11/05/2007

Sting

Nel labirinto della musica rinascimentale

Le canzoni di John Dowland mi hanno piacevolmente ossessionato per più di vent’anni.

Nel 1982 mi esibivo al Drury Lane Theatre di Covent Garden nell’ambito di uno spettacolo a favore di Amnesty International. Dopo la performance solitaria di una delle mie canzoni, l’attore John Bird venne a complimentarsi e mi chiese se conoscessi l’opera di John Dowland. Dovetti ammettere che, sebbene ne conoscessi il nome e sapessi che Dowland era stato un compositore del periodo di Elisabetta I e Giacomo I, non ne sapevo granché. Ringraziai Mr. Bird per i complimenti e fui talmente incuriosito da cercare il giorno dopo una collezione di canzoni di Dowland eseguite da Peter Pears con Julian Bream al liuto. Apprezzai la bellezza melanconica della musica, ma non compresi come poteva essere paragonata al repertorio di un aspirante cantante rock.

 

Un dono prezioso

Fu più di dieci anni dopo che un’amica, la celebre pianista Katia Labèque, suggerì che le canzoni di Dowland potevano in qualche modo essere adatte al mio tenore non coltivato. Fui di nuovo intrigato e parecchio lusingato – e così, per gioco, imparai tre delle sue canzoni con la guida di lei: provai Come, Heavy Sleep, Fine Knacks For Ladies e Can She Excuse My Wrongs? con l’accompagnamento della bella ed esotica Katia al fortepiano nel corso di un paio di serate musicali informali. Nel frattempo avevo imparato qualcosa di più circa il più enigmatico dei compositori inglesi: che era considerato uno dei più abili liutisti del suo tempo, particolarmente nell’Europa continentale dove la sua reputazione era tale da essere noto come l’Orfeo inglese. E che, nonostante la fama internazionale, non era riuscito ad assicurarsi la posizione cui ambiva, quella di musicista di corte della Regina Elisabetta I.

È stato il mio amico e collaboratore di lunga data, il chitarrista Dominic Miller, a riaccendere qualche anno fa il mio interesse per Dowland. Ha gentilmente commissionato la costruzione di un liuto a nove gruppi di corde che mi ha poi regalato. Costruito da Klaus Jacobsen, è un pezzo unico. La “rosa” al centro della tavola armonica non riproduce il classico disegno rinascimentale, ma ha la forma d’un labirinto. Basato sul disegno presente sulla pavimentazione della Cattedrale di Notre Dame, il labirinto è diventato una tale ossessione per me da spingermi a riprodurlo nel giardino della mia residenza inglese. Misurava più di 12 metri di diametro. Camminavo al suo interno ogni giorno, dicevo alla gente che farlo mi calmava.

Il regalo di Dominic fu accettato con gratitudine.

Rispetto all’ud arabo il liuto è più simile alla chitarra e perciò per un chitarrista moderno è relativamente famigliare, eppure sufficientemente diverso nell’accordatura e nella diteggiatura da necessitare una ricostruzione delle sinapsi sfibrante per il cervello. Da quel momento fui attirato lentamente e fermamente nella complessità labirintica di questo antico strumento e della sua musica incantata.

 

Arriva Edin

Fu sempre Dominic a presentarmi Edin Karamazov. È di Sarajevo ed è uno dei più valenti liutisti d’Europa. Venne a farci visita nel backstage prima di un concerto alla Festhalle di Francoforte. In quel camerino minuscolo Mr. Karamazov mi sembrò imbarazzato nel conoscermi e mi disse in maniera piuttosto formale che il suo nome si pronuncia come le prime di sillabe di Edinburgh, non come il giardino biblico. Gli chiesi che cosa recava in spalla. Aveva portato con sé il suo strumento, in una soffice custodia di tela. La sua evidente timidezza svanì d’un colpo quando gli domandai se voleva suonare per noi. Con cautela aprì la borsa blu. Non avevo mai visto un liuto arcaico prima d’allora e fui immediatamente colpito dalla bellezza funzionale della forma e dalla sua stranezza orientale.

Edin iniziò a suonare. Dominic e io fummo colti di sorpresa nel sentire le prime battute della Toccata e fuga in Re minore di Bach, una scelta sorprendente per uno strumento tanto piccolo. Ma in quelle poche battute, nello spazio angusto di un camerino, lo strumento evocò la maestosità di un organo all’interno di una cattedrale. La drammaticità di quel momento fu sbalorditiva e inattesa: eravamo profondamente commossi. Nella sua estemporanea esibizione Edin mise talmente tanta passione e impegno che la musica di Bach sembrò strapparci con violenza dal nostro tempo per portarci nel suo.

