02/09/2010

1970-2010 WIGHT

UN’ISOLA ROCK AL CENTRO DEL MONDO

Testi a confronto. «Presi su un figlio di Dio / Stava camminando sulla strada / Gli chiesi: dove vai? / E mi rispose così / Sto andando giù alla Yasgur’s Farm / Sto andando a suonare in una rock’n’roll band / Sto andando ad accamparmi sulla nuda terra / Sto provando a liberare la mia anima / Siamo polvere di stelle / Siamo persone d’oro / E dobbiamo ritornare nel giardino dell’Eden» (Joni Mitchell, Woodstock). «Sai cos’è l’isola di Wight / È per noi l’isola di chi / Ha negli occhi il blu / Della gioventù / Di chi canta / Hippie hippie pi» (Dik Dik, L’isola di Wight).
Che differenza, vero? Ci ho riflettuto molto. Ho scritto tutto l’articolo che state per leggere. Poi ho riletto. E mi sono detto questo: rispetto a Woodstock, Wight non la si racconta con i toni del mito. Wight è qualcosa di più familiare, anche se ha solo un anno in meno. È più nostra, più vicina a noi, più casereccia. Non a caso si dice sia stata la risposta europea alla storica tre giorni di White Lake. Bene, è proprio così. Allora non è un problema se a farti venire in mente di quel festival non c’è il titolo di un pezzo di Joni Mitchell (che però a Woodstock non c’era, guarda un po’) ma una canzone che i nostri Dik Dik (incredibile, nemmeno loro hanno mai messo piede a Wight) ripresero da Wight Is Wight del bel francesino Michel Delpech. Però il sugo non cambia. Basta sostituire Yasgur’s Farm con Afton Farm.

