto dal freddo (cioè dall’Europa del Nord, e  quindi lanciato dall’Ecm di Eicher), Molvaer sembra aver introiettato  il Miles più visionario. Quello di On The Corner, per intenderci, che viene fatto rivivere in chiave tecno-ambient. Effetti elettronici,  batterie ossessive, vibrazioni industriali e sonorità glaciali:  qualcuno ha detto che il mix è mono-tono, ma certo Molvaer qualche  buona idea ce l’ha.

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