21/03/2007

Ry Cooder

Per le strade di Chàvez Ravine

Svanita l’eco delle collaborazioni africane, abbandonati i ritmi dell’amata Cuba, Ry Cooder ha impiegato gli ultimi tre anni di lavoro per mettere a punto un nuovo progetto che lo riporta a casa, nella sua California, o meglio a Los Angeles, la città riferimento della sua infanzia.
Dalla nativa Santa Monica, al giovane Ry basta percorrere poche miglia per venire abbagliato dalle luci e dalle vetrine che espongono il meglio che un ragazzo possa desiderare. L’unico problema è attraversare la periferia, quella terra di nessuno che si inframmezza a downtown e ne impedisce il godimento immediato, che antepone casupole e sporcizia alle attrazioni più intriganti, che separa il fango dai marmi. È strano, ma è proprio questa periferia, con la sua semplicità e l’attaccamento alla tradizione più schietta che finisce paradossalmente col creargli maggiore interesse, col colpire la sua fantasia. L’East Side della città degli angeli non regala nulla di mozzafiato eppure la componente chicana con la vivacità delle sue musiche e la filosofia di vita diventa in breve un riferimento importante per Cooder che finisce con interiorizzare in modo importante quello stile di vita.
“Raggiungere West Los Angeles voleva dire immergersi nel futuro, perdersi nel sogno borghese di qualsiasi famiglia per bene americana” mi dice Ry Cooder durante una chiacchierata telefonica. “Fermarsi nella periferia est significava invece tornare all’incertezza e povertà del passato, fare un autentico tuffo nella tradizione che, nel migliore dei casi, si poteva utilizzare per coniugarla al presente con qualche suo aspetto particolare. È in questa parte di Los Angeles che si evolvevano musiche meticcie dai ritmi straordinari, che imperversavano personaggi come Lalo Guerrero, padre della musica chicana, Don Tosti, re del pachuco rock, Ersi Arvizu, Little Willie G., leader dei Thee Midnighters, gente di gran talento che non è mai arrivata alle orecchie dei più, ma che è stata salutata come un autentico mito dalle comunità messicane presenti in California”.

Chávez Ravine era un quartiere di East Los Angeles in cui si era stratificata la tradizione popolare degli emigrati messicani, dove la maggior parte della popolazione non sapeva neppure parlare inglese. Una coesistenza difficile, non priva di violenze, spesso provocate dagli inquieti e annoiati giovani americanos che superavano la linea di demarcazione del quartiere per “dare una lezione” agli incivili chicanos. Una sorta di piccola vergogna da cancellare al più presto per lavare la cattiva coscienza e nascondere le pesanti incongruenze del sogno americano che condanna ai margini della società la fetta più povera della popolazione in cambio dell’arricchimento sempre maggiore di chi detiene il potere.
“C’erano gli intrighi politici che volevano favorire gli interessi dei costruttori e quindi lasciare spazio ai quartieri residenziali che cercavano nuovi territori su cui sorgere. Per fare questo i conservatori non esitarono ad assecondare strumentalmente le idee del senatore McCarthy che vedeva nelle frange più povere della società un pericolo eversivo e spesso comunista da combattere. La storia di Chávez Ravine mi ha sempre portato alla memoria un vecchio disco a 78 giri di Roy Rogers che ascoltavo da bambino. Erano canzoni western che raccontavano storie dell’epopea della colonizzazione dell’Ovest, che narravano delle espropriazioni delle proprietà dei rancheros che si trovavano su terreni ambiti da politici corrotti. Le storie finivano immancabilmente con la sconfitta dei rancheros, ma l’ingiustizia veniva in parte compensata dal fatto che ai vincitori succedevano cose tremende”.
Agli inizi degli anni 50 Chávez Ravine viene raso al suolo dalle ruspe “per lasciare spazio al progresso”, sotto forma di stadio di baseball. “Di come vivesse la gente in quel periodo non ricordo quasi nulla” continua Cooder “la memoria mi rimanda solo ad alcune fotografie che ritraevano la gola di Chávez e i visi di alcuni suoi abitanti. Ho invece ben presente quando vennero rase al suolo le case popolari e i piccoli spazi comuni che gli abitanti del posto si erano ricavati”.
Strano modo di pensare per un figlio della borghesia che preferisce la musica spuria della contaminazione e l’economia da vicolo della comunità messicana alla main street abbagliante. “Non mi sono mai piaciute le inferriate che circondano le proprietà di Santa Monica e i praticelli perfettamente rasati dei giardini circostanti le residenze. Fin da bambino mi davano un senso di tristezza: ho sempre preferito cimentarmi con la storia e i misteri che invece mi istigavano ad approfondire le conoscenze. Gli stimoli giusti mi sono sempre arrivati dai dubbi, le certezze mi tolgono qualsiasi piacere di ricerca”.
Questo disco può allora essere inteso come una grande metafora per parlare della situazione sociale dei chicanos e del loro modo di vivere in una grande città americana all’inizio degli anni 50, forse addirittura come un progetto nostalgico per riportare alla luce il ricordo di un ambiente che ha scandito le prime influenze di un giovane ragazzo alla ricerca della propria identità. “Certo, potrebbe essere inteso anche in questo senso, ma credo che più di ogni altra cosa abbia influito l’amore per quella musica che davvero mi ha aperto un universo sonoro particolare, completamente differente da quello che proponevano le radio e che cantavano i miei coetanei. In quelle musiche era concentrato tutto il patrimonio popolare del Messico e dell’America, c’era il rhythm’n’blues che si sposava con il conjunto, il jazz con il corrido, c’era il latin pop, il tex-mex, era un’autentica sbornia di sonorità che mi eccitavano tantissimo”.

