18/04/2019

Norah Jones

Dopo un paio di album poco ispirati, la Jones riparte da una manciata di brani di gran classe. Bentornata Norah

Begin Again. Ricominciare. Un verbo forte, propositivo. Norah Jones lo fa suo intitolandogli il suo ultimo disco. Ma da dove ricomincia la newyorkese Norah, figlia di cotanto, mal sopportato padre Ravi Shankar? Da un pugno di canzoni riproposte negli ultimi live e che adesso sono finite in questo nuovo lavoro. Più lungo di un EP, più breve di un album, ma non è questo che importa. Begin Again potrebbe essere un disco importante nella sua carriera, una possibile rinascita. Norah Jones, infatti, riparte da un periodo poco prolifico dal punto di vista artistico (e di vendite). Foreverly, tributo agli Everly Brothers realizzato con Billie Joe Armstrong (?) aveva fatto storcere il naso ai più. Day Breaks del 2016 era un rifugio nella confort zone del jazz pulito, patinato. Un rifugio di lusso, sia chiaro, ma senza spiragli di aria fresca. 

Begin Again è un nuovo inizio, l’anno zero artistico di Norah Jones. Lo canta esplicitamente (nelle intenzioni e nell’arrangiamento) in My Heart is Full (“Risorgerò […] usando le mie braccia/le mie gambe/le mie mani/il mio cuore/la mia voce“), un gospel dondolante su un tappeto volante elettronico. Niente male come incipit. La titletrack, a seguire, amplifica il concetto. Canzoni disperate e di speranza, rivolte a tutti: a te che stai leggendo questa recensione e magari ascolterai il disco, alla stessa Jones, finanche al proprio Paese (“Può una nazione costruita sul sangue/trovare la sua via d’uscita dal fango? […] Possiamo ricominciare?“).

Ma Norah, non dimentichiamolo, è anche interprete sensuale: It Was You è notturna, languida, ma con una maturità sorprendente. In mani inesperte sarebbe scaduta in un banale, ritrito jazz-lounge stucchevole, ma nelle dita e nella voce di Norah diventa di gran classe. Il folk sognante e decadente di A Song with no Name, scritto insieme a Jeff Tweedy dei Wilco, è sicuramente il momento migliore dell’album. Commovente. Sorprendente è, invece, Uh Oh: una ballata soul tutta tastiere, piano e coretti mozzafiato. Non manca una piccola concessione ai suoni delle origini con Wintertime, tanto per ricordarci che sei grammy e trenta milioni di dischi venduti solo con i primi due lavori non sono un caso. L’apparentemente tenera Just a Little Bit è una perla che si incastona a chiusura dell’album. Un atto d’accusa verso la violenza sulle donne, cantata da una voce vellutata ma al tempo stesso risoluta. Da sottolineare l’accompagnamento armonioso del sassofono di Leon Michels e della tromba di Dave Guy. 
 
In conclusione, questo mini album potrebbe essere l’anteprima di una nuova fase artistica per Norah Jones. Sarà così? Chissà. Intanto il consiglio è quello di farsi accarezzare da questa manciata di canzoni di grande eleganza. Merce rara di questi tempi.

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