28/05/2007

Nirvana

Nevermind (Geffen, 1994)

La suonarono per la prima volta il 17 aprile all’OK Hotel di Seattle. Chi c’era ricorda d’essersi sentito sedotto durante l’esecuzione della strofa e scioccato dal ritornello. Una cosa così non s’era mai sentita. Eppure quella sera Smells Like Teen Spirit non era ancora il brano che milioni di persone in tutto il mondo avrebbero comperato, adorato, urlato: il testo era diverso e il suono non era quello definitivo. C’erano, però, tutti gli elementi che l’avrebbero resa una delle canzoni dei più importanti del decennio: l’irruenza, un modo unico di unire l’impatto del punk e la seduzione melodica del pop, i versi confusi eppure stranamente eccitanti. Dentro erano stipati rabbia, frustrazione, innocenza, dolore, liberazione. Cobain aveva composto il brano nel tentativo di copiare i Pixies e la loro ben nota dinamica vuoti/pieni, melodia/rumore. Temeva d’essere accusato di plagio. Pochi notarono la somiglianza con i brani di Black Francis, concentrandosi invece sul testo e sul “teen spirit”, quello spirito adolescenziale che, si sarebbe scoperto solo in seguito con stupore e ilarità, altro non era che una marca di deodorante. Solo forzandone il significato si può affermare che Smells Like Teen Spirit è una reazione confusa e disincantata alla possibilità di fare una rivoluzione giovanile, di fronte all’idea della quale Kurt si sente “stupido e contagioso”. Cobain lo definì uno sfogo: “Sentivo il dovere di descrivere quello che provavo circa quel che mi circondava e la mia generazione”. Naturalmente, convinto che l’arte migliore non svela ma nasconde, lo fece a modo suo. Incarnando la confusione che regna nei testi dell’intero album, Teen Spirit esprime la rabbia verso un mondo dominato dall’avidità degli affaristi, ma anche verso l’incapacità di una generazione di costruire un’alternativa praticabile dalla gente comune e non solo da una ristretta élite di persone chiusa e conformista. Il tutto condito da nonsenso e parole accostate senza alcuna ragione apparente. Del resto Cobain era solito scrivere i testi praticamente di getto, a volte pochi minuti prima di entrare in sala d’incisione.

Accadde ad esempio per un’altra canzone di Nevermind intitolata On A Plain, che conteneva un verso piuttosto significativo: “Che cazzo sto cercando di dire?”. Non era per mancanza di tempo o talento: era una scelta di campo. In un’epoca in cui il rock lanciava messaggi semplici e ridondanti, Cobain scelse d’essere criptico e misterioso. Nevermind divenne perciò il prototipo dell’album rock i cui testi non narrano storie compiute, ma sono costruiti incollando espressioni che raccontano la realtà in modo confuso – o, se preferite, raccontano la confusione della realtà. L’eccezione alla regola era l’acustica Polly, che prendeva spunto da un fatto accaduto nel 1987 a Tacoma, a sud di Seattle: una quattordicenne era stata rapita, violentata e tenuta segregata su un pulmino da uno psicopatico. In seguito, Cobain apprenderà con orrore e disgusto che una donna era stata violentata mentre i suoi assalitori cantavano Polly. La rivelazione diede al cantante una ragione in più per detestare la nuova fetta di pubblico acquisita con Nevermind insensibile alle idee progressiste del trio.
Il disco era nato nel maggio 1991, poche settimane dopo l’esibizione all’Ok Hotel. Con in tasca 287mila dollari d’anticipo versato dalla Geffen, i tre Nirvana avevano trasferito l’attrezzatura ai Sound City Studios, nella periferia di Van Nuys, California. I tre soggiornavano in un edificio poco distante, a Oakwood. In quel posto Kurt Cobain, Chris Novoselic e il nuovo arrivato Dave Grohl si sentirono probabilmente come ragazzi in gita scolastica con in tasca una mancia più generosa del solito, teenager con la licenza di fare danni e di ubriacarsi ad ogni occasione buona: il bassista finì in galera per guida in stato di ebbrezza e Kurt, invece di farsi di eroina, beveva sorsate di uno sciroppo per la tosse a base di codeina alternato a dosi di Jack Daniel’s. Il budget fissato per la registrazione di 65mila dollari finì per raddoppiare: era un occhio della testa per una band che aveva inciso l’album d’esordio con 600 miseri bigliettoni, era una cifra più che ragionevole per la Geffen. L’etichetta si era assicurata il contratto dei Nirvana dalla Sub Pop versando 75mila dollari più il 2% delle royalties dei due dischi successivi del gruppo. L’accordo avrebbe salvato la Sub Pop da un probabile fallimento, permettendole di raccogliere preziosissime “briciole” del successo di Nevermind. L’esempio dei Sonic Youth, gruppo underground per eccellenza che aveva firmato per la Geffen, contribuì a cambiare in molti la percezione del passaggio da una indie a una major: poteva essere un’opportunità, non solo un limite. I Nirvana sfruttarono tale opportunità.

