Taj Mahal, ovvero il pioniere delle contaminazioni, l’uomo dei suoni trasversali che non può essere definito né bluesman, né rocker, né cantautore, né altro, non a caso diventato popolare presso il popolo del rock, ormai mezzo secolo fa, con un altro viaggiatore di suoni come Ry Cooder. Stavolta è andato a Zanzibar ad incontrare The Culture Musical Club, un fantastico ensemble multietnico che sposa sonorità folk, blues, musica improvvisata e il Taarab, ovvero la musica che nella notte dei tempi si suonava alla corte del Sultano. Detto così sembra il solito album di world music, eppure qui c’è un fascino e uno spirito magico. È uno dei rari momenti in cui il blues e le radici africane s’avvicinano davvero. È il sentimento che ti prende ascoltando quei misteriosi impasti di ruvidi violini (tre), accordion, percussioni, flauti, oud, gamun (una specie d’antenata della pedal steel) e voci. È il sentimento che mi prende nella rilettura aspra, ruvida, carnale e assolutamente originale di Catfish Blues, o in Dhow Countries e Done Changed My Way Of Living scritte da Mahal, dove il blues torna alle origini. Mentre in brani popolari come Wuhogo wa jang’ombe e Mpunga è l’Africa che si spinge in avanti, verso l’attualità ma senza perdere i suoi connotati carnali, tormentati, fieri. È musica popolare al cento per cento, indefinibile proprio perché trasmette emozioni. Una sola origine ma mille sfaccettature; in Mkutano sembra di ascoltare un’orchestra sinfonica folk, tant’è la potenza dell’ensemble; in M’banjo c’è tutto l’intimismo e il virtuosismo di Taj; in Zanzibar la guizzante chitarra elettrica si contrappone al pulsante modulare acustico degli altri brani, dove il taglio percussivo delle frasi, il dolente fremito modulatorio del canto, gli aspri arrangiamenti raccontano la forza evocativa e la libertà di Taj Mahal e del folk che diventa arte.
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Voto: 8
Perché: questo disco è una lezione di blues e di contaminazioni etniche lontane dai soliti minestroni.