06/05/2015

Pop, Jazz And Love: il ritorno di Sergio Caputo

Un atipico come Neil Young che incontra Santana e canta in cucina
(foto di Cristina Zatti)
 
Quando non si cimenta con la pasta fatta a mano, in cucina ci canta. Ricorda di aver incontrato Carlos Santana mentre stava fotografando un coyote, ascolta gli America e si sorprende ancora per le settime aumentate, ha sempre lo smartphone pronto per registrare nuove idee, pensa e scrive in inglese e ha tanta voglia di palco. Troviamo un Sergio Caputo sereno, rilassato e pago del buon responso che sta ottenendo Pop, Jazz And Love (Alcatraz Moon Italia). E dire che non pubblicava un lavoro di inediti da ben undici anni e che questo è il suo primo disco in inglese, eppure il pubblico ha gradito, accogliendo con gioia il suo ritorno dal vivo a Roma (Auditorium Parco della Musica) e Milano (Salumeria della Musica). Il 15 maggio è in programma la terza data del nuovo tour, all’ObiHall di Firenze. Per l’occasione Caputo ha tirato fuori uno dei suoi deliziosi video ready made (www.youtube.com/watch?v=NjfPKYBajvU), nel quale compare invecchiato, imbiancato e un po’ rimbambito ma pronto a chiamare a raccolta i suoi.
 
Tutt’altro che uno zoccolo duro, vero Sergio?
Ma certo! Questo video che promuove il concerto del 15 maggio è nato per prendere in giro quei giornalisti che non si spiegano come mai io sia ancora qui a fare musica e per sminuirmi rispondono che sopravvivo grazie al mio zoccolo duro di fan… come se i miei ascoltatori fossero solo nostalgici sessantenni, tutt’altro! I concerti di Roma e Milano, che sono andati davvero molto bene, mi hanno fatto scoprire tanti giovani e sono certo che anche a Firenze ci sarà la stessa risposta.
 
That Kind Of Jazz uscì nel 2004, undici anni dopo arriva Pop, Jazz And Love. Un periodo molto lungo, nel quale però non sei stato fermo…
Niente affatto, anzi: questi nuovi pezzi sono nati spontaneamente, sia la musica che i testi. D’altronde è un periodo in cui mi risulta molto facile mettere giù i brani, favorito come sono anche dalla tecnologia che consente di fissare meglio le idee. Pensa che sto già scrivendo i nuovi! L’altro giorno ero a un mercatino e mi è venuto un pezzo fortissimo, ero lì e non sapevo come fare, allora mi sono messo in disparte e me lo sono canticchiato sul telefonino…
 
Il tuo precedente album di inediti era strumentale, Pop Jazz and Love è un ritorno al cantato. È tutta qui la differenza?
Devo riconoscere che ambedue gli album risentono della mia esperienza americana. Hanno una relazione molto stretta a pensarci bene, soprattutto lo stile chitarristico deriva dal mio soggiorno in USA. Quel mio primo disco americano era solo chitarristico anche perché ero da poco arrivato lì, non ero molto sicuro di poter trasporre in inglese il mio mondo letterario e non aveva senso riadattare i miei testi italiani, invece paradossalmente una volta tornato in Italia ho cominciato a scrivere in inglese…
 
Infatti per la prima volta non canti in italiano, la cosa creerà qualche malumore.
Beh, devo dirti che già qualche ascoltatore ha espresso delle perplessità, però nonostante i commenti negativi sono sicuro della scelta, a maggior ragione visto che è stata davvero naturale. Come ho detto spesso negli ultimi tempi, l’inglese è la lingua ufficiale della musica, siamo tutti venuti da lì, siamo tutti cresciuti con quella musica. Qualche giorno fa ascoltavo gli America in cucina mentre ero alle prese con la mia pasta fatta a mano e mi ricordavo dei miei inizi, quando ebbi modo grazie a loro di scoprire delle interessanti sequenze armoniche. In fin dei conti provengo da quel sound, chiamalo West Coast o folk-rock, ma è diventato naturale per me esprimermi in inglese.
 
E perchè solo ora hai compiuto questa scelta?
C’è un motivo, ed è dovuto alla conoscenza del pubblico. Il pubblico non sempre è pronto ad accettare e assorbire le novità proposte da un nome “storico”: me ne sono accorto di recente, quando ai concerti hanno cominciato a chiedermi pezzi da I love jazz, un disco del 1996! Anche dal vivo negli ultimi concerti a Milano e Roma non ho scaraventato addosso al pubblico tutti i pezzi nuovi, solo quattro e ben distribuiti nel contesto generale, alternando brani storici a titoli nuovi. A mio avviso la musica italiana non esiste, è un mito, una favola. Il rock e il jazz sono nati in USA, quello che noi ascoltiamo nei club in Italia non è che un rifacimento. Non sottovalutare quanto è difficile poter uscire dal giro dei soliti standard, da My Funny Valentine a My Favourite Things… Inoltre per quanto riguarda la mia intenzione musicale, mai come in questo momento sento la necessità di comunicare ad un ambiente più ampio, di non autorecintarmi.
 
