Atterrati a Dakar, si sono accorti che il collo più importante, quello contenente l’attrezzatura per la registrazione digitale assemblata a Londra, era andato perduto. Alla fine l’hanno ritrovato: guarda caso a Milano. In compenso i doganieri senegalesi sono stati gentilissimi dopo aver scoperto che i due erano venuti fin laggiù allo scopo di registrare la musica dell’eroe locale Baaba Maal.
Il Senegal era solo la prima tappa del viaggio che avrebbe portato Jamie Catto e Duncan Bridgeman in giro per il mondo per ben 6 mesi. Scopo: raccogliere testimonianze audio e video al fine di esplorare il concetto di “unità nella diversità”. Tappe: Africa (Senegal, Ghana, Sud Africa, Uganda), Asia (India, Tailandia), Oceania (Australia, Nuova Zelanda), America (Stati Uniti), Europa (Gran Bretagna). Il risultato di tanto sforzo è doppio. Innanzitutto un disco, 1 Giant Leap (Palm Pictures/Nun, in uscita l’11 febbraio), nel quale la contaminazione stilistica non è un’opportunità, ma un imperativo categorico. E poi un film, a cavallo tra documentario e videoclip (il dvd verrà pubblicato a metà marzo). È suddiviso in 12 temi, ognuno dei quali è affrontato da una canzone: i soldi, la fede, l’ispirazione, la cultura, il sesso, la blasfemia, la felicità, le maschere, il tempo, l’unità, il confronto, la morte. Il progetto è tanto ambizioso quanto affascinante e calza perfettamente a questi strani giorni in cui i concetti di ‘unità’ e ‘diversità’ sono utilizzati strumentalmente per creare consenso politico. Ad ogni tema corrisponde una porzione di film. Gli estratti visionati da JAM sono straordinari: le immagini delle performance di cantanti e strumentisti catturate in giro per il mondo sono montate assieme a spezzoni d’interviste a pensatori e scrittori sul tema in oggetto a a riprese fatte in giro per il mondo anch’esse legate ai concetti chiave. L’effetto finale è suggestivo, in più d’un frangente spettacolare. Saremo forse sentimentali, ma 1 Giant Leap riesce a trasmettere uno straordinario senso di empatia, molto più di quanto non riesca a fare il disco.
Difficile sfuggirne l’impatto emotivo: ascoltare e soprattutto vedere in azione la cantante Asha Bhosle in India, per poi essere trasportati in una frazione di secondo in Sud Africa, dove Pops Mohamed ha aggiunto la sua kora, ha qualcosa di magico. Sì, perché al posto di far lavorare i musicisti su un canovaccio prestabilito, Bridgeman & Catto li hanno fatti suonare a ruota libera, aggiungendo strada facendo i vari tasselli, i suoni che oggi compongono quel bizzarro mosaico che è 1 Giant Leap. E sono andati a registrarli e filmarli sul posto, praticamente a casa loro. Per farlo, i due produttori si sono avvalsi dell’ultimo gadget offerto dalla tecnologia: la registrazione digitale su computer portatile (vedi box). In altre parole, hanno registrato, programmato e mixato le tracce sonore su un Macintosh. È l’equivalente moderno del registratore di 140 chili di peso che negli anni Trenta i ricercatori John e Alan Lomax caricavano nel retro della Ford di famiglia prima di battere il Sud degli Stati Uniti in cerca di musicisti blues, country e folk da incidere e archiviare per la Biblioteca del Congresso. Con una differenza fondamentale: i due novelli Lomax non hanno utilizzato la tecnologia da etnomusicologi, per documentare insomma, ma per assemblare, manipolare, creare. Bridgeman & Catto hanno così potuto registrare, per una stessa canzone, le voci in Nuova Zelanda, il duduk in Francia, il flauto in India, riuscendo a far suonare il risultato finale coerente e per nulla posticcio.
Sulla carta Bridgeman & Catto non erano nemmeno le persone più adatte per affrontare un progetto tanto ambizioso di sincretismo musicale. Non per capacità, intendiamoci, ma per formazione culturale, la loro, apparentemente distante anni luce dalla world music. Musicista e regista, Jamie Catto è tra i fondatori del gruppo dance pop dei Faithless, ha girato per loro il video di God Is A Dj ed è direttore artistico della loro etichetta discografica, la Cheeky. Duncan Bridgeman, produttore e musicista, ha debuttato negli anni Ottanta come membro degli I-Level, per poi lavorare al fianco di pop star come Duran Duran, Eurythmics e Take That. Pare che il loro sia stato il classico incontro fatale: hanno scoperto l’amore comune per Passion di Peter Gabriel e My Life In The Bush Of Ghosts di David Byrne & Brian Eno e hanno elaborato il progetto – ambizioso, quasi un sogno – di girare il mondo registrando i loro artisti preferiti. Il sogno è diventato realtà quando Chris Blackwell, boss della Palm Pictures e già fondatore della Island, ha offerto loro un finanziamento e il contratto discografico.