Era l’estate dei mondiali di calcio in Messico. Quella di In The Summertime di Mungo Jerry e dei Beatles trasformatisi in un caro ricordo. La prima estate dei 70, ancora indecisa, a bordo vasca, se tuffarsi in un decennio nuovo o tirare indietro il piede e rimettersi il 6 davanti. Era semplicemente estate, e questo dovrebbe bastare. Nel 1970 Freshwater era (ma lo è ancora, ve lo garantisco) un paesetto addormentato di un sonno tutto inglese, con i cottage dal prato fino e nessun cancello a difendere i nanetti; un solo pub in cui andare a bere la sera e portarci la famiglia alla domenica mezzogiorno; una chiesa, un ufficio postale e tanti di quei campi da farti odiare il verde e le pecore.
I primi furono mamma e papà con i due figlioletti al seguito. Americani del Massachusetts. Piantarono la loro tenda quando nessuno si era ancora fatto vedere. Due settimane più tardi oltre 600 mila persone erano lì a far loro compagnia. Arrivarono da ogni parte del mondo, con ogni mezzo, su un’isola che a sentire il nome nessuno ti sapeva dire dov’era. Londra. Poi scendi giù dritto fino a Portsmouth, o a Southampton, se proprio proprio anche Lymington. Imbarcati. Mal di mare? Sono solo 20 minuti in nave. Scendi a Ryde o a Yourmouth. Poi chiedi di Afton Farm. E arrangiati.
Meno ne sapevi e più eri un ribelle. Di festival ce n’erano stati a decine. Ma questo sapeva di grosso. Ci sarebbero stati tutti. Tutti chi? Tutte le star del rock. E poi siamo su un’isola. Lontani, fuori dal mondo, nessuno che rompe le balle. Il popolo della musica, il popolo hippie che sbarca sulle spiagge dove i borghesucci inglesi prendono il sole panzolle, e cambia le regole. Oh bene, non che i quieti isolani non ne avessero già avuto esperienza. Ma gli anni prima era stato tutto più tranquillo. Massimo 150 mila persone, nell’estate del 1969, quella di Woodstock. Quella in cui Bob Dylan, dopo la caduta, decise di rimettersi in moto preferendo un’isola inglese dimenticata dal Signore ai 500 mila nel fango di Yasgur’s Farm. E proprio il successo di Woodstock aveva detto due cose. Il sogno peace, love and music era possibile, e se qualcuno ci poteva fare dei gran soldi, allora tanto meglio.
Il terzo Festival Pop dell’Isola di Wight prese inizio proprio lì, nell’estate del ’69, quando Dylan scese dal palco, in mezzo alle urla, e gli organizzatori si guardarono negli occhi, videro sterline e si dissero: «L’anno prossimo raddoppiamo, facciamo 300 mila». Un anno e un investimento da 250 mila sterline (di cui la metà andate perdute) ci vollero alla Fiery Creations dei fratelli Ronald e Raymond Foulk per mettere in piedi quello che avrebbe dovuto essere nelle intenzioni «il più grande e più spettacolare festival di musica mai realizzato nel mondo». Gli inviti partirono già a gennaio. Bisognava convincere i promoter delle star a sciogliere il guinzaglio. Promesse su promesse (solo alcune avveratesi): un’orchestra di 90 elementi avrebbe accompagnato le performance (no), musica 14 ore al giorno (forse), riprese dal vivo con uno schermo di 40 piedi per 40 di fianco al palco (no). E un film già in cantiere, questo sì, proprio come a Woodstock. Il che significava diritti cinematografici, e altri biglietti colorati con il profilo della regina in arrivo.
«Ventitre miglia da est a ovest, tredici da nord a sud. È stato calcolato che le 300 miglia quadrate dell’Isola di Wight sono in grado di ospitare l’intera popolazione mondiale. E quello che sta per arrivare potrebbe essere un party piuttosto affollato», c’era scritto sul prospetto che gli organizzatori presentarono a Mark Woodnutt, conservatore incallito, membro del parlamento inglese e rappresentante della contea di Wight. «Passammo molte sere dell’inverno a parlare con lui», racconta Ron Smith, direttore del festival. «Woodnutt voleva una fetta del pacchetto azionario, pensava di aver trovato la maniera per fare dei bei soldi. Non sganciammo una lira, e fummo costretti a subire il loro boicottaggio. Praticamente ci costrinsero a scegliere il prato di Afton Farm. Volevano distruggerci: il prato è sormontato dalla collina. Ci rendemmo subito conto che ci sarebbe stata più gente fuori che dentro».
A marzo si tastava il terreno per portare sull’isola Simon & Garfunkel, i Rolling Stones, Richie Havens, Sly & The Family Stone. Qualcuno pensò addirittura a una speciale reunion dei Cream. Ora dei primi di giugno gli unici big confermati erano Who, Havens, Chicago, Pentangle e Mungo Jerry, ma qualche speranza si nutriva ancora per i Beach Boys. I deejay sarebbero stati Rikki Farr (un gallese stizzoso e tarchiato, pieno di energie, entusiasmo e pretenzioso ottimismo) e l’autorità in fatto di musica progressive, Jeff Dexter. Dopo qualche settimana ecco altre conferme: Jimi Hendrix, per 10 mila sterline in più, sarebbe arrivato direttamente dalle Hawaii dove stava girando il film Rainbow Bridge. Anche i Doors, dopo 6 mesi di estenuanti trattative, diedero il loro sì. A luglio infine arrivò la notizia che Joan Baez avrebbe cantato nella serata di domenica, a 3 anni dalla sua ultima esibizione in terra inglese. E a cascata il tabellone si riempì. Una delle ultime caselline la occupò Miles Davis: il suo doppio Bitches Brew, un condensato di elettricità e melanconia, era già stato sdoganato all’Hollywood Bowl e al Fillmore East. Ora l’esploratore sceglieva di battezzare il suo jazz con il sudore di Wight.
Un anno di attesa, dunque. In mezzo ancora e solo festival rock, incuranti dei sorrisi spezzati di Altamont (quattro morti nel dicembre del ’69). In Gran Bretagna spuntano come funghi: a Plumpton in maggio (ci sono i Van der Graaf Generator), fine giugno a Bath (Led Zeppelin, Santana, Byrds), agosto Pilton e Krumlin, nello Yorkshire. Robetta. Dicono i promoter: «La gente fa affidamento su questo festival per rivitalizzare la loro fede in questo tipo di eventi. Ultimamente è stato pieno di schifezze».