Nell’ora che ci separava dal concerto parlammo con fervore di musica, del suo strano potere sulle nostre esistenze, delle sue infinite possibilità, del suo mistero. Durante la conversazione qualcuno fece il nome di Dowland. Edin mi chiese se conoscessi la canzone In Darkness Let Me Dwell. Risposi di no. Disse che era la più grande canzone scritta in lingua inglese. Suonò alcune battute dell’introduzione. Era stranamente dissonante e irresistibilmente moderna. “Dovresti cantare queste canzoni” disse “impareresti qualcosa”. Sentii che il labirinto mi stava attraendo sempre più vicino al centro.

Alcuni mesi più tardi Edin venne a trovarmi in Inghilterra. Camminammo insieme nel labirinto, mentre le rondini volteggiavano sopra di noi nel cielo turchese. Mi raccontò della sua infanzia a Sarajevo, la tragedia della guerra, la vita di musicista, i trionfi da chitarrista classico nelle competizioni di tutta Europa. Di come un giorno aveva sentito un liuto e s’era innamorato della sua complessità e del suo suono, e si era tagliato le unghie per prepararsi alla tecnica che prevede si suoni solo coi polpastrelli delle dita della mano destra. Di come ha affrontato anni di studio del nuovo strumento presso la Schola Cantorum di Basilea, in Svizzera. Mi parlò di tutte queste cose mentre giravamo in tondo all’interno del labirinto. Mentre ci avvicinavamo al centro disse che aveva una confessione da fare: “Tu e io ci siamo incontrati molti anni fa”. Lo guardai con sorpresa e ricordai improvvisamente il suo imbarazzo mentre mi stringeva la mano a Francoforte. “E dove ci saremmo incontrati, amico mio? Non lo ricordo”. In cielo non c’erano più rondini. “Molti anni fa lavoravo in un circo con la mia formazione. Eravamo un trio, due chitarristi e un percussionista. Suonavamo frammenti di Mozart tra lo spettacolo dei trapezisti e quello di un contorsionista mongolo”.

Gli anni si dissolvono e nella mia immaginazione posso vedere Trudie e io tra il pubblico del Circo Roncalli di Amburgo, incantati da un’interpretazione di Rondò alla turca di Mozart, dalla Danza delle spade di Khatchaturian e dalla Primavera dalle Quattro stagioni di Vivaldi. Il percussionista suonava qualcosa che somigliava a una rastrelliera per bottiglie di latte, eppure la musica era impressionante. Talmente impressionante da spingermi a far girare una voce nel backstage: chiedevo se il gruppo era disposto a venire in Inghilterra per esibirsi a una festa di compleanno che stavamo organizzando. Fummo sorpresi quando ci fu riferito che il gruppo non avrebbe suonato per noi, che erano musicisti seri e non scimmie ammaestrate a disposizione al minimo cenno di un cantante rock e di sua moglie. Ahi! Ricordo molto bene il dolore pungente provato in quel momento, messo in riga con fermezza e orribilmente imbarazzato.

“Mi spiace tanto” dice adesso Edin mentre mi porge una Polaroid scolorita, scattata chiaramente quella sera. Siamo raffigurati Trudie e io, imbarazzati e confusi, circondati dal misterioso trio con Edin stizzosamente in piedi alla mia sinistra che guarda in modo torvo la camera da sotto le sopracciglia scure. Cominciai a ridere e lo feci a lungo e di gusto, ma talmente di gusto da finire a ruzzolare nell’erba mentre le rondini ripresero la loro chiassosa danza circolare sopra le nostre teste. Ora Edin ha un aspetto convenientemente imbarazzato e sembra allegramente a disagio.

Quella sera aprimmo il First Booke Of Songes di Dowland e iniziai il mio apprendistato, la mia immersione nella musica di un compositore e musicista del Sedicesimo secolo che mi ossessionava oramai da un quarto di secolo.

 

I tempi di Dowland

Nato nel 1563, John Dowland è stato forse il primo esempio di un archetipo che c’è diventato famigliare, quello del cantautore alienato – un aspetto che gli conferisce una risonanza acutamente moderna.

Pare fosse, da quel poco che si sa di lui, un uomo complesso e profondamente inquieto. Ciò nonostante, riusciva a intrecciare le delusioni della sua personale esistenza con la sensibilità del periodo creando canzoni d’una bellezza rara e senza tempo. Non sono assolutamente tutte tristi, ma distillano la melanconia dell’epoca coi briosi contrappunti e coi ritmi contrappuntistici della musica da ballo. Sarebbe perciò ingiusto etichettare Dowland – nella riduttiva terminologia contemporanea – come un “depresso”. Era senza dubbio capace di ironia e sapeva sottovalutarsi in modo salutare in titoli come Semper Dowland semper dolens, così come era in grado di spiccare gioiosi voli di inventiva musicale.