Le quindici tracce che costituiscono Chávez Ravine sono allora le tessere di un grande mosaico che vuole rappresentare, in tutte le sfaccettature, la vita di quel quartiere che si trovava sulla collina, uno spaccato socio culturale che fotografa una realtà attraverso la lente amplificata del ricordo, capace sì di cogliere le effettive presenze, ma anche di potenziare certi aspetti particolarmente cari.
Per portare avanti il progetto Cooder si è circondato, come sempre in modo quasi maniacale, delle persone giuste. Ha recuperato i musicisti della sua infanzia per far loro mettere in musica quello che ricordano di quei tempi, ha ripescato vecchi brani per rielaborarli col consueto gusto e la giusta pertinenza stilistica, tessendo come un sapiente artigiano le maglie della prospettiva storica. Quello che ne esce, però, è un lavoro che inneggia al passato con intuizioni del presente: Chávez Ravine non è un disco in qualche modo antologico, stereotipato nella sua essenza antica, piuttosto una pennellata impressionista che non può prescindere dalla sensibilità e dal punto di vista dell’autore stesso. “I dischi non sono pezzi da museo” dice ancora Cooder “devono essere in grado di raccontare tenendo presente anche le esigenze di chi ascolta. Quando si decide di fare un lavoro come questo bisogna avere le idee molto chiare: o si sceglie di fare un documentario oggettivo di ciò che è successo in un determinato contesto, o si sceglie di rappresentarlo nella sua concretezza rivisitata dall’autore. Questo non significa falsare la realtà, vuole semplicemente dire ripercorrere le stesse tappe con la propria sensibilità e rappresentarla attraverso i propri sensi e la propria esperienza. Prima di iniziare il lavoro ho studiato al meglio Chávez Ravine. Sono andato a ricercare l’esatta topografia del luogo e la sua storia, in sostanza tutto ciò che non potevo sapere di preciso e poi l’ho mescolato ai miei ricordi di ragazzino: è così che il progetto si è sviluppato”.
Se si guarda il booklet che accompagna il disco si possono infatti vedere rappresentati la mappa del barrio ispanico e alcune suggestive fotografie del quartiere, accompagnate da altre che raffigurano molti personaggi trattati nelle canzoni. Ci sono tutti i testi in inglese dei brani con la traduzione in spagnolo, anche se in molti casi la lingua spagnola entra a far parte lei stessa della canzone per dare un’immagine più propria della storia narrata.
A dimostrazione dell’entusiasmo che ha contagiato Ry Cooder durante la lavorazione del disco ci sono alcune canzoni in cui lo stesso Cooder ha deciso di cantare, dopo molto tempo che non lo faceva più. “Sì, avevo abbandonato il canto da parecchio tempo. Non credo di avere una voce particolarmente bella e negli ultimi dischi ho cercato di esprimere le mie sensazioni unicamente con la musica. È una scommessa importante per un musicista perché il canto aiuta sempre un po’ a qualificare l’espressione più schiettamente sonora. In questo disco ho cantato in quattro brani, anche se in un paio sono stato affiancato dalla splendida Juliette Commagere. Sono canzoni scritte da me, per cui ho creduto fosse giusto interpretarle anche vocalmente. Le ho sentite particolarmente mie”.
Al contrario di Buena Vista Social Club, la lavorazione di Chávez Ravine non è stata accompagnata dalla realizzazione del film, anche se avrebbe potuto destare grande interesse. “Come sto regolarmente facendo con tutti gli ultimi lavori, anche questa volta ho affidato al filmmaker Stacy Peralta il compito di documentare tutte le nostre sedute di registrazione. È un metodo che dà i suoi frutti perché testimonia le posizioni dei musicisti in studio, i taciti accordi che si stipulano mentre si suona e altre piccole cose che hanno la loro importanza nel momento in cui si ascoltano i risultati della session. Se qualcosa non convince la prima cosa che faccio è un controllo visivo di quel che è successo. Per il resto, questa volta, non andrò oltre: non ci sarà nessun film che parlerà di Chávez Ravine”.
Portare in tour un lavoro del genere comporta grossi problemi. Se si vuole rimanere fedeli all’operazione originale bisogna esibirsi con gli stessi musicisti dell’album, ma visto che Guerrero e Tosti sono recentemente scomparsi e che altri sono troppo anziani per impegnarsi in un’operazione così faticosa, è difficile pensare a una realizzazione di questo tipo. Di fatto è lo stesso Cooder, da tempo lontano dalle luci dei palcoscenici, a non dimostrarsi possibilista, anche con un organico riveduto. “Non credo sia possibile rappresentare in modo credibile, su un palco, tutta l’emozione che c’è in questo disco. Le canzoni in studio sono state studiate meticolosamente, ma è stato l’apporto stilistico ed empatico dei musicisti che hanno vissuto quell’epoca a creare l’atmosfera irripetibile di quelle sedute. Non è possibile pensare all’assenza di nessuno di loro per mantenere lo spirito di queste canzoni. Meglio evitare fraintendimenti”.

