Liverpool, Gambier Terrace. È una fresca serata della primavera del 1960. Nei pressi della Cathedral Church Of Christ, quattro amici stanno chiacchierando del loro futuro musicale. «Chiameremo la nostra band The Beatles», afferma convinto John Lennon, quello che dei quattro sembra essere il capo. È della stessa idea l’amico Stuart Sutcliffe, suo compagno alla locale scuola d’arte. «Non trovate sia un tantino repellente? Che, insomma, faccia un po’ schifo?», ribattono invece gli altri due, Paul McCartney e George Harrison. «No, secondo noi funziona», spiega Lennon, «ha un doppio significato: beetles nel senso di scarafaggi e beatles, come musica beat. Anche il nome dei Crickets il nostro gruppo preferito, quello che accompagnava Buddy Holly aveva un significato doppio: era il nome di un insetto (il grillo) e quello di un gioco di squadra (il cricket, appunto)». Pazienza se, qualche anno dopo, quando i Beatles incontrano i Crickets e discutono con loro proprio del nome del gruppo, quelli (che sono texani) manco sanno cosa sia il cricket… Il nome è comunque deciso. «Ma la vera origine è ancora in ballottaggio», diceva anni fa George Harrison. «Lennon sosteneva di averlo inventato lui ma io ricordo benissimo che Sutcliffe era con John la notte prima dell’annuncio. È vera l’analogia con i Crickets di Buddy Holly. Ma è altrettanto vero che Stu era pazzo di Marlon Brando. Nel film Il selvaggio c’è una scena in cui Lee Marvin dice: “Johnny, ti stavamo cercando, sei mancato molto ai Beetles, a tutti i Beetles”. Chissà, forse anche quella è stata un’ispirazione. Io dividerei il merito al 50% tra John e Stu».
Dopo aver trovato il nome, mancano solo i concerti. «Per fortuna ci ha pensato il marito di mia cugina Betty Robbins», racconta Paul McCartney. «Io e John andavamo spesso in un pub di Reading (il Fox And Hounds) gestito da Betty e da suo marito. Abbiamo lavorato lì come baristi al bancone e questa esperienza ha cementato la nostra amicizia. Poi, dopo una settimana, sempre al pub, ci siamo presentati come duo musicale, The Nerk Twins. Ci siamo persino disegnati da soli le locandine. È stato il marito di mia cugina a spingerci a farlo: ci ha, per così dire, introdotti nel mondo dello spettacolo, regalandoci anche un sacco di suggerimenti utilissimi».
«In quei giorni» ricorda Lennon «a Liverpool c’era molta musica in giro. In maggio, è giunto in città Larry Parnes per fare alcune audizioni: lui era un agente importante che veniva da Londra… aveva nuovi artisti e cercava giovani gruppi che facessero da supporter. Gli avevano detto che a Liverpool c’erano un sacco di band… Si è stabilito al Blue Angel: di fronte a lui sono passati tutti i gruppi rock di Liverpool, noi compresi».
«Prima di presentarci al Blue Angel per il provino» racconta Harrison «siamo andati a comprare delle scarpe fighissime, con le stringhe e gli inserti bianchi sulla tomaia. Eravamo poveri e non avevamo vestiti decenti. Così abbiamo cercato di inventarci una specie di uniforme: camicie nere e queste scarpe, secondo noi, superbelle. Giunti al club, scopriamo però che il nostro batterista non era arrivato. Abbiamo dovuto sostituirlo all’ultimo con Johnny Hutchinson di Cass & The Cassanovas. Per fortuna, non siamo andati così male».
«Stu non sapeva suonare», racconta Paul McCartney, «allora gli abbiamo consigliato di girarsi dall’altra parte e di fare il tenebroso, un po’ alla Elvis. Se qualcuno ci avesse fatto caso, avrebbe notato che mentre noi facevamo una certa nota probabilmente Stuart stava suonando altro. Eppure, Larry Parnes è balzato in piedi dicendoci che eravamo fantastici. Per noi c’era pronto un contratto: andare in tour con Johnny Gentle».
È il primo vero ingaggio dei Beatles. Si parte: destinazione Nord della Scozia. «Ci esibivamo in sale da ballo di periferia», ricorda George Harrison, «ma ben presto ci siamo resi conto che in quei localini non entrava mai nessuno. Almeno fino a quando i pub si svuotavano e allora venivano ad ascoltarci cinque o sei ragazzotti scozzesi, completamente ubriachi… un disastro! Era triste, quasi come sentirsi orfani: avevamo le scarpe bucate e i pantaloni che facevano schifo. Johnny Gentle, almeno lui, indossava un vestito elegante. Noi eravamo penosi: non avevamo niente, nemmeno gli amplificatori. Quei pochi soldi che guadagnavamo servivano per pagarci l’albergo, anche se sempre più spesso dormivamo nel furgoncino e litigavamo per pochi centimetri di spazio… All’epoca non avevamo un batterista fisso: c’era un vero e proprio andirivieni sino a che, a un certo punto, Paul ha deciso che la batteria l’avrebbe suonata lui. Non era affatto male. Molto male erano invece le condizioni in cui continuavamo ad esibirci. Il fondo lo abbiamo toccato in Upper Parliament Street dove c’era un tizio, che avevamo ribattezzato Lord Woodbine, che gestiva un locale di strip tease. Era metà pomeriggio, nel club ci saranno stati quattro o cinque clienti, al massimo. Noi dovevamo fare da colonna sonora allo show di una spogliarellista: Paul alle percussioni, Stu al basso, io e John alle chitarre. La ragazza è venuta da noi e ci ha passato un foglio: avrebbe dovuto essere lo spartito della musica che avremmo dovuto suonare. “E questo che cavolo è?”, chiede John, “non si capisce niente”. Lei, allora, ci ha detto il titolo della canzone. Noi abbiamo annuito ma, non conoscendo quella che lei avrebbe voluto, abbiamo suonato un altro pezzo. Il peggio però è stato qualche sera dopo alla Grosvenor Ballroom di Wallasey: ci siamo trovati in mezzo a una rissa tra una gang locale e a un’altra che veniva da Seacombe. Un casino incredibile… io volevo assolutamente salvare il mio amplificatore cui tenevo moltissimo. “Stai fermo o ti ammazzo” mi ha intimato un tipo mentre in sala era scoppiato un putiferio. Quella volta ho davvero temuto per la mia vita».
I tempi duri sarebbero durati ancora un annetto; prima Amburgo, poi Tony Sheridan, quindi il Cavern Club a Liverpool, e infine l’incontro con Brian Epstein. E i Beatles diventano presto i Fab Four…
27/04/2010
