28/01/2014

Addio a Pete Seeger

Dai nostri archivi, un’intervista del 2007 alla leggenda del folk americano
La vita è buffa. Ho 88 anni, ho sempre cantato canzoni di protesta, lottato contro il potere che mi attaccava continuamente. Ho marciato per la pace con Martin Luther King difendendo i diritti dei bianchi e dei neri diseredati. Ho fatto il ribelle e ora chissa perché mi cercano dappertutto. Stanno persino girando un film su di me che s’intitola The Power Of Song”. Il potere della canzone, che altro titolo potrebbe avere una pellicola su Pete Seeger? Insieme con Woody Guthrie, è il padre della musica popolare americana, quello che ha fondato i Weavers, che ha cullato i sogni e le speranze di milioni di persone sulle note di We Shall Overcome e di mille altre ballate. È il maestro di Bob Dylan, Joan Baez e Bruce Springsteen, che ha riletto i suoi classici nel cd Seeger Sessions e nella relativa tournée. Il vecchio Seeger oggi risponde riproponendo la versione originale, per solo banjo e voce, dei brani interpretati da Springtseen nel cd Can’t Start A Fire Without A Spark: Seeger To Springsteen.
Una sfida, una risposta a Bruce?
Bruce è uno di noi, uno di quelli che dà potere alle canzoni. Un brano di Springsteen non è una semplice canzone, è un urlo di dolore, un racconto di strada o di vita. Lui torna al senso profondo della canzone, il cui compito è quello di far cantare la gente, far rivivere il senso della comunità. Bisogna sottolineare che Bruce, per carisma e per potenza evocativa, è uno dei pochi artisti che riesca a portare il nostro messaggio a milioni di persone. Il cd Seeger Sessions è stupendo, anche se spiritual come Mary Don’t You Weep perdono profondità eseguiti a ritmo country così veloce. Le sue sono versioni preziose, io ho portato la testimonianza delle versioni originali, spartane, veraci, toste, voce e chitarra o voce e banjo. Così il pubblico può confrontare presente e passato.
Quali sono le cover fatte da Springsteen che la convincono di più?
Sono tutte molto belle, sensuali, hanno uno spirito country, sanguigno, da vecchio West più che folk o popolare, ma sono di grande impatto: soprattutto la coralità di Old Dan Tucker o la fantasia di Erie Canal o John Henry.
Lei continua ad esibirsi senza tregua e a portare la tradizione nell’attualità e nel futuro. Ha nostalgia del passato?
Come si fa a non avere nostalgia della gioventù? Però, come dice il libro dell’Ecclesiaste, c’è un tempo per ogni cosa. La vita è cambiata in meglio per tutti, anche se non riusciamo a estirpare l’odio, la guerra, la violenza, l’avidità. La gente, i lavoratori stanno molto meglio di quando lottavamo in strada per i loro diritti, ma non dobbiamo smettere di combattere per quelli che ancora oggi muoiono di fame, sete e soprusi. Senza tecnologia il mondo non va avanti, è sacrosanto, ma non bisogna dimenticare le belle tradizioni. Un tempo si socializzava, il canto aveva una funzione. Si cantava nei bar scolandosi qualche birra, si cantava lavorando, si cantavano le ninnananne, si cantava in difesa dei diritti o del posto di lavoro. Ora siamo tutti nelle mani della tv che rimbecillisce e appiattisce tutto con i suoi programmi inutili. Cento anni fa, quando uscì il primo grammofono, un musicista e bandleader illuminato come John Philip Sousa scrisse il libro What Will Happen To The American Voice e non aveva tutti i torti. Con l’industria musicale è nato di tutto. Anche se è stata molto utile anche a noi. I dischi folk hanno venduto milioni di copie. Anch’io con i Weavers sono arrivato in vetta alle classifiche, ma l’importante era far circolare e preservare il messaggio del movimento pacifista.
