17/09/2025

52 storie discografiche di Guido Festinese

Un colpo solo e via…

 

Il fascino delle meteore. Un colpo solo e via, tra celebrità e oblio. Ne sanno qualcosa i telespettatori che alla fine degli anni ’90 seguivano Meteore – Alla ricerca delle stelle perdute, oppure Paolo Gresta che alle one shot bands dedicò un libro qualche anno fa. Ne sa qualcosa, e tanto, Guido Festinese: la prestigiosa firma del Manifesto e del Giornale della Musica dedica a 52 casi esemplari di LP isolati il suo nuovo libro One Single Shot – 52 storie discografiche di successi irripetibili, fresca uscita EDT. Ne parliamo con l’autore genovese.

 

Successi irripetibili, caro Guido, ma soprattutto non ripetuti, quelli che hai raccontato. Una cinquantina di storie che ci fanno capire, ancora una volta, che all’ombra delle grandi hit, delle poderose pianificazioni discografiche e delle strategie di marketing per costruire il consenso, ci sono state anche piccole vicende che vale la pena narrare. D’altronde, da analista della contemporaneità musicale quale sei, è quanto fai ancora oggi, ogni sabato su Alias ad esempio… Ma i casi che hai selezionato riguardano il nostro passato. Quale criterio hai adottato per selezionare i 52 LP?

In primis ho evitato il pop nel senso più deteriore del termine, come si diceva parecchi anni fa: la popular music più commerciale (ma forse meglio sarebbe dire < più commerciabile >) non mi interessa granché, a meno che non si ponga in relazione dialettica con qualche altra musica, quale che sia. Allora succedono cose interessanti. Sono cresciuto musicalmente in un ambito culturale e sociale in cui si ascoltava quello che oggi si definisce “classic rock” (ambito assai vasto che spazia dalla psichedelia al prog al jazz rock, all’avant rock e oltre), jazz, note classiche, antiche, avanguardie europee, folk revival e folk originario. Mi viene naturale pescare qui e là, perché è quello che faccio anche con i miei ascolti quotidiani, da mezzo secolo.

 

Mi ha colpito l’abbondanza di album degli anni ’70. Come mai in quel decennio abbiamo avuto il maggior numero di one shot?

Perché gli anni ‘70, spesso sbrigativamente e scorrettamente etichettati come “anni di piombo” io li vedo invece, per dirla con Erri De Luca, come “anni di rame”, di superconduzione di idee. Dunque tanta gente si metteva in gioco, c’era un “noi” più forte del nostro contemporaneo ipertrofico e fragile “io”, in moltissimi suonavano qualcosa (quorum ego) e tanti inevitabilmente “restavano fuori dal gioco” del mercato, per dirla con un antico Bennato.

 

È stato un decennio largo (in realtà per me l’ambito cronologico è più o meno 1965-1979) in cui non c’era più la semplice – necessaria –baldoria rock ‘n’roll, certa – altrettanto necessaria – ingenuità degli anni ‘60, e tutto maturava e prendeva direzioni forti e spesso “inaudite”.

Impossibile che tutti avessero “successo”. Tieni anche conto che i Settanta sono il trionfo del formato a 33 giri: inventato nel ‘48, nei Cinquanta e Sessanta è perlopiù, in certa popular music, mera raccolta di successi, non progetto specifico. Almeno fino a, diciamo, Sgt. Pepper. Nei Settanta spesso sono concept album anche quando non rivendicano di esserlo (!).

 

Torniamo indietro agli anni ’50 di Melba Liston e Tony Fruscella, tanto per citare due tuoi protagonisti. Entrambi nell’alveo jazz, entrambi strumentisti a fiato, entrambi dimenticati. Curioso, visto che il decennio in questione fu ricchissimo di dischi jazz…

Premesso che parecchi autori “One Shot” sono rimasti fuori per ragioni tecniche di foliazione, per non infliggere allo sfortunato lettore un tomo da mille pagine, è vero quanto dici. Percentualmente ci sono molti meno dischi One Single Shot. Forse perché certe figure trainanti e dalle estetiche rivoluzionarie messesi in luce tra i Cinquanta e i Sessanta (Miles, Mingus, Ornette, Rollins, Roach, Sun Ra, Coltrane, e via citando) “assorbivano” fior di musicisti che non avevano affatto ambizioni solistiche.

 

Mi piace leggere il tuo lavoro come un grande mosaico nel quale tra incastri e intrecci emerge una dark side della discografia internazionale. Così appaiono album di culto ma seminali, mi viene in mente ad es. Touch della band guidata da Don Gallucci. Influenti su tanto progressive che verrà. Eppure qui c’è un gancio agli anni ’50 e alle stupid songs…

Credo che perché si delinei una tendenza estetica “forte” generale ci sia bisogno di molto lavoro di dissodamento del terreno musicale da parte di miriadi di apporti.  Che spesso è quanto hanno fatto musicisti e band “one shot”, ma anche figure in genere della “seconda linea”, semi anonime, quella che appare poi oscurata dai grandi nomi. Keith Emerson non sarebbe diventato tale se non avesse fatto tesoro degli insegnamenti e degli esempi di almeno un paio di altri grandi specialisti di tasti che non hanno avuto una briciola della sua (legittima) notorietà.

