15/05/2007

Voices Of America

UNA, CENTO, MILLE AMERICHE

24 febbraio 1942: da 79 giorni gli Stati Uniti d’America sono in guerra contro la Germania nazista e i suoi alleati.

Da uno studio di San Francisco, grazie a un trasponder della Bbc, una voce viene lanciata sulle frequenze radiofoniche europee. È quella dello speaker William Harlan Hale che testualmente dice: “Salve, questa è una Voce dell’America. Tutti i giorni, a quest’ora, vi parleremo dell’America e della guerra. Potremo comunicarvi buone o cattive notizie. Ma, sempre, vi diremo la verità”.

Da quel momento, l’America trova la sua voce all’estero. E quell’introduzione leggendaria di W.H. Hale diventa addirittura il marchio della radio più famosa della storia.

Autentico precursore delle all news television stile Cnn o Al Jazeera, il canale radiofonico Voice Of America è stato per anni il medium che ha trasmesso informazione, cultura ma anche suoni d’America nel vecchio continente. Diffondendo notizie e rendendo di pubblico dominio fatti importanti; facendo ascoltare, al tempo stesso, note, ritmi e melodie che avrebbero fatto innamorare il mondo. Attraverso VOA, si sono conosciute le mille facce dell’America. Anche di quella musicale che ha spesso anticipato gusti e tendenze della società statunitense.

Ancora oggi, in piena società ‘globale’, esistono tante Americhe. Alcune delle quali efficacemente rappresentate dagli artisti che sono protagonisti della nostra storia; ma che, da un certo punto di vista, dopo “September Eleven” (come lo chiamano lì) hanno voluto compattarsi illudendosi di avere un’identità comune e trovando solo un surrogato chiamato patriottismo.

Lo abbiamo visto anche nella musica: era dai tempi della guerra in Vietnam o da quelli dei grandi benefit a favore di cause umanitarie che non si assisteva ad una mobilitazione artistica così massiccia. Sono sparite (o quasi) persino le tensioni razziali. Perché, di fronte al “nuovo spauracchio islamico”, anche neri e portoricani, cubani, messicani e asiatici di colpo sono diventati parte della famiglia WASP. Di quell’America, cioè, bianca (White), Anglosassone e Puritana che tutto digerisce, tutto trasforma, tutto omologa. E i cui ‘valori’ (con buona pace di Malcolm X, del vecchio Hoagy Carmichael e delle sue Pantere Nere o della rivoluzionaria Angela Davis) sta riuscendo a inculcare persino nei ‘fratelli neri’.

Si chiama nu soul la loro nuova metafora musicale. E sono le patinate (peraltro bravissime) Alicia Keys, Mary J. Blige o Erykah Badu le nuove stelline; così come nello sport le black icons sono l’algido Tiger Woods, le ipervitaminiche sorellone Williams, il gigante buono Shaquille O’Neal. E nel cinema, per il popolo dei neri d’America, questo è il momento del raffinato Denzel Washington, dello spensierato Will Smith, del colto Morgan Freeman.

“Dove sono finiti”, gridava un ‘fratello’ di Chicago, “Muddy Waters, Mohammed Ali, Miles Davis o Tommy Jet Smith?” Lui, lo stesso che giudicava Spike Lee un venduto alla corte dei bianchi, non può però negare la controrivoluzione hip-hop, l’impegno di alcuni cineasti (Mario Van Peebles), la coscienza di qualche nuova diva (India.Arie), persino la rivalutazione culturale della storia musicale afroamericana. Oggi, quando si parla di roots non s’intendono più soltanto le tradizioni radicate tra le colline degli Appalachians. Blues, jazz, gospel e soul sono american roots allo stesso modo (e nelle stesse compilation) di old time, folk, bluegrass e country.

Forse perché l’America rurale non c’è più. Neppure la country music (per anni la sua voce ufficiale) insiste nel cantarla. Oggi, per avere successo a Nashville, non bastano più cappelli Stetson e stivali Justin. E nemmeno canzoni con tre accordi (rigorosamente in maggiore), testi rassicuranti, pedal steel suadenti e violini in sottofondo. Lo dimostrano le nuove country star come Shania Twain o Faith Hill. E persino quelli come Garth Brooks che, pur continuando nel look a restar legati al cappellone e allo stereotipo da cowboy, nella musica hanno fatto del crossover una regola ferrea.