Afton Farm, Freshwater, 26-30 agosto. Third Isle Of Wight Pop Festival. L’invasione ci fu. Miliardi di telefonate, locandine sparse per l’Europa su riviste e giornali, radio e tv che ne parlano con i toni ironici dell’evento di costume o con quelli maliziosi di una seccatura sconveniente (ma qualcuno si ricrederà). Una colonna di auto si sposta verso la costa sud dell’Inghilterra. Il governo potenzia ferrovie e trasporti marittimi. Fino all’ultimo giorno il serpentone sarà pressoché ininterrotto. Lungo la strada che da Newport, la capitale dell’isola, si sposta verso ovest in direzione di Freshwater, c’è un campo di 300 acri che gli organizzatori hanno trasformato in un’enorme arena rock. A Woodstock non c’era stato tempo sufficiente per erigere la staccionata, e il concerto fu gratuito. Qui invece le barriere ci sono e pure belle alte. Gratis i primi due giorni (mercoledì e giovedì), 3 sterline per il weekend. Non un patrimonio, ma nemmeno poche per un ragazzo, nel 1970. E siccome questa volta tutta pace non è, queste 3 sterline saranno causa di grossi casini. Eccoli i 70, iniziano a farsi sentire.
Dall’alto della collina di Afton Down si gode di una vista da ghigliottinare il fiato. Alle spalle il mare della Manica sbatte contro le scogliere bianche di Compton Bay. Sulle spiagge di sassi gli hippie prendono il sole nudi, fumano, cantano e suonano. Davanti la vista corre fino alle coste inglesi, e abbraccia l’isola intera. La fiumana invade gli spazi. Sono giornate calde e umide quelle degli ultimi giorni di agosto. La natura si è fermata, in attesa. Le tende sono migliaia sul prato in pendenza, sfidano la forza di gravità e sfoggiano bandiere di tutti i colori, messe lì apposta per dirti quanto casa sia lontana. Il fumo dei fuochi da campeggio sale verso l’alto, i bambini se ne fregano della musica, giocano e si fanno dipingere la faccia. Desolation Row la chiameranno, come la canzone di Bob. La collina degli sfollati, di chi ha scelto di guardare tutto da lì: il palco si scorge appena, ma il vento da nord spinge le note fin su, nitide.
Le cronache e i racconti girano per i viottoli dell’isola come bisbigli da vecchietta di paese. Ad alcuni si crede, ad altri no. Così ti giungono voci di case, giardini privati, alberghi presi d’assalto, sesso all’aria aperta, rifugi costruiti con ogni materiale (lenzuola, balle di fieno, lamiere d’auto), poliziotti travestiti da hippie che arrestano gli spacciatori al porto di Ryde (ridicoli, perché mettono le magliette tie dye ma dimenticano di farsi crescere i capelli), matrimoni lampo modello Las Vegas, un ragazzo portato in elicottero all’ospedale di Southampton dopo essere volato da una scogliera, falde acquifere inquinate di Lsd, parti come nascite e party come feste, disseminate ovunque e insaporite di aromi vari. I trip non sono però tutti colorati e celestiali. Wight è anche il festival in cui iniziano a girare droghe pesanti. E può succedere che l’aria si faccia indigesta, la tensione esploda, gli animi diventino incontrollabili. Poliziotti con i cani, spranghe, bastoni, pugni che volano, grida, durante gli scontri. Non è difficile capire che lì in mezzo non ci sono solo pacifisti. Ci sono gruppi organizzati che vogliono seminare macello: anarchici, white e black panthers, frange di Hell’s Angels. Protestano contro il costo del biglietto, dicono che non se lo possono permettere. Ma quando gli organizzatori distribuiscono 10 mila tagliandi gratis per farli stare buoni, loro li rivendono e tornano ad abbattere le lamiere del recinto (che il giorno dopo è di nuovo in piedi più alto di prima). «Questo è l’ultimo festival, quando è troppo è troppo. È partito come un sogno bellissimo ma ci è sfuggito dal controllo diventando un mostro», avrebbe dichiarato il lunedì mattina Ron Foulk. Le scottature erano ancora calde, ma aveva ragione. Sarebbe stato l’ultimo festival. Sogni e incubi che convivono, paure e oasi di totale serenità. Wight fu uno degli eventi più contradditori della storia rock.