In questo senso immagino sia ancora influente la tua esperienza americana.
Attenzione, anche all’estero si rinchiudono nei loro ghetti un po’ come in Italia, ci sono le mafiette anche lì, che spesso corrispondono al colore della pelle o alla provenienza geografica. Gli americani come li immaginiamo noi non esistono, non ci sono i dialoghi hollywoodiani scritti dagli autori e affidati agli attori famosi… Una volta arrivato in America ho seguito un iter un po’ diverso da quello di un normale italiano all’estero: ho voluto affrontare dal di dentro una cultura diversa, mi sono rimboccato le maniche e ho capito che il loro approccio verso ogni cosa è assolutamente empirico. Da musicista mi sono accorto che hanno schematismi musicali anche loro, però mi sono immerso nella loro cultura, da illustre sconosciuto ho subito cercato di mettere in piedi una band (ero l’unico della band ad aver già suonato con me…) e alla fine ne sono uscito con una mentalità completamente diversa.
 
Mentalità che però in parte avevi già da prima.
Certo, io sono partito “americanamente” già negli anni ’80, quando ascoltavo dagli Eagles a Charlie Parker, con un approccio ancora una volta empirico. Per me tutto era – ed è ancora – basato sull’orecchio, nel senso che l’orecchio detta legge poiché intendo la musica come un fatto di gusto e gradevolezza. Da noi invece prevalgono altri canoni: ad esempio si tende ad annegare le canzoni nell’arrangiamento, io invece concepisco la musica per quartetto o quintetto e mi fermo lì, senza esagerare! Inoltre se uno strumento suona in una certa ottava, gli altri strumenti non devono rompere le palle, rendendo gli album immixabili…
 
A proposito, in questo lavoro la tecnologia ha un ruolo importante.
In America avevo deciso – molto ingenuamente a dire la verità – di aprire uno studio, ora invece lavoro su laptop: a metà degli anni ’90 questa possibilità non c’era, ora invece se non hai un budget elevatissimo che ti consenta di affrontare il tassametro di uno studio di registrazione, questa opportunità informatica è utilissima. Ad esempio nel nuovo disco il basso l’ho suonato io, da solo, e per motivi di tempo, visto che non è semplice e immediato registrare delle buone linee di basso: se chiami un bassista bravo lui suona sugli accordi, ma le frasi devono essere studiate bene, compatibilmente con il pezzo, e ci vuole del tempo.
 
Sembri molto a tuo agio con la filosofia del Do It Yourself: è una scelta consapevole e voluta o semplicemente una necessità?
Spesso mi capita di vedere servizi televisivi con miei colleghi ripresi in questi studi clamorosi, che costano moltissimo e dei quali non si useranno mai tutte le potenzialità, e rifletto su quanto siano riluttanti a fare a meno delle etichette. Se invece uno, come ho fatto io, mette in piedi una propria label, allora decide tutto da sé, comprese le direzioni promozionali. Non è poco se pensi che le etichette ai tempi d’oro mangiavano tutti i ricavi. Da tempo sostengo con convinzione che è meglio vendere mille copie e guadagnare qualcosa piuttosto che venderne cinque o dieci volte tanto facendo guadagnare il grosso alle label, che tra l’altro non stampano più di due/tremila copie… Però la chiave per poter fare a meno dell’industria discografica e lavorare in proprio è una sola: bisogna avere la capacità di fare da soli e la sicurezza nei propri mezzi musicali e strumentali.
 
Non sei un nostalgico dei tempi d’oro della discografia, come è emerso anche nel tuo recente sfogo contro “Radiopoli”.
Assolutamente, mi trovo centomila volte meglio ora! Però bisogna sottolineare una cosa importante: quando le etichette contavano realmente, come la RCA ai tempi del mio primo disco, avevo la possibilità di fare 150 passaggi televisivi, però questo accadeva non tanto per la forza delle label, ma perché i media erano aperti alla musica, oggi no! Oggi i media sono cambiati in peggio, per andare in tv i rapper sono diventati degli opinionisti o se ti invitano è per andare a fare il caso umano, non per suonare. Molti oggi mi scrivono e mi chiedono consigli sui primi passi da compiere nel mondo della musica e io dico sempre: niente etichette! All’epoca tutti i cantautori, da Baglioni a Venditti, firmarono quel tipo di contratto, che alla lunga ha mostrato cos’era l’industria discografica. Ad esempio le antologie: da una parte le fai per motivi artistici, perché magari dopo alcuni anni scopri le potenzialità di una canzone che all’inizio avevi snobbato o per l’esigenza di attualizzare il tuo repertorio, ma dall’altra parte le fai per avere il master, visto che sulle antologie, sulle collane economiche o sulle versioni straniere le percentuali per l’artista diminuivano…
 
