28/05/2008

Neil Diamond

Home Before Dark, Columbia / Sony Bmg

È storia risaputa che Levon Helm non volesse Neil Diamond sul palco de L’ultimo valzer. Anche perché per far posto a lui, come chiedeva Robbie Robertson, si sarebbe dovuto rinunciare a Muddy Waters. Alla fine ci fu posto per entrambi e naturalmente nessuno su queste pagine vorrà mai dire che il cantautore newyorchese meriti più del leggendario bluesman. Ma certamente il buon Levon peccava di quello snobismo di cui hanno peccato per decenni generazioni di music lovers, quello snobismo che ha sempre confinato Neil Diamond nell’angolino della musica pop, intesa come una parolaccia. Che se è vero che l’oggi 67enne cantautore ha spesso ceduto alle tentazioni dei lustrini di Las Vegas, è altrettanto vero che ha scritto uno sfracello di bellissime canzoni che superano le definizioni di genere e che la sua esibizione a L’ultimo valzer fu comunque eccellente. Non era solo il batterista di The Band a storcere il naso. Incontrato Bob Dylan nel backstage, quella sera, Diamond si rivolse scherzando all’autore di Like A Rolling Stone con un “Dovrai essere molto bravo per battermi, dopo questa mia esibizione”. Al che un serafico Dylan avrebbe risposto: “Che dovrei fare, mettermi a dormire sul palco?”.

Appartenente al mondo del Brill Building, quello che nei primissimi anni 60 sfornava, grazie a talenti come il suo o quello di Carole King, formidabili successi di classifica che hanno viceversa dato dignità al concetto di musica pop, Diamond ha poi inaugurato a fine decennio la carriera di performer oltre che di autore, con brani come Solitary Man (ripresa anche da Johnny Cash) e Girl, You’ll Be A Woman Soon (la fecero gli Urge Overkill ai tempi di Pulp Fiction) solo per dirne due. Caduto nel dimenticatoio, il musicista è uno dei tanti “salvati” da Rick Rubin: tre anni fa 12 Songs, il disco che fecero insieme, usando la medesima tecnica di quelli di Johnny Cash e cioè un sound minimale fatto di chitarre acustiche e poco altro, fece ricordare a tutto il mondo che Diamond era più vitale che mai e soprattutto in grado di confezionare ancora bellissime canzoni. I due hanno rinnovato la scommessa con questo nuovo episodio, che ricalca la formula del precedente, piuttosto spingendola alle estreme conseguenze e donando così ulteriore fascino a una formula già vincente di per sé. In una lunga serie di liner notes compilate appositamente, Neil Diamond con grande franchezza racconta il lungo e per niente facile processo che ha portato al nuovo disco, nonostante le critiche estremamente positive e l’ottimo successo commerciale (oltre mezzo milione di copie vendute negli Stati Uniti) del predecessore facessero pensare il contrario. Invece, il musicista si è chiuso in una sorta di isolamento dal mondo e dagli amici per oltre un anno, nel tentativo di sfidare se stesso e la propria musa: “I quattordici mesi spesi a scrivere furiosamente e poi a registrare questo disco includono alcuni dei punti più alti della mia vita e anche alcuni dei più bassi” scrive con onestà il musicista. È un disco, questo, dove infatti il senso della sfida è quasi più importante delle canzoni stesse. I brani sono classici componimenti nello stile di Diamond, e cioè  a metà strada tra il pop e la country music; ciascuno, però, viene dilatato fino al possibile, in esecuzioni che spesso arrivano anche a 6 minuti. L’iniziale, bellissima If I Don’t See You Again supera i 7. Lo fa rallentando, crescendo e cavalcando l’onda emozionale del brano stesso e del discreto accompagnamento, dove alle chitarre si sovrappone un pianoforte e addirittura in alcuni casi l’accompagnamento orchestrale. Con Diamond, infatti, campioni del sound alla Rick Rubin come i due Heartbreakers Mike Campbell e Benmont Tench e altri musicisti, come Smokey Hormel. Pretty Amazing Grace è uno dei brani melodicamente più intensi che il cantautore abbia mai scritto e One More Bite Of The Apple tracima addirittura nel blues. Forgotten presenta una progressione di accordi in puro approccio rock’n’roll e Another Day lo vede duettare con la brava Natalie Maines delle Dixie Chicks, sorta di botta e risposta di rara grazia interpretativa. No Words è l’autore che si rivolge alla sua musa con un approccio solo apparentemente sbarazzino, per finire con la dirompente saggezza della title track.
Un disco che non è opera compiuta, ma invita l’ascoltatore ad assistere alla sua creazione, momento dopo momento, in una sorta di privilegiato invito personalissimo.

If I Don’t See You Again
Pretty Amazing Grace
Don’t Go There
Another Day (That Time Forgot)
One More Bite Of The Apple
Forgotten
Act Like A Man
Whose Hands Are These
No Words
The Power Of Two
Slow It Down
Home Before Dark

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