Il nuovo prototipo di macho-country è, ad esempio, quello proposto dal giovane Shannon Lawson: look aggressivo e sexy, musica spumeggiante che non rinuncia ai suoni della tradizione ma strizza l’occhiolino al ritmo forsennato, canzoni che parlano di vita reale. E che ne denunciano anche il lato oscuro. Come ad esempio gli abusi all’infanzia o le diffusissime (specie nel Sud) violenze alle donne: li hanno cantati nei primi anni 90 Martina McBride (Independence Day) e persino l’ottimo Garth (The Thunder Rolls), scontando per primi gli strali della censura. Ma i tempi cambiano rapidamente e oggi le Dixie Chicks possono permettersi addirittura di suggerire l’omicidio come unica soluzione possibile (Goodbye Earl). Incredibile, vero?

Eppure, anche questa è una delle nuove contraddizioni americane: un trio texano che si fa chiamare “le pollastre del Sud”, che suona banjo e fiddle, che incita le proprie fan che subiscono violenze a farsi giustizia da sole. Altro che Thelma & Louise. altro che Lilith Fair. Perché nel Terzo Millennio è Ani DiFranco più che Sarah McLachlan a rappresentare in musica l’indipendenza femminile.

È tosta e concreta Ani. Le parole sono importanti (e i testi delle sue canzoni sono lì a dimostrarlo), ma i fatti lo sono di più. E allora, ‘fanculo le multinazionali: lei i dischi se li produce, se li promuove e se li distribuisce da sola. E non ha bisogno di giocare sulla sua bisessualità o sul gossip. È brava e tanto basta. A dire il vero, brave come lei in America oggi ce ne sono tante. Specie sul versante della musica al femminile. Ma nessuna è così determinata. Nessuna, forse, così integra e ispirata.

Determinato, integro e soprattutto ispiratissimo lo è anche James Taylor. Prototipo del songwriter intimista, JT nel 1968 fu il primo artista scelto dai Beatles per la loro nuova etichetta, la Apple Records. Ma il suo talento era troppo grande per star confinato all’interno di un universo (seppur dorato) come quello della “mela londinese”. Tanto che proprio Peter Asher (ex songwriter ma all’epoca già talent scout della Apple) lasciò i Fab Four per seguire James nella sua America. Già, ma qual è l’America di Taylor? O, come qualcuno potrebbe suggerire, qual era? Ma non sarebbe più logico sostenere che l’America di JT non esiste? O meglio, che esiste soltanto dentro di lui. E nelle fantasie dei suoi (tanti) estimatori. Perché James è figlio di un’America colta, borghese, sofisticata (suo padre era un medico affermato) che può permettersi di girare, conoscere culture diverse, raffinare gusti, fare scelte. Di un’America che sa premiare come nessun’altra società i suoi figli più dotati. Taylor ha tutto: è dolce, intelligente, ricco, avvenente e ha un talento assoluto per la musica. Il successo per lui è dovuto, oltre che assicurato.

Ecco perché, dopo 35 anni di carriera, è ancora lì. La sua musica, qualcuno ha detto, è come un maglione di cachemire: un classico intramontabile. Sempre la stessa; elegantissima, intimista, riflessiva, sa essere melanconica e divertente, brutale e spietata oppure assolutamente romantica. Come i panorami dell’amata Martha’s Vineyard dove casa Taylor non è distante dalle proprietà dei Kennedy. Tanto bella e suggestiva da non stufare mai e far addirittura pensare a buona parte del suo pubblico europeo degli anni 70 che lui, James il bostoniano, fosse nato in California. Così sottile e seducente, la sua musica, che ancora oggi rapisce. Perché lui (pur con qualche diottria e molti capelli in meno) è sempre il tipo affascinante di un tempo. Dolce, intelligente, ricco e avvenente, con un talento assoluto per la musica.

Il giorno in cui Bruce Springsteen compiva trent’anni (23 settembre 1979), Ani DiFranco spegneva le sue prime nove candeline e James Taylor (con l’allora moglie Carly Simon, e gli amici John Hall e Graham Nash) era sullo stesso palco del Boss (Madison Square Garden a NYC) a cantare The Times They Are A-Changin’. Insieme, avevano deciso di scuotere l’America e farle prendere coscienza dei pericoli dell’energia nucleare. Quel concerto lo avevano chiamato No Nukes. I meno giovani, si ricorderanno il film e il triplo, leggendario album.