I nuovi pezzi provengono dall’ultimo decennio o sono nati tutti insieme?
Pop, Jazz and Love è nato di getto, con grande spontaneità, tutto nell’ultimo anno. L’Iphone e il laptop mi hanno aiutato a non disperdere l’ispirazione, inoltre c’è stata una buona capitalizzazione della scrittura, pensa che i testi sono nati in media uno al giorno, dunque con grande velocità. Rapido è stato anche il reclutamento dei musicisti, coinvolti a seconda del pezzo: quando il compositore ha le idee molto chiare e non c’è il filtro del produttore le cose vanno più velocemente. Mi piace molto l’idea di seguire personalmente l’evolversi delle registrazioni: ad esempio il sassofonista Massimo Zagonari ha suonato esattamente come avrei suonato io e come richiedeva il pezzo; a volte sugli obbligati chiedo nota per nota, ma su parti più libere o sugli assoli lascio ampia libertà.
 
E la voce è stata registrata in cucina…
Una delle mie grandi passioni è la cucina, dove passo molto tempo, tante canzoni in forma preistorica le ho canticchiate qui, dove c’era un suono che mi ispirava molta tranquillità. Inoltre le pentole appese forniscono un plate naturale che gli studi insonorizzati non hanno, visto che il suono non rimbalza: non è un caso che gli Stones e altri gruppi storici abbiano registrato in ville o cantine, o in fattorie. Mi hanno raccontato che ai primi tempi della Motown, a Detroit, gli studi avevano un buco nel muro che dava sul cortile, ma una volta trasferitisi a Los Angeles non riuscirono a replicare quel sound! Poi ovviamente tanto dipende dalla microfonazione, alla quale tengo molto, ad esempio quella della batteria, per la quale prediligo tre panoramici, come se la si ascoltasse dal vivo.
 
A proposito di ascolto, come vivi l’evoluzione/involuzione dei supporti? Sei partito con i vinili, passato ai cd e ora nel pieno del digitale.
In maniera molto serena, anche perché ogni supporto presenta vantaggi e svantaggi. Premesso che tutti i miei vinili sono rimasti dalla parte sbagliata del mio divorzio, molto dipende da chi sei, da come suoni e da come registri. Della registrazione in vinile apprezzavo la minor distorsione, ma non capisco tante elucubrazioni sul suono del vinile, d’altronde se ascolti girato di spalle non è così semplice capire da quale supporto arriva il suono…
 
Un tuo vecchio ascolto di gioventù, ovvero Santana, torna in Bachata que luna e Just a fallen angel, dove ci sono atmosfere e suoni di chitarra che portano proprio lì…
Certo, per una mia questione di gusto. Tra l’altro lui in California una volta l’ho conosciuto, viveva accanto a me, però l’ho incontrato in modo strano. Mi ero fermato in alto, su una collina di fronte al mare, a fotografare un coyote, ero lì e un’auto si ferma accanto a me, dal finestrino un tizio mi dice un po’ di cose sul coyote, lo guardo bene ed era Carlos… Lo ammiro da sempre, nonostante sia stato criticato è uno che ha suonato con i big del jazz dai quali è molto apprezzato. Condivido la sua filosofia del suonare note lunghe e lente mentre la base ritmica è frenetica. Insomma non è uno che si perde nel voler dimostrare virtuosismi e velocità. L’idea di note lunghe e intense su ritmiche frammentate mi ha sempre colpito molto.
 
Non ti sei neanche fatto mancare del reggae in I only wanna be myself.
È il pezzo che chiude l’album, nato quasi per caso: mi avevano regalato un ukulele, stavo cazzeggiando ed è venuto fuori questo ritmo così, un po’ rilassato, il pezzo è nato subito. Non c’è nulla di più bello che essere liberi, non precludendosi nulla, scoprendo che magari hai persino tirato fuori uno dei tuoi pezzi preferiti.
 
È una filosofia che ti ha reso “irregolare”, non un cantautore nè un uomo di jazz. Questo tuo essere inafferrabile ti ha giovato o ti ha compromesso?
Beh, quando sanno chi sei e cosa suoni sanno come prenderti, questo è fuori discussione. Ad esempio in USA non esiste la figura del cantautore come la intendiamo noi: esiste il songwriter, che all’occasione diventa un performer con una band, per niente associato alle valenze ideologiche che con il passare del tempo finiscono inevitabilmente per stancare e invecchiare. Credo che i temi che tratti possono invecchiare, ma le emozioni mai. È una cosa estranea alla musica americana, persino Bob Dylan continua a stupire cambiando direzione, vedi l’ultima sua uscita da crooner: a lui non gliene frega niente, la sua personalità è talmente forte che può fare di tutto. Io mi sento come lui, come Neil Young: una figura atipica, ma atipica solo qui da noi…

 
 

 

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