Dopo la morte nel 1594 di John Johnson, uno dei liutisti della Regina, Dowland domandò di coprire quel ruolo, invano. Fu una cocente delusione e sentiva, per usare le sue parole, di essere “il più valente”. Attribuì il fallimento ai sospetti sorti qualche tempo prima a seguito della sua conversione al cattolicesimo. Pare fosse stato testimone delle crudeltà perpetrate ai danni di chi ancora era fedele alla Chiesa di Roma, ispirandolo a unirsi a loro. Sotto la cattolica Regina Maria (aveva regnato dal 1553 al 1558), sorellastra di Elisabetta I, i protestanti erano stati trattati in modo altrettanto barbaro. In quei tempi difficili la fede rappresentava una palese dichiarazione politica oltre che privata. Elisabetta, che succedette a Maria nel 1558, non si sposò mai e fu al centro dei progetti dei monarchi cattolici del continente. Intanto i cattolici inglesi e i gesuiti lavoravano instancabilmente per rovesciare la monarca protestante. Questa ragnatela d’intrighi culminò nel 1605 col Complotto della polvere da sparo di Guy Fawkes ai danni di Giacomo I.

Una decade prima Dowland, frustrato dalla situazione inglese, aveva cercato fortuna oltremanica giungendo in Italia attraverso le corti di Brunswick e Kassel. Come gli attori, i musicisti dell’epoca erano liberi di esercitare la propria attività tra le corti rivali d’Europa ed erano spesso fonte attendibile di informazioni riservate e di pettegolezzi. Mentre si trovava a Firenze, Dowland fu avvicinato da un gruppo di cattolici inglesi che gli promisero “un congruo sussidio dal Papa e che Sua Santità e tutti i Cardinali avrebbero fatto molto per me”. L’offerta avrebbe potuto tentarlo, ma temeva di essere accusato di associazione in tradimento. Sul panorama politico dell’Inghilterra elisabettiana incombeva un’ombra terrificante: Dowland visse durante l’era del capo delle spie Sir Francis Walsingham, dove ogni minaccia alla monarchia veniva contrastata con una crudeltà che non conosceva pietà. Tortura e abominevoli esecuzioni pubbliche erano all’ordine del giorno. Nonostante Walsingham fosse morto nel 1590, permaneva un clima di paura e intimidazione.

In una tale atmosfera Dowland aveva comprensibilmente paura – come si evince nella lunga, sconnessa e spesso paranoica lettera che spedì nel 1595 a Sir Robert Cecil, da cui leggo alcuni estratti in questo disco. Al lettore moderno il suo tono può sembrare servile, ma dobbiamo ricordare che Dowland, umile musicista, si stava rivolgendo al capo della sicurezza della Regina Elisabetta. Cecil era Segretario di Stato, il protetto e successore di Sir Francis Walsingham, nonché il gentiluomo di corte più potente d’Inghilterra. Dichiarando lealtà alla sua “regina sovrana”, e offrendo informazioni circa complotti a venire, rivela che “il Re di Spagna è impegnato in grandi preparativi per venire in Inghilterra in estate”. Dowland aveva un buon motivo per supplicare per la propria vita e per la propria sussistenza. Sembra improbabile, tuttavia, che il consigliere privato della regina facesse affidamento per un’informazione di tale importanza sul pettegolezzo di un musicista itinerante.

 

La musica che mi ossessiona

La breve introduzione che apre la registrazione presenta i primi passaggi dell’arrangiamento di Dowland di As I Went To Walsingham, una ballata popolare anonima. Non vi è alcuna connessione con la temuta spia di corte: il titolo fa riferimento al villaggio di Walsingham nel Norfolk, dov’era sito un tabernacolo contenente una celebre effige della Vergine Maria.

Il testo piuttosto amaro di Can She Excuse My Wrongs? è attribuito a Robert Devereux, Conte del Sussex e per molti anni il preferito della Regina – finché la sua testa notoriamente di bell’aspetto fu separata dal corpo dalla mannaia del boia. La musica di Flow My Tears, la canzone più celebre di Dowland, fu originariamente scritta come una pavana per liuto intitolata Lachrimae. Essendo una canzone sull’assenza di speranza è stranamente capace d’innalzare lo spirito. Have You Seen The Bright Lily Grow? fu scritta da Robert Johnson, il figlio di quel John Johnson che Dowland sperava e pensava di poter rimpiazzare nel 1595 come liutista di corte. Le parole sono di Ben Jonson. Negli ultimi anni di vita Dowland non sopportava granché i rapidi cambiamenti stilistici della musica ed espresse la sua frustrazione verso “i giovani professori di liuto” e quelli “che ignorano la teoria”. Non so se questa canzone gli sarebbe piaciuta. A me piace.