Non sono mai stati degli attivisti, Bruce e James. Anzi, spesso (specie per il primo) l’etichetta ‘politica’ che ogni tanto è stata loro appiccicata non è mai piaciuta. Eppure, mai si sono tirati indietro quando è stato il momento di “stand up and be counted”. Ecco perché, entrambi, cantano oggi con affetto e commozione l’America ferita. Lo fa con maggior coscienza sociale (solo perché è sempre stato maggiormente nel suo stile) il vecchio Boss. Che per l’occasione rispolvera il suo celebre, sano e ruspante rock’n’roll che, per qualche anno, aveva accantonato in favore di un più spartano folksinging. E anche se, poco tempo prima, aveva ‘osato’ attaccare la polizia newyorkese rea di aver abusato del proprio potere (American Skin) oggi Bruce canta della sua città in rovine e dei suoi nuovi eroi (pompieri e NYC cops).

Non è più il “working class hero” e nemmeno “the ultimate rock’n’roll superstar”. Certamente, non è più neppure il Boss di Born In The Usa. Come James, anche Bruce, è diventato ormai un classico. Un grande classico americano. Ma che, come tutti i classici, ha irrimediabilmente e definitivamente perso il contatto con la sua essenza artistica e (in qualche modo) con lo spirito del suo pubblico. Guadagnando, in compenso, uno status che lo farà passare alla storia. Ammesso che, nella storia, James Taylor e Bruce Springsteeen (così come Bob Dylan, Leonard Cohen, The Doors, Lou Reed, Patti Smith e tutti i grandi eroi del rock americano) già non ci siano. Tutti insieme, ma un gradino sotto colui che prima di tutti e meglio di tutti ha saputo coniugare rock e America: Elvis Presley.

Ezio Guaitamacchi

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JAMES TAYLOR
WALKING MAN

Per James Taylor, che già all’inizio della carriera si definiva un “walking man”, la vita, artistica e privata, è sempre stata associata all’idea del movimento, al moto perenne.

E non poteva essere diversamente per il discendente di una antica famiglia di marinai giunta in America dalla lontana Scozia. Un viaggio, quello di Taylor, cominciato alla fine degli anni Sessanta, quando fu il primo artista messo sotto contratto dall’etichetta dei Beatles, la leggendaria Apple. Un viaggio che, fin da subito, ebbe un impatto così determinante sulla scena musicale americana da rivoluzionarne completamente l’assetto. Era il periodo delle rock band, psichedeliche e politicamente impegnate, in cui dominavano Led Zeppelin e Grateful Dead, ma Taylor avrebbe riportato il baricentro di quella scena sulla figura del cantautore solitario, intimista e malinconico: “Ho sempre amato gruppi come i Beatles, gli Stones, i Grateful Dead”, mi dice al proposito James Taylor nel corso di una piacevolissima conversazione telefonica. “Ho sempre ascoltato veramente di tutto, ma a quei tempi, gli anni Sessanta, era troppo complicato per me mettere su una band, era molto più semplice cominciare una carriera nella musica da solo, io e la mia chitarra, da classico folksinger. E ti assicuro che non sono mai stato consapevole di star portando qualcosa di nuovo sulla scena musicale. Vedevo me stesso come una sorta di Woody Guthrie, un Bob Dylan, un Tom Rush, che però cercava di suonare come Paul McCartney e John Lennon. Non mi considero assolutamente qualcuno che ha inventato una nuova figura musicale, il cantautore è sempre esistito nella musica nordamericana. E c’erano tanti come me, in quel periodo storico: Jackson Browne, Bonnie Raitt, Jesse Colin Young, per citarne solo alcuni.”