Un palco tutto sommato piccolino, chiuso sopra, disegnato sulle linee di uno stand da esposizione universale. Quattromila watt di impianto audio, due torri luci che si elevano in mezzo alla folla, un mixer a 25 canali e una quantità infinita di microfoni. In tempi in cui il soundcheck non era ancora stato inventato, l’unica era salire, suonare e sperare. Solo i Jethro Tull pretesero le prove; trovarono il tempo la domenica mattina all’alba, quando sul prato tutti dormivano dentro i loro sacchi a pelo. Dietro il palco, nei pressi del campeggio, il più grande tendone gonfiabile d’Europa, trasformato in discoteca. Il festival, del resto, non vive solo on stage, ma anche e soprattutto in giro. Show improvvisati ovunque, concerti per pochi. Come quello gratuito che Hawkwind e Pink Fairies danno vita, stretti sul rimorchio di un tir, a sostegno della protesta. Intanto gli artisti arrivano, si fanno fotografare, lanciano messaggi di pace, amore e pubblicità. Il backstage è un accampamento nomade di roulotte, camper, tir, pullman. Leonard Cohen pretende di alloggiare su uno yacht, Joan Baez in una villa di campagna (ma si accontenterà di un hotel a Shanklin).
È un’isola, Wight, da sandali e petto nudo di giorno, calzettoni e montone afghano di sera. Mangiare ce n’è poco, i cessi stanno a due ore di coda dal tuo posto. Togetherness si dice in inglese. La musica fa dimenticare tante cose. Anche la solitudine. E se hai esagerato con le pasticche, il reverendo della contea ti rimette i peccati nella tenda trasformata in chiesa.
Le prime note sono quelle degli sconosciuti Judas Jump, nel primo pomeriggio di mercoledì 26 agosto. La due giorni di free show scorre via davanti a una folla in continuo aumento. Gli elicotteri dall’alto filmano per la tv un formicaio spaventoso. La stessa sera Kris Kristofferson interrompe la sua Me & Bobby McGee e scende dal palco: all’esterno si battono pietre contro le lamiere del recinto, e 250 guardie sono poche per contenere migliaia di agitati (nei giorni successivi al governo inglese verrà in mente di inviarne qualcuna di più). I francesi sono i più attizzati: banditi i pop festival a casa, scelgono l’Inghilterra per sfogare la loro voglia di buone risse vecchia maniera.
L’inizio vero è dei Fairfield Parlour, venerdì 28. Con loro inizia il weekend più caldo del 1970. Il pirata Nick Turner guida gli Hawkwind nello spazio, gli Arrival (accompagnati dalla sezione ritmica della Joe Cocker’s Grease Band) vincono il premio per i vestiti più assurdi, «tre grandi musicisti» urla nel microfono Farr annunciando i Taste. Si viaggia spediti: alle 8 della sera è già ora degli headliner, i Chicago (che minacciavano di dare forfait solo perché sul programma il loro nome non era stato scritto abbastanza in grande). Mr. Terry Kath, chitarra di fuoco dall’Illinois, saluta tutti quando è già notte: «Ecco qua. Siete troppi. Siete bellissimi. Tutti noi stiamo spaccando!». Sarebbero arrivati poi i Family, i Procol Harum. Giusto due nomi. E le voci di est Harlem, quindici ragazzini alla Jackson Five accompagnati da una band di sei elementi. Stupefacenti. A Wight c’è di tutto, anche le barriere dei generi (non solo quelle di lamiera) vengono abbattute con naturalezza estrema. Intanto gli scontri diminuiscono e il problema della Fiery Creations diventa il consumo di droghe, per il quale deve rendere conto alla polizia inglese. Al microfono Farr è costretto ad annunciare che chiunque faccia uso di stupefacenti verrà allontanato dal campo. Ridono tutti, anche lui mentre lo dice.
Al sabato i numeri sono già arrivati oltre le aspettative. Si cerca di correre ai ripari facendo spedire da Londra nuovi biglietti freschi di stampa. Poi, quando anche quelli finiscono, le porte si aprono e il festival diventa gratis. John Sebastian, veterano di Woodstock, attacca quando sono le 11 del mattino. È fortunato John: durante il bis un mazzo di palloncini scoppia in volo e fa cadere dal cielo una scritta lunga mezzo miglio, We love you. «Cool and beautiful», commenta lui. Un altro biglietto, questa volta arrivatogli sottobanco, gli fa spalancare gli occhi: dietro il palco, a sua insaputa, c’è l’amico Zal Yanovsky. «Come on, Zal!». Bastano due parole e a Wight dopo tre anni due Lovin’ Spoonful tornano a suonare insieme. Diavolo d’uno Zal: lui, la barba da rabbino e la sua bottiglia di Teacher’s abbracciano chiunque salga sul palco. Joni Mitchell, per esempio, la grande assente a Woodstock (a dire del suo manager meglio uno show televisivo a quattro gatti di hippie) che canta dentro un vestito giallo primaverile con la naturalezza di chi si sente a casa. Respinge anche un’incursione sul palco (una delle tante tra parole sbiascicate, eccessi di nudismo e segni della pace), si incazza con garbo, chiede e ottiene il rispetto che merita. Rock woman.