Secondo il produttore Butch Vig, che aveva già collaborato ai demo dell’album risalenti all’aprile 1990 e che avrebbe poi fondato i Garbage, Cobain insistette affinché il suono fosse pesante: temeva di suonare troppo pop. Se a livello commerciale fu una bomba, la commistione tra idee tipiche del rock indipendente ed esigenze di una major finì per scontentare i membri della band che prima accettarono di buon grado le manipolazioni al suono del disco, e poi se ne lamentarono apertamente. “Ripensando alla resa di Nevermind”, avrebbe detto in seguito Cobain, esagerando, “oggi sono un po’ imbarazzato. È più simile a un disco dei Mötley Crüe che a uno di punk-rock”. In ogni caso, non era stato facile arrivare a quel suono. I tre musicisti e Vig lavorarono fino a 10 ore al giorno, sfogandosi con chiassose cover di Aerosmith, Black Sabbath e Alice Cooper. Vig dovette continuamente scontrarsi con la tipica ritrosia di Cobain nel prodursi in una seconda take vocale. L’efficacia e la profondità emotiva delle parti cantate immortalate su disco paiono pertanto un vero miracolo, ma è pur sempre vero che sono il frutto dell’assemblaggio di diverse performance. I veri problemi arrivarono con il missaggio di Vig, che non piacque a nessuno. Con una punta di scetticismo generale, fu chiamato Andy Wallace, che al contrario dei Nirvana era un vero professionista del settore: gonfiò e distorse il suono della batteria rendendolo più corposo, diede maggiore brillantezza alla voce e si produsse in altri trucchetti per rendere radiofonico il sound dell’album (il favoleggiato mix di Teen Spirit ad opera di Vig sarebbe poi emerso nel cofanetto With The Lights Out). L’intento iniziale era un altro. Nonostante le proteste di Vig, per incidere Territorial Pissings (introdotta da Chris che canta l’inno hippie Get Together degli Youngbloods) attaccò direttamente la chitarra elettrica al mixer; Something In The Way, che descriveva con un eccesso di fantasia le giornate passate in gioventù dal cantante sotto il ponte del fiume Whiskah, fu incisa da Cobain stravaccato su un divano, con un filo di voce; per convincerlo a raddoppiare le parti vocali, una cosa che non voleva fare per non tradire l’assunto di semplicità del disco, Vig disse al cantante che l’aveva fatto John Lennon; e alla fine della registrazione della traccia fantasma Endless, Nameless Kurt fece a pezzi la chitarra, manco si trovasse su un palco (fu proprio Nevermind a inaugurare la moda dei brani in coda agli album non indicate nella track-list, ma per errore la prima tiratura di 46.250 copie era priva di Endless, Nameless).