Il lungo viaggio di questo “walking man”, 54enne da poco risposatosi per la terza volta e da un anno di nuovo padre, questa volta di due gemelli, lo sta portando indietro nel tempo. Il nuovo album, October Road, ha il suono e l’intimità dei suoi classici degli anni Settanta, a cominciare da quella splendida chitarra acustica mai così in primo piano da molto tempo: “È un disco di impronta chitarristica in modo speciale”, conferma. “C’è stato un lavoro molto duro e accurato da parte dell’ingegnere di studio per mettere in primo piano il sound della mia chitarra, dovuto al modo in cui ha sistemato i microfoni in studio.” Chitarre che, ovviamente, sono sempre le amate Jim Olson.

Ma c’è anche un ritorno significativo, quello del produttore di due classici come Gorilla (1975) e In The Pocket (1976), Russ Titelman: “Io e Russ volevamo tornare a lavorare insieme da molto tempo. Gorilla e In The Pocket sono tra i miei dischi preferiti in assoluto. Purtroppo per motivi contrattuali non ci era più stato possibile, da quando ero passato alla Columbia e lui era rimasto con la Warner Bros., la mia vecchia etichetta. Adesso Russ ha lasciato anche lui la Warner e abbiamo potuto tornare a lavorare insieme”. E si sente, specie in quel trio di classiche James Taylor songs che aprono l’album, September Grass, October Road e 4th Of July, anche se la prima di queste tre non è a firma JT: “September Grass è stata scritta da un mio vecchio amico dell’infanzia, un cantautore di nome John I. Sheldon. Le nostre famiglie, quando eravamo ragazzi, erano amiche, così ci conosciamo da una vita. Sua sorella, a quei tempi, era la mia ragazza. È una canzone che scrisse circa cinque anni fa, mi era sempre piaciuta, con quel mood molto rilassato”. Che però suona proprio come una perfetta James Taylor song: “Beh, ho fatto qualche cambiamento e forse come dici tu adesso sembra una mia canzone, ma la parte migliore l’ha fatta lui”.

October Road è un disco intimo, caldo, come affacciarsi un attimo dalla finestra che dà nella living room del cantautore: “Abbiamo registrato le tracce base fondamentalmente in tre: io alla chitarra, Steve Gadd alla batteria e Jimmy Johnson al basso. Questa credo sia la ragione del sound particolarmente intimo e rilassato che si può avvertire, è stato tutto molto casalingo e naturale”. Ma nel disco non mancano apparizioni di prestigio come quella di Ry Cooder (nella title-track) o della figlia Sally che, forse molti non sanno, è una cantautrice con una propria carriera già ben avviata: “Sally ha già pubblicato tre dischi, se li vende esclusivamente su Internet o ai concerti. Ti consiglio il suo primo album, il mio preferito. Anche mio figlio Ben pubblica il suo primo disco questa estate”. Ma i giovani Taylor accettano di farsi consigliare da papà James? “Parliamo tantissimo di musica, discutiamo le nostre canzoni ed è una cosa molto bella condividere con i propri figli questo lavoro.”

C’è un’altra cover, nel disco, già pubblicata come singolo lo scorso Natale, il classico natalizio Have Yourself A Merry Little Christmas: “Avevamo finito di registare il brano Mean Old Man, quella session fu molto veloce e avevamo ancora parecchio tempo avanzato da usare in studio, così proposi di provare Merry Christmas, questo vecchio tradizionale di cui avevo pronto un arrangiamento per chitarra”. Un brano natalizio un po’ diverso dai classici del tipo, dall’incedere alquanto triste. “Merry Christmas, in origine, è una canzone triste. Il messaggio base è: ‘Cerchiamo di farcela questo Natale e speriamo che il prossimo sarà meglio’. Fu pubblicata in occasione dello scorso Natale, quando la città di New York stava vivendo il suo Natale più triste per via della tragedia delle Twin Towers. Pensai che quei versi si adattassero perfettamente a quello che la gente di New York stava vivendo.”

Ma come vive la situazione in cui l’America si trova, dopo l’11 settembre? Per citare la sua Stand Up And Fight, questo è il momento per un musicista come lui di “alzarsi in piedi e combattere”? “Ero in tour quando accade l’attacco dell’11 settembre, un tour che andò avanti fino a novembre. La gran parte della mia musica ha sempre avuto a che fare con storie personali, problemi e relazioni, ma durante quel tour avemmo la sensazione che il solo fatto di suonare un po’ di musica, senza bisogno di prendere posizioni politiche, solo il proporre un po’ di musica era di grande aiuto e consolazione per la gente. Per cui no, non credo sia il momento per uno come me di fare dichiarazioni o interventi particolarmente significativi. Non c’è bisogno di mostrarsi incazzati o cose del genere, insomma.”