In realtà Ry Cooder sembra sempre più deciso ad abbandonare l’attività live, visto che non suona più nemmeno col grande amico David Lindley con cui ha condiviso la sua ultima tournée europea. “Sto sempre più maturando la convinzione che il palcoscenico crei una frattura tra i musicisti e il pubblico. Quando suono le mie canzoni ho bisogno di confrontarmi con gente che mi conosce bene, che sa quello che sto suonando e che apprezza non tanto la capacità esecutiva quanto i sentimenti che hanno generato le canzoni stesse. In concerto invece c’è un pubblico eterogeneo, spesso fatto di curiosi che, in assenza di un background particolare, non possono essere in grado di seguirmi fino in fondo. Per il momento non ho grandi stimoli ad esibirmi, in futuro si vedrà. Per quel che riguarda Lindley, non lo vedo da un po’ di tempo, ma ci sentiamo spesso e continuiamo ad essere buoni amici”.
Vista la pubblicazione recentissima di Chávez Ravine è prematuro chiedere a Ry Cooder quali siano i suoi prossimi interessi da traslare in musica, ma dopo avere tratto spunto da America, Africa e Asia, potrebbe non essere inverosimile vederlo puntare le antenne sulla vecchia Europa.
“L’Europa ha una storia molto interessante, ma è già stata in gran parte sviscerata. C’è però la cultura mediterranea che mi intriga da sempre perché coinvolge una geografia vasta e variegata: chissà che possa essere oggetto in futuro di qualche particolare approfondimento”.

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