Quando fu finalmente pubblicato, nessuno immaginava di trovarsi tra le mani il disco rock più importante del decennio. Ci si limitava a pensare che sarebbe stato un disco underground di successo in grado eguagliare i consensi dei Sonic Youth. E invece, grazie a un incessante passaparola e alla potenza visiva dei clip trasmessi da Mtv, l’album scalò con costanza le classifiche di vendita. La prima settimana era 144°, poi 35°, quindi 17°, 9°, 4°. Approdò infine al primo posto scavalcando il re della pop music Michael Jackson. C’era una nuova generazione di persone là fuori che aspettava qualcosa del genere, un disco in grado di esprimere un sentire comune. Il messaggio stava nel suono. Il suono era il messaggio. Non era solo una rielaborazione del passato, né gettava uno sguardo sul futuro. Era il suono del presente. Era così sfrontato, energico e vitale che richiedeva un’adesione istintiva e immediata. Non lo dovevi capire, Nevermind. Dovevi provarlo.
Nel giro di pochi mesi, quel compact disc sarebbe diventato la scomoda pietra di paragone per ogni altro album rock degli anni Novanta, finendo per mettere in ombra dischi molto più venduti. Grazie ad esso, il mondo scoprì la scena di Seattle, centinaia di band iniziarono a imitare i Nirvana, il metal dovette fare i conti col grunge, i grandi vecchi del rock sembrarono improvvisamente ancora più vecchi e persino il pop, il tanto odiato pop, si adeguò al livello di rumore imposto da Smells Like Teen Spirit. Le radio FM furono invase da canzoni grezze, realiste e a loro modo visionarie, gonfie d’una rabbia vergine che non s’ascoltava da anni. Importando la mentalità underground all’interno del mainstream, i Nirvana – e con loro i Pearl Jam, i Soundgarden e gli Alice In Chains – rinegoziarono il ruolo della rock star all’interno dello show business, avendo dalla loro un’arma efficacissima: il successo commerciale. Per un attimo, tutto sembrò possibile. Per dirla con Ed Roeser degli Urge Overkill, “anche se in modo non esplicito, Nevermind manda affanculo il governo, lo status quo e gli imbecilli. E si può estendere tutta la loro filosofia all’antirazzismo, l’antisessismo, l’antifascismo e l’anticensura”. Quelli che fino al giorno prima erano gli emarginati, i perdenti vessati dai bulli della scuola, erano i nuovi trend setter.

Ben presto, e suo malgrado, Kurt Cobain fu eletto dai mass media portavoce di una generazione – un titolo ridicolo e un peso troppo gravoso per le sue spalle strette e per il suo stomaco infiammato. Milioni di ragazzi cresciuti in famiglie instabili, in un’atmosfera d’incertezza diffusa, disillusione e rifiuto, si riconobbero nelle canzoni di Nevermind. Kurt si limitò a dire che nell’album “c’è un quadro universale dei danni psicologici che tutti quelli della mia età hanno subito. La mia storia è uguale a quella del 90% della gente della mia età: i genitori divorziati, i figli che fumano erba durante gli anni della scuola, la pesante minaccia comunista, il pensiero di morire in una guerra nucleare e la violenza sempre più diffusa nella nostra società”.
La retorica giornalistica trasformò il successo di Nevermind in una rivoluzione culturale. La verità è che l’exploit del disco era frutto di una moda e come tutte le mode passò. Dei 10 milioni di americani che hanno comprato l’album, solo una minima parte esprimeva un’adesione al sistema di valori sotteso ad esso. Il successo ebbe anche l’effetto di far crescere in seno alla band una certa ostilità nei confronti della formula “verso-ritornello-verso”, rendendo profetiche le parole di In Bloom: la canzone, diretta a chi ascoltava musica underground senza capirne il senso, divenne perfetta descrizione dell’atteggiamento di una parte del pubblico dei Nirvana. Crebbe anche una tale noia nei confronti di uno spirito di ribellione con il fiato corto da portare Cobain a dichiararsi, in una canzone di due anni dopo, “annoiato e vecchio”.
Aveva 26 anni.

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