Eppure c’è una canzone, nel nuovo disco, Belfast To Boston, che inizialmente si intitolava God’s Rifle, “il fucile di Dio”, e che parla di un problema di non poco conto, le guerre fratricide: “Quella canzone particolare la scrissi in Lussemburgo, due giorni prima di esibirmi a Belfast. Stavo pensando all’ultima volta che ero stato a Belfast: quella volta ci furono durissimi scontri, bombe, macchine della polizia ovunque, un momento molto tragico. Devi sapere che esiste una connection particolare tra Belfast e Boston: gran parte delle armi e dei soldi per i terroristi irlandesi arrivano proprio da Boston, la città dove vivo. Poi la canzone è divenuta una riflessione su tutti gli altri conflitti fratricidi, ad esempio quello della Bosnia o quello del Ruanda, guerre che si trasmettono di generazione in generazione. Pensavo a come queste popolazioni, pur di bloccare queste stragi, devono ingoiare le peggiori ingiustizie. Credo che risolvere questo problema sia una delle sfide più importanti del mondo moderno. Non vengono neanche più chiamate guerre, ma sono un pericolo per la pace di tutti e purtroppo siamo costretti a convivere con esse”.

Ma è un’eccezione, perché un brano che potrebbe sembrare celare qualche osservazione di carattere politico sin dal titolo (4th Of July), è solo “un’altra canzone d’amore. Parla di due fidanzati che si trovano il 4 di luglio a guardare i fuochi d’artifico; lei è molto patriottica, lui invece no. Lui la prende in giro per essere così seria e patriottica, e in ogni caso è stata scritta prima dell’11 settembre”. Undici settembre che comunque Taylor ha contribuito a commemorare nel corso del Concert For NYC dello scorso ottobre: “La gente, i musicisti, voleva veramente fare qualcosa. Fu un concerto per le famiglie dei pompieri e dei poliziotti morti, con nessuno altro scopo se non quello di portare un po’ di solidarietà e di sollievo a tutta quella gente, ed era gran parte del pubblico, che aveva perso amici e familiari nel crollo delle Twin Towers. Fu molto commovente suonare per quelle persone, e credo che anche per loro fu molto commovente. È difficile sapere cosa fare in situazioni del genere, ma credo sia stata una serata molto bella”.

Prima di questo October Road, si era sentito parlare di un disco composto di sole cover, brani come Knock On Wood, Summertime Blues o addirittura Woodstock: “Con la mia band dal vivo suoniamo ogni sera almeno una cover, sono brani che ci vengono ormai molto facilmente, ma sentivo il bisogno di registrare ancora un disco di canzoni autobiografiche. Il disco di cover penso uscirà molto presto, comunque”.

E ovviamente, data la recente e triste scomparsa del suo grande amico Timothy White, direttore di Billboard e autore della biografia ufficiale di Taylor Long Ago And Far Away, ci lasciamo con un suo ricordo: “La morte di Timmy è stata un momento estremamente triste, è stato portato via in modo così inaspettato. La moglie e i suoi figli stanno vivendo un momento molto difficile. Timmy è stato prima di tutto un carissimo amico, e poi ha sempre supportato la mia musica, aiutandomi molto in momenti difficili. Mi ha incoraggiato e sostenuto sempre. Mi manca moltissimo, davvero. Il libro che ha scritto su di me e sulla mia famiglia è stato un po’ fastidioso, ma anche molto lusinghiero e sono grato a lui per averlo scritto. Era un grande scrittore e un grande appassionato di musica. Con altre persone, Sheryl Crow e Don Henley fra gli altri, stiamo pensando di organizzare qualcosa in sua memoria, ancora non sappiamo se sarà un disco o un concerto, ma bisogna assolutamente fare qualcosa in suo ricordo”.

Paolo Vites

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BRUCE SPRINGSTEEN
L’AMERICA IN GINOCCHIO

Sette gli anni trascorsi dall’ultimo disco in studio, The Ghost Of Tom Joad, diciotto quelli da Born In The Usa, l’ultimo registrato con la E Street Band. In trent’anni di carriera soltanto diciassette i dischi, live e greatest hits compresi, pubblicati ufficialmente.

