30/03/2007

Simple Minds

All Tomorrow’s Parties

Cominciamo dalla fine. Da quando, cioè, Jim Kerr mi congeda raccontandomi dell’ultimo concerto che ha visto: gli U2 a Glasgow, Scozia. “Prima dello show incontro per una mezz’oretta Bono. Mi dice di seguire con attenzione lo show, che mi sarebbe piaciuto. Be’, sai che è successo? Che gli U2 hanno aperto il concerto con un paio di versi della nostra Up On The Catwalk. Capisci?”

Capisco. Guardando negli occhi il cantante dei Simple Minds, 42 anni compiuti lo scorso luglio, comprendo che dentro di lui è sopravvissuto lo spirito del fan che 25 anni fa batteva i locali di Glasgow sognando di essere David Bowie. Lo stesso spirito che aleggia nelle dieci cover di Neon Lights, l’album al quale i Simple Minds affidano le speranze di risalire la china della popolarità e del vigore artistico dopo un decennio incolore.

Se non è un ritorno alle origini, poco ci manca. Kerr e il chitarrista Charlie Burchill hanno scelto soprattutto brani che rappresentano le radici del gruppo: Van Morrison (una deludente Gloria), Kraftwerk (Neon Lights), Patti Smith (Dancing Barefoot), Doors (Hello I Love You, bruttina), Neil Young (The Needle And The Damage Done), Velvet Undergound (All Tomorrow’s Parties), gli imprescindibili Bowie (The Man Who Sold The World) e Roxy Music (For Your Pleasure). Perché, come afferma Jim con quella sua sgraziata cadenza scozzese, “la musica che ascolti quando hai 14, 15 anni ti segna per la vita. È un periodo di grandi cambiamenti, quello. Ti poni domande fondamentali sul tuo orientamento sessuale, i tuoi sogni, le tue piccole ambizioni d’adolescente, le tue insicurezze. La musica aiuta a definire la tua identità”.

È esattamente quel che accadde al giovane Jim nei fatidici anni Settanta. Perché di questo si parla: di anni Settanta. Scorrendo l’elenco delle canzoni di Neon Lights si notano solo due brani di autori contemporanei ai Simple Minds, Homosapien di Pete Shelley (dei Buzzcocks) e Bring On The Dancing Horses di Echo & The Bunnymen. Non è un caso. “Proprio no”, ammette Kerr. “Non voglio apparire lamentoso o nostalgico, ma all’inizio degli anni Settanta la musica aveva ben altro peso rispetto ad oggi. È un dato di fatto. Il rock era roba da carbonari. Non c’era Mtv, gli ipermercati non vendevano i 33 giri, l’industria discografica non era così tentacolare. Insomma, il rock dovevi andare a cercartelo, non te lo sbattevano in faccia. Era una sottocultura. Lou Reed era una sottocultura. Peter Gabriel era una sottocultura. Persino David Bowie all’inizio era una sottocultura: non vedevi in giro persone abbigliate come lui, non leggevi altrove testi come i suoi. Ho sempre invidiato la mia ex moglie, Chrissie Hynde, perché era originaria del Midwest americano e conosceva il blues, il country, la psichedelia, il Motown Sound. Mi raccontava di avere acquistato il primo album di Bob Dylan e di non avere visto un’altra sua foto fino a quando è uscito il secondo! A quei tempi la pubblicazione di un album era. una magia”. Una magia svanita? “Io li ascolto i nuovi gruppi, ma non sento niente di radicalmente diverso da, chessò, i Kinks o Bowie. È musica che passa e che tra due anni manco ricorderemo più. Ma forse sono solo diventato cinico.”

Che poi Neon Lights non sia un album memorabile è tutt’un altro discorso. Per dirla con Kerr, “le cover uno le fa soprattutto per divertimento. Per se stesso, mica per gli ascoltatori”. Sacrosanto. “Anche se c’è un lato serio: fare una cover significa aderire a una cultura. Come dire: io faccio parte di questa tradizione. Mi ci identifico.” Verissimo. “E poi c’è un’altra cosa: una buona cover deve tradire l’originale. Essere irriverente. Ecco perché il mio brano preferito del disco è Neon Lights, perché inverte il processo di robotizzazione dei Kraftwerk, donando al brano umanità ed emozione. E comunque, quando fai una cover, devi avere bene in mente che sei un perdente in partenza, che non ce la farai mai a pareggiare con la versione originale.” Già, forse è anche per questo che i brani migliori dell’album sono quelli sconosciuti, e che classici come Gloria e Hello I Love You fanno una ben magra figura messi a confronto con la vellutata For Your Pleasure o la straniante Neon Lights. In quanto ai testi, aggiunge Jim, “ci piace l’idea di avere interpretato All Tomorrow’s Parties. Solo dopo avere iniziato a cantarla ho capito che parla della fine di un’epoca, quella folle e sregolata di Andy Warhol e della Factory. Ci sembrava appropriata”.

Nel caso dei Simple Minds, le cover sono anche un modo per far circolare di nuovo il nome del gruppo nel mondo del rock, in attesa del nuovo album di canzoni autografe previsto per marzo. Il fatto è che la ‘gestione’ della carriera dei Simple Minds è un po’ sfuggita di mano al gruppo. Dopo Neapolis (1998) la band incise un ultimo album per la Emi, Our Secrets Are The Same. Ma non venne mai pubblicato. “Alla Emi ci dicevano che il disco era bello, che ci credevano. A noi piaceva: molto vario, diverso da Neapolis, con brani minimali e acustici. Passava un mese, tre mesi, sei mesi, ma la Emi non lo pubblicava. Il momento non era commercialmente propizio per i Simple Minds e la Emi attraversava una fase di ristrutturazione. Fatto sta che il nostro album finì nel dimenticatoio. Alla fine l’ho messa sul piano personale e ho fatto capire loro che quel disco è un pezzo della nostra vita. Ci hanno detto: non arrabbiatevi, vi rispettiamo. E noi: stronzate, ridateci l’album piuttosto! E pensare che per 20 anni abbiamo fatto la loro fortuna. Siamo passati alle vie legali.”