A distanza di tanti anni le foto in bianco e nero di chi c’era, a trovarle nel cassetto, ti ridarebbero la schiena inarcata di Alvin Lee in I’m Going Home, Miles Davis che al tramonto dilata con la sua tromba i confini dell’isola, la giacca scozzese di Tiny Tim, il gilet di Donovan, la salopette bianca di Pete Townshend, la vestaglia di Ian Anderson, i pantaloni attillati di Emerson, Lake e Palmer, esploratori di un suono nuovo e barocco mai sentito prima (eh sì, i gusti musicali si stanno facendo anche più ricercati: sono i semi dell’ondata progressive rock). Ma gli elenchi sono inutili: oggi di fronte a tanta qualità moriremmo di overdose. Il nostro fisico non reggerebbe. All’epoca l’antidoto si chiamava incoscienza. Sana incoscienza. Quella che ti fa solo intuire di essere nella storia. «Ma sì, li rivedremo, ci torniamo l’anno venturo» (e invece no, fine dei giochi). «Jimi Hendrix ha attaccato troppo tardi? Tutti già dormivano? Lo seguiamo per la tournée in Germania a settembre» (poche settimane dopo Jimi già non c’era più, addio Germania). «Morrison non era in forma? Sarà per la prossima volta» (un anno dopo non ci sarebbe stato più nemmeno Jim).
Sulle quattro assi di Wight si consumano destini strani. Cinque minuti dopo la mezzanotte di sabato i Doors provano a sostenere un Jim Morrison quasi irriconoscibile, strafatto e pallido, segnato dal processo mossogli contro dal governo americano (genitali o presunti tali mostrati al pubblico a Miami nel gennaio del ’69 durante un concerto). La notte successiva Hendrix sale sul palco alla stessa ora, insieme a Billy Cox e Mitch Mitchell. A Woodstock aveva suonato con la luce, sapeva chi aveva di fronte. Qui è tutto buio, sa che ormai arrivati a questo punto ce ne sono oltre 600 mila, ma non li vede. Si agita. Lo tradisce anche l’impianto. La sua chitarra non prende il volo come le altre volte. Strana notte, quella. Un incendio brucia il tetto del palco, Joan Baez cerca di risollevare la situazione dopo un tempo che pare interminabile, Leonard Cohen fa breccia con la sua poesia nel buio umido e freddo. Non sarà mitica, ma epica sì, Wight. E quando Richie Havens tira giù la serranda alle prime luci del mattino cantando Here Comes The Sun, qualche goccia di pioggia bagna un popolo intero. È tutto.

L’inno ufficiale dell’Isle Of Wight Festival avrebbe dovuto essere Let The World Wash In, una canzone che i Fairfield Parlour registrarono nella primavera del ’70 sotto lo pseudonimo I Luv Wight. Un accordo con gli organizzatori che avrebbe dovuto fruttare loro un sacco di notorietà. Invece quel disco fu suonato una volta sola, durante un cambio palco, e non arrivò nemmeno alla fine. Rikki Farr prese il 45 giri e lo gettò in mezzo alla folla come un frisbee precisando il suo pensiero al microfono: «C’è già troppa merda in giro». I responsabili tentarono di rimediare allo smacco proponendo al gruppo una nuova performance dal vivo per il giorno finale. Ma anche quella volta Farr li boicottò e si rifiutò di presentarli quando già erano pronti a salire sul palco. Misteri e intrighi mai chiariti. Sta di fatto che l’inno di Wight divenne una versione strumentale di Amazing Grace (in origine un’antica preghiera inglese) suonata interamente da David Cohen dei Country Joe & The Fish. Let The World Wash In, con tutta probabilità, era più bella, e il suo testo commovente (perfetto per l’occasione) diceva così: «Un’isola non è un’isola / È solo una pietra su cui saltare per andare avanti / Ci sono cose / Che si possono fare con una calma sottile / Lascia che siano loro a dirtelo / Sei fatto affinché si avveri / E poi lo sai / Prendiamo posto in cerchio / E potremo stare tutti insieme / Lascia che il mondo si risciacqui / Lascia che si riversi ancora e ancora».
La folla di Afton Farm fu un oceano immenso, non sempre limpido, a tratti insozzato dai tempi e dalle menti che si stavano infangando. Ma è certo che per 5 giorni, il mondo intero, in quell’acqua viva e sacra come il Gange, ci lavò dentro ogni paura, ogni voglia che le cose cambiassero. Sono passati 40 anni. Un bagno così me lo farei anch’io.

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