Questi numeri, che di per sé potrebbero sembrare soltanto aridi dati statistici, dimostrano però che Springsteen ha fatto una scelta ben precisa nella sua carriera, una scelta pericolosa, ma contemporaneamente coraggiosa. Pericolosa perché queste lunghe attese generano ogni volta in pubblico e critica delle aspettative che poi bisogna essere in grado di confermare con un prodotto all’altezza; coraggiosa perché non è facile resistere alle pressioni dello show business, perché si pubblichino dischi comunque, a prescindere dalla qualità delle canzoni.

A cavallo tra gli anni 70 e 80 Springsteen era solito scrivere una canzone al giorno o quasi, ma questa sua iperattività non si è concretizzata in una corrispondente produzione discografica. Negli ultimi dieci anni Springsteen ha trascorso invece un periodo di apparente forte crisi creativa, dovuto forse anche al raggiungimento di un equilibrio nella sua vita privata se è vero, come lui stesso ebbe a dire, che la migliore ispirazione nasce dalle difficoltà e “quando scrissi solo canzoni felici, agli inizi degli anni 90, il pubblico non le apprezzò molto”. The Ghost Of Tom Joad rappresenta un’eccezione nella discografia più recente, in cui vengono rappresentate, con sapiente stile distaccato e giornalistico, le vicende non dell’americano medio, quanto piuttosto di coloro che vivono ai margini della società.

Dopo anni di silenzio e di sporadiche comparse in studi di registrazione, Springsteen ha sentito l’esigenza di tornare al lavoro. Due probabilmente sono le cause che hanno scatenato il processo creativo: la rinnovata collaborazione con la E Street Band e gli eventi dell’11 settembre.

Quello che è entrato in studio a marzo è sostanzialmente lo stesso gruppo di musicisti che ha realizzato i dischi storici di Springsteen, ma, nello stesso tempo, è profondamente mutato nelle esperienze e nelle aspirazioni. Per evitare di replicare se stesso Springsteen ha però sentito l’esigenza di collaborare anche con altri professionisti: “Ho voluto catturare lo stesso spirito e passione del nostro modo di suonare, ma anche ottenere un suono diverso rispetto agli altri dischi. Quindi ho avuto bisogno di nuove orecchie”. La scelta è caduta su Brendan O’Brien, già produttore dei Pearl Jam, dei Rage Against The Machine e dei Korn.

Per la prima volta la registrazione del disco avviene ad Atlanta e si completa in soli due mesi, segno inconfondibile di un cambio di tendenza nei ritmi di lavoro: “Mi sono svegliato una mattina e il disco era pronto”. Queste le parole di Bruce al riguardo. A fine luglio The Rising viene messo in commercio con una rinnovata attenzione da parte dei media nei confronti di colui che negli anni Ottanta ha rappresentato l’ultima icona del rock’n’roll. Evidentemente la macchina promozionale della Sony si è mossa per tempo, con cura e investimenti: alcuni singoli sono stati diffusi dalle radio (e, novità assoluta, via Internet) prima della distribuzione, esiste una versione deluxe del cd, con un package più curato, altre iniziative locali dimostrano attenzione verso un disco che è stato pensato e costruito per essere un successo commerciale.

Il risultato è intrigante e propone al pubblico un cd che suona per oltre settanta minuti una musica, indubbiamente, nuova. Al di là degli inevitabili proclami commerciali, lo stesso Springsteen considera quest’ultima un’opera importante: “Il suono è assolutamente riconoscibile, ma anche diverso. Se avete tutti i nostri dischi, comunque non avete questo. Abbiamo spinto al massimo i livelli di intensità. Non vedo l’ora che la gente lo ascolti!”.

Nei quindici pezzi registrati il cd alterna ballate riflessive al piccolo trotto (come Nothin’ Man o Empty Sky) a cavalcate rock decisamente più divertenti (Waitin’ On A Sunny Day e Mary’s Place su tutte). Ma c’è spazio anche per esperimenti in territori musicali da lui mai esplorati (la world music), come in Worlds Apart, in cui per la prima volta sonorità mediorientali vengono utilizzate per introdurre la canzone.