Le sue ballate vivono perché le ha sempre eseguite in mezzo alla gente.
La mia indole mi ha sempre portato a lottare per una società migliore. Ho cercato di portare la mia voce, ho suonato per i minatori in sciopero, ovunque ci fossero tumulti, ho preso i treni merci al volo con Woody Guthrie. Non mi considero un eroe, anzi, un poveraccio in mezzo a tanti poveracci in lotta per la sopravvivenza.
Lei ha fatto conoscere molte ballate popolari, ma il suo inno è We Shall Overcome.
C’è molta confusione attorno ai termini popolare e folk. Per me la vera musica folk è quella che si tramanda oralmente di generazione in generazione, ovunque sia nata. Deve passare del tempo perché un brano diventi folk, perché lo cantino e lo riconoscono tutti. Così accade a Mack The Knife come a Oh Susanna, a Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival come a Crossroad Blues di Robert Johnson. We Shall Overcome l’ho creata in vero stile folk, unendo parti di un gospel e di uno spiritual con le mie parole. È un brano dal testo suggestivo e dalla bella melodia che ha viaggiato per il mondo oltre ogni mia aspettativa. Pensi che nel ‘94 andai in India, e in un paesino un tizio che non parlava neppure inglese mi riconobbe e chiamò la sua bambina per cantarmi We Shall Overcome in indù. Fu una delle grandi emozioni della mia vita, un sogno realizzato: una canzone che comunicava superando le barriere di razza e di lingua.
Come si diventa eroi della canzone popolare?
Credendoci. Io ho sempre cantato per la gente, non mi considero un professionista, ma un artista come i vecchi Uncle Dave Macon, Fiddlin’ John Carson, o bluesmen come Blind Lemon Jefferson, gente che sposava vita e arte. Tutto è cominciato con Alan Lomax che cominciò a raccogliere la musica delle origini: dal blues agli hollers ai canti di lavoro alle murder ballads. Un momento fondamentale fu la pubblicazione, da parte di Lomax, del libro sugli antichi canti dei cowboy, da cui siamo stati tutti influenzati. Poi c’è stato il primo folk revival, negli anni 30, strettamente legato ai problemi politici e sociali di quegli anni. A quello poi si è agganciato il movimento degli anni 50 e 60. Abbiamo marciato accanto a Martin Luther King, l’unico uomo che abbia unito tanta gente di diversa razza, ceto e idee sotto la bandiera della nonviolenza. Nella famosa marcia su Montgomery eravamo un esercito pacifico, e abbiamo cantato tutti per ore, non solo brani famosi, ma anche slogan inventati sul momento che diventavano blues o ballate che poi fornivano spunto per altre canzoni. Partivamo con una frase tipo “Segregation is bound to die” e andavamo avanti per ore. Questo è vero spirito folk.
Com’era il mitico Woody Guthrie?
Un vulcano. Nessuno avrebbe mai pensato che dentro quel fisico smilzo ci fosse tanta forza. Ha sempre lottato per i deboli; ciò che ha scritto nelle sue ballate e nel libro Questa terra è la mia terra è la dannata verità. Un mondo incredibile, fatto di diseredati, bari, ladri, gente di grande umanità e gente cattiva, gente indurita dalle prevaricazioni, dalle privazioni e dal dolore. Gente che sopravvive. Mi ha insegnato una cosa fondamentale: a unire nelle canzoni dramma e humour. Ha cantato la povertà, i momenti terribili in cui le tempeste di polvere hanno mandato in malora la nostra agricoltura, e l’ha fatto con profondità ma con ironia acuminata, quasi sfidando la disgrazia e la morte.
Ci furono momenti in cui Woody non aveva neppure da mangiare, ma non smise mai di battersi per gli altri. Nel 1940 scrisse This Land Is Your Land che nessuno volle trasmettere, né alla radio né altrove; il disco vendette un migliaio di copie e venne considerato sovversivo, quando in realtà era una ballata patriottica, un inno d’amore all’America, e infatti oggi è una specie di inno nazionale. Woody era una roccia, solo una malattia come il morbo di Huntington è riuscita a piegarlo, ma non il suo messaggio e il suo spirito che sono sempre al nostro fianco.