 

Sul punto delle “stupid songs” c’è da dire che se certa popular music non avesse avuto da subito la capacità prensile che ha dimostrato di scavarsi comodi rifugi nelle nostre orecchie (a volte nostro malgrado!), non sarebbe esistita proprio, e il mondo sarebbe stato diverso.

Però è andata così, almeno a partire dai compositori per Broadway agli inizi del secolo scorso. Che hanno scoperto e valorizzato l’impagabile efficacia delle progressioni armoniche semplici (a volte con qualche sostituzione raffinata) e la micidiale efficacia propulsiva degli ostinati ritmici ripetuti (e questa è pura Africa diventata Afroamerica). Questo ci spiega perché se suoni velocizzato, indurito e su strumenti elettrici il riff swing di Fascinating Rhythm di Gershwin ottieni Burn dei Deep Purple. E perché Louie Louie ci si conficca nella zucca al primo ascolto. Come ha ben dimostrato Frank Zappa.

 

Persimfans, Donatella Bardi, Spirale, Elektriktus e molti altri. L’Italia è ben rappresentata: puro patriottismo o il nostro Paese è davvero una succulenta materia di studio?

Il patriottismo è una categoria culturale valida per me solo se riguarda il mondo intero, o forse la Via Lattea nel complesso. Non mi sembra un gran valore di per sé essere nato in un Paese piuttosto che in un altro, più che altro è stato un tiro di dadi del destino, e chi ha orecchie intenda.

Quindi: il nostro Paese è davvero una succulenta materia di studio, per una miriade di motivi che occuperebbero tutta l’intervista. Rovesciando l’assunto di Metternich, l’Italia è stata ed è una miriade di espressioni geografiche che incorporano una miriade di espressioni culturali, spesso intrecciate tra loro, spesso comunicanti, spesso capaci di generare nuove sintesi.

 

Il libro attraversa i generi, dal raffinato prog-rock dei Sandrose ai Rialzu con la loro devozione ai Magma, dalle divagazioni rock-jazz-funk degli Yellow Sharks alle note per ‘wonderful people’ di Bill Quick. C’è qualche ambiente musicale che più di altri è ricco di one shot e perché?

Sicuramente l’ambito oggi conosciuto come “progressive rock” (definizione nata ex post) e quello del songwriting. Il primo perché costituzionalmente aperto all’innovazione, alla sperimentazione, anche al rischio. Rischio ad esempio di finire come One Shot, come poi è successo. Il songwriting perché tutto il crinale dello “scrivere canzoni altre” rispetto alle melensaggini o agli standard di Broadway, dalla metà degli anni Sessanta, in origine sulle ali del folk revival, poi del folk revival che ha incontrato nuove istanze libertarie ed espressive, ha fatto prendere in mano strumenti, carta e penna a miriadi di persone. Quindi, di conseguenza, a miriadi di casi di One Single Shot.

 

Alcuni nomi sono noti, penso a Bruce Palmer, altri invece come Oliver hanno avuto una buona riscoperta grazie alle ristampe indipendenti e al tam tam social. Quanto sono importanti certe iniziative “dal basso” per rispolverare tesori dimenticati?

Moltissimo, e non lo dico perché ne ho fatto un libro, uno dei mille possibili in tema. La totale orizzontalità del sapere sincronico di Internet (tutto e subito, tutto equivale a tutto: cioè il nulla dell’information overload) ci ha fatto dimenticare il taglio diacronico, il prima e il dopo delle conoscenze che è l’esatto contrario di un dito che “scrolla” su una tastiera o su uno schermo per qualche secondo.

Il mondo autoproliferante della musica immagazzinata su Internet è come un ipertrofico labirinto del Minotauro corredato da milioni di presunti fili di Arianna per trovare l’uscita. Che potrebbe anche non esserci. Come potrebbero essere inefficaci le mappe veloci del filo srotolato. Si elidono a vicenda, c’è sempre bisogno di guide. Competenti e oneste. Che abbiano speso tempo e voglia per comunicare qualcosa che può diventare piacere condiviso. In palio, come dici te, ci sono tesori culturali. Ma se non hai qualche bravo cacciatore di tesori, cosa te ne fai di milioni di brani a veleggiare nell’etere?

 

Immagino che questi 52 siano solo i primi di un vaso di Pandora appena aperto. Stai lavorando a un secondo volume?

Avrei materiale per farne altri due. Procedo con grande circospezione, perché so che le case editrici non vedono di buon occhio i secondi capitoli. O, per dirla con un gergo che conosci bene anche te, “il difficile secondo disco”.  Faccende di marketing. Nel frattempo sto lavorando ad altro, sul fronte dei libri veri, non virtuali.  Un libro non meno particolare.

guido festinese - one single shot

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!