In Senegal Bridgeman & Catto hanno registrato la voce di Baaba Maal, il moderno griot che rende tanto intense due canzoni (Dunya Salam, dedicata al tema della “ispirazione”, e Bushes, nata come omaggio all’album di Byrne & Eno), oltre a djembe e sabar (due percussioni) di Bada e Bakane Seck, strumenti in seguito sovrapposti alle voci delle sudafricane Mahotella Queens in Ma’ Africa. Ad Accra, nel Ghana, è stata immortalata una performance di Mustapha Tettey Addy e della sua famiglia di percussionisti i cui suoni adornano Passion (proprio come l’album di Peter Gabriel), canzone alla quale il rapper Michael Franti avrebbe poi aggiunto un frammento spoken word. In Sud Africa, tra Città del Capo e Johnannesburg, i due inglesi hanno registrato e filmato moltissimo materiale, da tracce vocali delle Mahotella Queens a un’intervista con Johnny Clegg, dagli interventi del multistrumentista Pops Mohammed al violino elettrico di Brendan Jury. Sul margine del Lago Vittoria, in Uganda, echeggiava il suono di un enorme xilofono suonato da 12 musicisti, mentre a Kampala, sulle tombe dei re ugandesi, i due produttori telefonavano a Brian Eno per fargli ascoltare il suono dell’endegindi, violino tradizionale con una sola corda. In India Asha Boshle, celebre voce di Bollywood, la locale industria del cinema, ha intonato un canto utilizzato come introduzione a The Way You Dream, canzone interpretata ad Athens da Michael Stipe dei R.E.M., per poi andare a filmare i monasteri del Tibet e il profilo dell’Himalaya.
E ancora: la vita notturna di Bangkok, in Tailandia, si è prestata ad essere filmata per il capitolo sul sesso, mentre le Blue Mountains australiane hanno offerto uno scenario spettacolare per l’esibizione della cantante d’opera Penny Shaw. In Nuova Zelanda il contatto con la cultura degli aborigeni ha prodotto alcune parti vocali indimenticabili (per gentile concessione della cantante Whiri Mako Black). Prevedibilmente, gli Stati Uniti si sono rivelati una vera miniera di suoni (dall’ensemble vocale Ulali ai rapper Speech e Michael Franti, dal dj Swamp al cantante Grant Lee Phillips fino ai due ex Police Stewart Copeland e Andy Summers, che però non compaiono nell’album), chiacchierate (con alcuni ‘non allineati’ come gli scrittori Tom Robbins e Kurt Vonnegut Jr e l’attore Dennis Hopper), incontri (nativi americani dalle parti di Fresno). Ma il disco e il film ospitano interventi anche di Linton Kwesi Johnson, Neneh Cherry, Eddi Reader, Maxi Jazz, Robbie Williams e decine di altri artisti. (Un dettagliato diario di viaggio, corredato da fotografie spettacolari e brevi filmati, è rintracciabile presso www.1giantleap.tv, sito ufficiale dell’operazione.) Naturalmente, quanto appare nel cd e nel film è solo una minima parte dell’immensa mole di materiale raccolto in sei mesi di peregrinazioni all’insegna del motto di Tolkien: “Non tutti quelli che vagano si sono perduti”.
Alla fine del viaggio, armati di laptop, i due produttori hanno assemblato i pezzi sulla ‘tela’ digitale. Duncan Bridgeman, in particolare, ha aggiunto pattern ritmici, tastiere d’atmosfera, bassi e chitarre elettriche. Fatto un passo indietro, lui e Catto hanno probabilmente gustato l’effetto finale: un affresco sonoro e visivo colorato e ambizioso fin dal titolo: 1 Giant Leap. È una citazione della frase pronunciata dall’astronauta Neil Armstrong il fatidico 20 luglio 1969, mentre metteva piede sulla Luna: “È un piccolo passo per un uomo, ma un balzo gigantesco per l’umanità”. Non è male nemmeno la frase pronunciata dal solitamente schivo Vonnegut, intervistato da Bridgeman & Catto: “Per me la musica è la prova dell’esistenza di Dio”.