E di Dylan cosa pensa?
La profondità di ciò che dice è indiscutibile, forse troppo. È un poeta e un intellettuale, ma non lo definirei un folksinger, almeno non più. È un grande esponente della musica d’autore americana, forse il più grande, ma non si possono dimenticare nomi come Ramblin’ Jack Elliott, Tom Paxton, Richard e Mimi Fariña.
E Joan Baez?
È lei che ha reso consapevole Dylan di essere un grande autore. Lei è un’icona che sa farti rivivere la musica folk senza sembrare un clone. Una voce e un’atmosfera da brivido.
Cosa successe davvero a quel mitico Newport Folk Festival in cui Dylan salì sul palco con un gruppo elettrico?
Fu una provocazione di Bob, lui stava seguendo la sua strada, che al momento fu scioccante, ma poi si rivelò lungimirante. Infatti poi un certo folk si sposò al rock elettrico. Però il Newport Folk Festival era un santuario della musica acustica; fu un po’ sconcertante, in molti ci arrabbiammo, ma solo perché siamo dei veri puristi.
Ovvero?
La musica americana è un mélange di culture; gli schiavi dall’Africa hanno portato il ritmo, poi trasformato in America nei blues di Leadbelly, Charley Patton, eccetera. Le melodie arrivano da tutta l’Europa, le chitarre sono arrivate nel Sud dopo il 1844 quando gli Stati Uniti hanno combattuto contro il Messico e conquistato la California. Insomma, il suono americano è tutto questo, almeno le sue radici; il resto viene dopo.
Lei stesso ha detto che la vita è cambiata, i lavoratori stanno meglio. Quali sono i grandi nemici del futuro?
Sempre i potenti e il potere. Bisognerebbe lasciar fare alla natura. L’uomo rovina tutto ciò che c’è di bello e di sano con l’inquinamento, il nucleare, il denaro che compra tutto e stravolge le regole naturali.
Ma oggi lei è ancora comunista?
Vorrei un mondo senza miliardari ma non tornerei mai nel partito comunista, non è roba per me. Ho capito tardi che partivano da presupposti troppo lontani dalla mia visione etica della vita. Lenin disse: “Abbiamo perso la rivoluzione del 1905 perché non siamo stati abbastanza feroci”, così è iniziata la violenza e Stalin ha cambiato decisamente metodi. Mi scuso per averli seguiti perché la violenza non va bene in nessun caso. Anch’io però in America sono stato perseguitato per le mie idee.
Lei ha scritto Big Joe Blues contro Stalin, che dice: “Poteva far ripartire la razza umana invece l’ha portata indietro nello stesso orrendo posto”.
È la verità. L’ho scritta come l’avrebbe scritta Woody sull’aria della sua Yodeling Blues. Ma il brano cui tengo di più adesso è quello che ho scritto dopo l’11 settembre che dice: “La guerra è appena incominciata ma impara dal Dr. King a lasciar cadere il fucile”.
Ha nuovi progetti per il futuro?
La mia voce è ancora abbastanza forte (canta sull’aria di un blues, nda) e ho abbastanza forza per strimpellare banjo, chitarra e ukulele. Non mi allontano molto dalla mia casa nella Hudson Valley. Suono spesso a New York, che si trova a 60 miglia. Ora ho formato un gruppo per cantare in strada come ai vecchi tempi. Siamo partiti a Natale con brani natalizi ma continueremo con programmi a tema. In primavera uscirà la nuova edizione del libro Where Have All The Flowers Gone personalmente curata da me. Nella prima edizione ho trovato parecchi errori e ora ho pensato io a correggerli. Ci saranno le partiture di molti classici folk e un mio cd.

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