Com’è finita? Non è finita. Un dj spagnolo è entrato in possesso di una copia di Our Secrets Are The Same e l’ha trasmesso integralmente; l’album è finito nella Rete in versione MP3 ed è stato venduto in versione pirata ai fan più accaniti. Ma la Emi è ancora in possesso del disco. “Be’, ogni band che si rispetti ha un disco fantasma, no? Ci siamo rassegnati e abbiamo già inciso un altro album, questo molto pop, che verrà pubblicato dalla nostra nuova etichetta, la Eagle. Il venerdì per scaricare la tensione ci trovavamo a suonare cover. Ecco com’è nato Neon Lights. Avremmo potuto intitolarlo The Friday Night Sessions. Siamo tornati ad essere una cover band.”

I Simple Minds una semplice cover band? Eppure durante gli anni Ottanta – diciamo da New Gold Dream (1982) a Street Fighting Years (1989) – i Simple Minds rappresentarono qualcosa. Una speranza, forse; sicuramente uno slancio. Il problema, semmai, è che non seppero articolare meglio quel qualcosa. “Ma riuscimmo a cogliere lo spirito dei tempi”, controbatte Jim. “Sapevamo che la gente ci ascoltava. Perché allora non azzardare qualcosa di più di Be Bop A Lula o di. be’, sì insomma, di Don’t You (Forget About Me)? Portammo il rock a un altro livello, dimostrammo che poteva prendere posizione: per Nelson Mandela, contro la fame nel mondo. L’immagine comunemente diffusa degli anni Ottanta – Reagan, la Thatcher, l’ambizione sfrenata, l’avidità, Wall Street – non è l’unica. Considera le cose positive: c’era una coscienza sociale diffusa, a mo’ di antidoto a Reagan e alla Thatcher; il Muro di Berlino venne giù; finì l’apartheid. Guardavo quel che accadeva in Polonia e mi dicevo che sì, il mondo stava per cambiare. Forse ero ingenuo, ma l’energia era positiva.”

Qualcuno probabilmente ne approfittò: alcuni gruppi andarono al Live Aid per fare passerella. “Può darsi. La verità è che se non fai niente ti criticano, se fai qualcosa ti criticano lo stesso. E comunque le intenzioni di Bob Geldof erano sincere. Semmai a rovinare tutto fu la televisione, che impose certe scelte: volevano Whitney Houston al posto di Steve Van Zandt, gli A-Ha e non Neil Young, e così via. Ecco, Live Aid è stata una svolta negativa in questo senso: la televisione e gli sponsor presero possesso della musica.”

In quanto ai Simple Minds, si persero dopo la fiammata di popolarità della seconda metà degli anni Ottanta. “Penso che sia dovuto all’abbandono di Michael McNeil: senza di lui smettemmo di essere una vera band. I Simple Minds non funzionavano più. Avremmo dovuto prenderci una pausa o almeno affrontare il problema, ma non lo facemmo. Poi mettici l’età: durante gli anni Novanta la musica smise di essere il centro delle nostre esistenze. Ci sentivamo stanchi, disfatti, svuotati. Ma nell’arco di una carriera ventennale è normale perdersi e ritrovarsi, essere prima confusi e poi lucidi. Devi mettere nel conto gli alti e bassi, i momenti sì e quelli no. Adesso che torniamo a fare musica ci sentiamo rigenerati. Sicuramente siamo più rilassati: faremo solo le cose che ci piacciono. Non abbiamo bisogno che una casa discografica ci detti le sue priorità. Ce ne freghiamo se un album vende o meno. Solo 10mila persone compreranno i nostri album? Fantastico! Non abbiamo bisogno di soldi. Abbiamo capito la lezione: non è necessario arrivare in cima alle classifiche tutte le volte.”

Inevitabilmente, si finisce col parlare dei fatti dell’11 settembre. Ricordo a Jim le parole di I Travel e di Ghostdancing: “City buildings falling down.”. Sembra folgorato. “Ci pensavo l’altro giorno: se avessi dovuto scrivere una canzone per descrivere quel che accade oggi nel mondo, probabilmente avrei usato le stesse parole di I Travel: gli edifici che crollano, le tragedie, gli assassini, l’Asia. è tutto lì dentro. Davanti a certe cose ti mancano le parole e l’arte, voglio dire la vera arte, te le può suggerire. La vera arte ha dentro di sé l’epoca cui appartiene: i valori positivi, la confusione, i tempi che cambiano. Ma ci sono momenti, come l’11 settembre, in cui resti letteralmente senza parole. È quello che ci ha voluto dire Neil Young al Tribute To Heroes. Pensaci, avrebbe potuto cantare decine di brani e invece ha fatto Imagine di John Lennon, una canzone che ti fanno sentire negli ascensori, tanto abusata da diventare senza valore, naturalmente finché non è avvenuta una cosa così spaventosa come la tragedia di New York. Neil ha voluto dirci che non è il momento dei proclami intellettuali. Ha voluto dirci che – come me, come tutti noi – era senza parole.”

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