The Most Hight And Mighty Christianus The Fourth, His Galliard è altrimenti nota come The Battle Galliard. Sembra che i compositori dell’epoca fossero obbligati a inventare titoli verbosi e pomposi come questo al fine di conservare il favore dei loro mecenati. Anna, la sorella del Re Cristiano IV di Danimarca – uno dei maggiori benefattori di Dowland – divenne Re d’Inghilterra nel 1603 grazie all’ascesa al trono del marito Giacomo I. Un complimento ben indirizzato poteva portare lontano in quel mondo.

The Lowest Trees Have Tops è probabilmente una delle mie preferite tra tutte queste canzoni. Il tocco leggero e lo humour velato esprimono una sensibilità pop con cui mi sento a mio agio e che mi è famigliare. L’armonia in quattro parti di Fine Knacks For Ladies, la canzone di un venditore ambulante rauco, fu pubblicata da Dowland in modo peculiare. Tutte e quattro le parti vennero scritte in una sola pagina ma stampate in modo tale che i quattro cantanti potessero disporsi attorno allo stesso tavolo e leggere comodamente. L’immagine di un gruppo di musicisti e cantanti del XVI secolo che siedono a un tavolo indica che i luoghi in cui venivano eseguite queste canzoni non erano grandi saloni, né le sale da concerto dell’epoca successiva, bensì piccoli salotti privati. Percepisco un senso d’intimità in questa musica che ben si presta alla prossimità e alla vicinanza sussurrata dei microfoni moderni. Cantando queste canzoni non ho sentito granché lo stimolo a “lanciarmi”: eseguirle con tono colloquiale mi sembrava già sufficiente.

Le due fantasie in testa e in coda a Come, Heavy Sleep rappresentano il picco della maestria compositiva di Dowland al liuto. L’invenzione cromatica di Forlorn Hope Fancy è stata una grande rivelazione per me. C’è qualcosa di inaspettatamente moderno nelle sue sorprese melodiche sottili e sdrucciolevoli. In questi pezzi Edin dimostra di essere uno degli interpreti di musica per liuto più caratteristici ed eccitanti dell’epoca. Se c’è una canzone che smentisce la reputazione dolente di Dowland è sicuramente Come Again, un inno gioioso all’ebbrezza dell’amore romantico. Nella canzone ci sono molti più versi di quanti mi sono avventurato a cantare. Ho optato per la brevità e la passione.

Wilt Thou Unkind Thus Reave Me fa nuovamente mostra di ironia nell’esuberanza della melodia e del gioco di parole, che sono l’esatto contrario della storia raccontata, l’ennesimo amore finito male. Sembra tipico dell’epoca che l’amante protagonista debba soffrire, qui però si celebrano i picchi e la profondità delle sue emozioni un po’ come un duellante esibirebbe le sue cicatrici. È l’espediente di mostrare sentimenti e convenzioni contrastanti che salva queste canzoni dal passare dal sublime al ridicolo: hanno a che fare con la disperazione eppure sono piene di vita.

Weep You No More, Sad Fountains è la canzone, tra quelle incluse in questa collezione, che ho trovato più difficile da interpretare vocalmente. Devo eterna gratitudine al maestro di canto Richard Lewitt della Schola Cantorum di Basilea per l’incoraggiamento, la pazienza e i preziosi consigli su dove respirare e dove non farlo, su come cantare un dittongo senza sibilare e, cosa più importante, su come riacquistare un tono vocale risonante il mattino dopo avere ecceduto col vino toscano.

Dowland scrisse pochi duetti per liuto. A uno di essi, My Lord Chamberlaine His Galliard, è abbinata un’istruzione curiosa: “Da suonarsi in due su di un liuto”. Grazie al cielo questa direttiva non è stata applicata alla versione di Lord Willoughby’s Welcome Home che abbiamo suonato e nella quale Edin è stato così cortese da invitarmi a unirmi a lui – con un secondo liuto, ovviamente. Clear Or Cloudy contiene quello che è forse il mio verso preferito: “Che a tutte le tue erbacce manchi la rugiada e debitamente muoiano”. Chi ha detto che Dowland non aveva senso dell’umorismo?

Edin e io abbiamo pensato fosse appropriato concludere il disco laddove era iniziato, con le irresistibili dissonanze di In Darkness Let Me Dwell. È un’opera notevole, con un testo tormentato, una parte contrappuntistica di liuto complicata, un finale sorprendente e teatrale. La profondità e la complessità della canzone possono suggerire che non abbia eguali e invece prende posto a fianco di altri grandi soliloqui dell’era elisabettiana, ricordandoci che può esserci tragedia in una vita, ma che la vita di per sé non è tragica.

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!