Sembra un ragazzino. Capelli lunghi, basette, occhiali da sole, jeans e maglietta, Peter Fonda, a 69 anni suonati, appare e si comporta quasi fosse ancora l’ultimo rampollo di una delle dinastie reali di Hollywood: un piccolo ribelle, stravagante, scapestrato ma molto simpatico, amico dei Beatles e fan dei Byrds, che fumava marijuana in pubblico e non faceva mistero di sperimentare nuovi stati di percezione sensoriale. Un personaggio controverso che, per molti, è ancora una delle icone più seducenti della controcultura degli anni 60. Magro, tonico e sorridente, Fonda sembra davvero in gran forma. «È tutta apparenza», commenta in modo autoironico, «vedi qui? Ho due belle placche d’acciaio nelle ginocchia, triste ricordo di un incidente in moto». Già, la moto… Quella Harley Davidson sulla quale posa per la felicità di fotografi e operatori tv non può non farci venire in mente Wyatt/Captain America, il personaggio che interpreta in Easy Rider, il film che ha cambiato la storia del cinema e quella di milioni di giovani negli anni 60 e 70. E che, sicuramente, ha condizionato l’intera carriera artistica di Peter Fonda e, forse, la sua stessa vita. «L’enorme successo di Easy Rider è stato quasi imbarazzante, per certi versi addirittura fastidioso» mi confessa «anche perché non è stato solo il pubblico a identificarmi con Captain America. Gli stessi registi o produttori, per anni, mi hanno offerto ruoli che, di fatto, erano tagliati su misura per quel personaggio. Col tempo ho capito e accettato il fatto che tutto era legato all’importanza che quel film aveva avuto. Non solo. Easy Rider ha fatto sì che mi scrollassi di dosso l’immagine del “figlio di Henry Fonda” o del “fratellino di Jane”. Anche se, per tutti, però, non ero Peter Fonda ma… Captain America».
Fonda è l’ospite speciale dell’edizione 2009 del BA Film Festival di Busto Arsizio, rassegna emergente che ha deciso di celebrare alla grande il 40esimo anniversario di Easy Rider, pellicola che l’American Film Institute ha inserito tra le 100 più importanti del XX secolo. Ma alla quale, nonostante le numerose pressioni, Peter ha sempre rifiutato di dare un seguito. «È il motivo per cui ho voluto far morire i protagonisti alla fine della storia», mi dice ridendo, «come si può ripetere un film del genere? Che senso avrebbe avuto farne un sequel? Dopo un successo tale, la critica ti aspetta con i fucili spianati: qualsiasi cosa tu faccia, viene paragonata all’originale e ne esce sempre sconfitta. Semmai, oggi avrebbe senso riprendere lo spirito di Easy Rider inventandosi altri personaggi per verificare cosa significhi per loro attraversare l’America nel nuovo millennio. Credo sarebbe interessante e, forse, porterebbe allo stesso tipo di domande e riflessioni fatte per il film originale: cosa sta succedendo oggi al nostro paese? Cosa è diventata l’America?».
Easy Rider è famoso anche per la colonna sonora. Per la prima volta, un film usa canzoni rock di successo. Anche se qualcuno dice che Peter Fonda in cuor suo volesse usare le sue canzoni come soundtrack. «Non è vero», mi risponde convinto, «non ho le qualità musicali di Clint Eastwood. Piuttosto, io e Dennis Hopper abbiamo messo insieme le nostre rispettive collezioni di dischi e cominciato a selezionare i brani. Devo dire che la scelta dei pezzi e l’accoppiamento degli stessi con le scene del film è stato un lavoro svolto prevalentemente da Hopper. Ed è stato fatto da dio. Persino i miei amici Crosby, Stills & Nash mi hanno detto che non avrebbero saputo fare di meglio. Persino Robbie Robertson – il chitarrista di The Band, interpellato prima di tutti, prima ancora di aver scelto le canzoni e che ci aveva letteralmente snobbato – dopo aver visto il film con la selezione dei brani musicali è rimasto di sasso. “Voglio fare io tutta la colonna sonora”, ci ha detto, entusiasta. Ma ormai era troppo tardi». A proposito di David Crosby, molti hanno pensato che il look di Billy (l’altro biker della storia, interpretato da Dennis Hopper, con giacca a frange, capelli lunghi e baffoni) fosse stato proprio ispirato al rocker californiano. «David Crosby e Graham Nash sono miei grandi amici», spiega Fonda, «ma il look di Billy non ha niente a che fare con quello di Crosby. Sono stato io che ho suggerito a Hopper di farsi crescere i baffi. “Anche se sei castano chiaro, devi provare ad assomigliare il più possibile a Che Guevara”, gli dicevo. La nostra idea, infatti, era quella di rappresentare due rivoluzionari e il Che, per noi, era la quintessenza della rivoluzione. Inoltre, Easy Rider cercava di dimostrare che bisogna andare oltre le apparenze. Quella degli anni 60 era un’America estremamente bigotta: se avevi i capelli lunghi e i baffi o eri vestito in modo eccentrico venivi considerato un hippy, un sovversivo, un gay, un comunista… e rischiavi la vita. Come dimostra il finale del film. Purtroppo, anche se in modi diversi, nel paese c’è ancora troppa intolleranza. E abbiamo ancora molto da fare per proseguire nell’evoluzione del nostro senso civico».
Peter Fonda è un fiume in piena. Racconta diversi aneddoti sulla colonna sonora di Easy Rider. Come la telefonata entusiasta di Jimi Hendrix o le reazioni negative di Bob Dylan a cui non era piaciuto il finale e non voleva rilasciare la liberatoria per l’uso di It’s Alright ,Ma. «Poi si è convinto e ha scritto su un foglietto il testo della Ballad Of Easy Rider che io e Roger McGuinn abbiamo musicato, una notte al bar». Scherza quando ricorda una notte lisergica, nella villa al Benedict Canyon con i Beatles. «Eravamo sotto acido. Harrison però stava facendo un “brutto viaggio”… I know what it’s like to be dead (so cosa significhi essere morto) gli ho detto, cercando di calmarlo, ricordandogli quando da piccolo, per un pelo, mi ammazzo giocando con una pistola di mio padre. John Lennon mi ha sentito e ha scritto She Said, She Said. Ti rendi conto? Dopo aver fatto Easy Rider, aver vissuto in un’epoca fantastica insieme alle più grandi personalità artistiche del Novecento, ho pure ispirato un pezzo dei Beatles. Cosa posso chiedere di più alla vita?».