Rispetto alla precedente produzione con la E Street Band, in cui era più facile ravvisare l’esecuzione del singolo musicista, in The Rising (merito o demerito di O’Brien?) sembra che si prediliga il “muro del suono” alla Phil Spector, in cui l’impatto totale della band è più importante del particolare apporto di uno strumento rispetto a un altro.

Come sempre, però, a colpire maggiormente l’attenzione sono i testi delle canzoni. Per stessa ammissione di Bruce, tutto il disco è influenzato dai fatti dello scorso 11 settembre: “Non ho deciso di scrivere un disco su quegli avvenimenti. Non ho voluto descrivere alla lettera cosa è accaduto, ma piuttosto le sensazioni che erano nell’aria. Ed è ciò che dovrebbe fare un cantautore”.

Solo due brani sono stati sicuramente composti prima di quella data, Further On (Up The Road) e My City Of Ruins. Quest’ultima è stata eseguita anche nel corso del benefit A Tribute To Heroes, e, sebbene composta almeno due anni prima, sembra scritta proprio per l’occasione.

Springsteen si conferma ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, il cantastorie in grado di porsi al livello dei protagonisti delle storie che racconta. Col passare degli anni si va a definire sempre più la sua gran capacità di sintetizzare in poche parole l’essenza di immagini, situazioni e sentimenti. Se in The Ghost Of Tom Joad questa capacità veniva usata in modo più freddo, brutale e distaccato, in The Rising il racconto è più partecipato e delicato. Fino ad oggi Springsteen ha scelto di scrivere delle specie di sceneggiature di film, per raccontare le sue storie: con la spiritualità di The Rising preferisce dipingere immagini con poche ma opportune pennellate.

Non vengono esplicitamente descritti personaggi e azioni: in Into The Fire, per citare una canzone, si può solo supporre che il protagonista sia il pompiere che sale le scale del grattacielo per compiere il suo dovere, ma risulta veramente difficile riuscire a darne una interpretazione differente (“Il cielo stava cadendo e segnato di sangue / Ho sentito che mi chiamavi, ma sei scomparso nella polvere / Su per le scale, dentro il fuoco”).

È significativo, a tale proposito, che i concetti più ricorrenti in questi brani siano quelli di fede, speranza, forza, amore, preghiera, spirito (“Che la tua forza ci dia forza / Che la tua fede ci dia fede / Che la tua speranza ci dia speranza / Che il tuo amore ci porti amore”). Siamo ben lontani da quell’immaginario solitamente attribuito a Springsteen fatto di ragazze, strade e automobili.

È un messaggio positivo quello che pervade tutta l’opera, in cui la forza di risollevarsi deve nascere dalle piccole esperienze della vita, dal conforto trovato in valori semplici e concreti, come il bacio dell’amata, lasciando perdere le verità assolute. È un sogno di vita, anche se arriva da un cielo fatto di buio e di tristezza, di pietà e paura, di ricordi e ombre, canta nella title-track, per poi invitare tutti alla rinascita (“Come on up for the rising”).

Indubbiamente questo disco più di altri, Born In The Usa compreso, nasce da fatti che chi non è americano forse non può comprendere a fondo. È un disco che è stato scritto per gli americani da uno di loro: e a ben guardare, pochi tranne lui potevano realizzare un’opera di questo genere. Sicuramente, per ora, Springsteen è stato il primo ad avere questo coraggio.

Il suo messaggio di speranza Bruce lo vuole portare in giro, a contatto con la sua gente. In quest’ottica deve essere letta la scelta di intraprendere una prima tornata di concerti distribuiti in modo capillare negli Stati Uniti: quarantasei spettacoli in altrettante città, i cui biglietti si sono volatilizzati in meno di un’ora. È significativo che, almeno in questa fase, solo una manciata di concerti verranno suonati in Europa (in Italia, sembra a Bologna, a metà ottobre, ndr).

Vent’anni fa, aveva affermato che “il giorno in cui, guardando il mio pubblico, non mi riconoscerò tra loro e loro, guardando me, non vedranno se stessi, allora sarà la fine”. È ancora presto per dire se Springsteen sia effettivamente risorto, ma il pericolo da lui temuto, per ora, è scongiurato.

Stefano Barco

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