28/11/2008

ADDIO MAMA AFRICA

Quando la mattina dello scorso lunedì 10 novembre ho saputo della morte di Miriam Makeba, mi sono commosso. La prima cosa che mi è venuta in mente è stato il suo sorriso. Un sorriso dolce, rassicurante che poteva avere solo chi, della vita, aveva conosciuto tutto: i drammi più disperati e le gioie più grandi, le delusioni più cocenti e le soddisfazioni più gratificanti. Un sorriso, quello di Miriam, in grado di mettere a proprio agio l’interlocutore più timido e spaurito ma anche di disarmare quello più esigente e aggressivo. Persino, di tranquillizzare il soggetto più agitato e nervoso. Perché trovarsi al suo cospetto era cosa che non poteva lasciare indifferenti. Non a caso la chiamavano Mama Africa: impagabile ambasciatrice socio-culturale del suo popolo; inimitabile rappresentante artistica delle tradizioni musicali della sua terra; unica, inconfondibile voce del Continente Nero.

Quella voce e quel sorriso, io li ho sentiti e li ho visti da vicino. La prima volta è stato nell’aprile del 1990, nel foyer del Teatro Lirico di Milano. Miriam stava promuovendo Welela, album bellissimo che, sulla scia del successo di Graceland, segnava il ritorno alle radici sudafricane. Ricordo il suo ingresso in quella sala come fosse ora: abito di scena coloratissimo, turbante etnico, trucco perfetto che esaltava una pelle lucente, Miriam Makeba era semplicemente splendida. Allora (aveva 58 anni) la sua scintillante bellezza non mostrava cedimenti e, unita a un innato, formidabile carisma, produceva quel mix letale che aveva stregato gli uomini più ambiti del mondo: dal leggendario Harry Belafonte al capo delle Black Panthers Stokeley Carmichael, dal geniale trombettista Hugh Masekela (suo secondo marito) al presidente della Guinea, Seqou Touré. Tre anni prima si era unita a Paul Simon per il tour di Graceland che aveva fatto conoscere al mondo il fascino della musica sudafricana, la magia di suoni e ritmi prodigiosi. Il paese, in quei giorni, era vittima del regime razzista dell’apartheid che aveva costretto tanti artisti (Makeba in primis) a espatriare. «Paul Simon è stato eccezionale», mi aveva detto senza esitazioni, fregandosene delle polemiche che quell’operazione aveva prodotto (il Sud Africa, allora, era vittima delle sanzioni da parte dell’Onu e non era permesso alcun tipo di collaborazione). «Simon ha lasciato a tutti noi, artisti sudafricani, la massima libertà. Tanto che sia io che Ladysmith Black Mambazo o Hugh Masekela abbiamo dato vita a set molto politicizzati. Graceland è servito a promuovere la musica e la cultura sudafricana ma anche a ricordare al mondo la situazione del nostro paese». Nello stesso periodo, Nelson Mandela viene scarcerato. «Mi ha chiamato una settimana fa», ricordo che mi confessò, quasi commossa, «e mi ha detto: Miriam, il giorno in cui sarà possibile sedersi per negoziare con il governo dovremo essere pronti al perdono non dimenticando il male che ci è stato fatto ma consapevoli di dover mettere una pietra sopra i terribili errori commessi».

Sei anni dopo quel nostro primo incontro ho un’altra lunga, piacevolissima conversazione con Miriam. Ci troviamo entrambi seduti di fronte a una telecamera, nel magnifico salone al primo piano di Villa Arconati, a Castellazzo di Bollate (periferia di Milano), sede di uno dei festival più qualificati d’Italia. Seppur un po’ appesantita, Miriam quel giorno è di buon umore. Sopporta anche i pasticci del mio operatore tv che, maldestramente, le fa cadere il microfono a collarino nel décolleté e, ancor più goffamente, le infila le mani dentro nel disperato tentativo di recuperare l’oggettino… «Allora è vero» commenta divertita, togliendo tutti dall’imbarazzo «voi italiani sapete come trattare le donne».
Proprio in un festival dedicato alle donne, quel Just Like A Woman di cui curo la direzione artistica, incontro Miriam Makeba per l’ultima volta. È il 28 luglio del 2001 e Miriam chiude la prima edizione con uno spettacolare concerto in Piazza Bovani a Varazze. Prima di salire sul palco, facciamo una lunga chiacchierata per le telecamere di RaiSat. Parliamo di donne, di Africa, di musica, di politica. Miriam si commuove ricordando la figlia Bongi (avuta dal suo primo matrimonio e morta di parto nel 1985 a 35 anni), si arrabbia pensando alla miopia degli occidentali verso il continente nero, si entusiasma quando mi racconta della sua associazione che aiuta le donne africane. È un fiume in piena, una cascata di emozioni. «Il mio cuore soffre pensando a quanto, ancora oggi, le donne nel mondo vivano in condizioni spesso miserabili», mi dice. Il suo sorriso si è fatto triste, ma la dolcezza non è svanita. Ci abbracciamo e ci salutiamo. La vedo arrancare a fatica. Eppure, appena sale sul palco, si trasforma. Di colpo sembra aver ritrovato energia, vitalità, forza. Canta in modo fantastico, balla e seduce il pubblico. Trova il tempo di ringraziarci per l’invito. «È un onore essere chiamata a chiudere la prima edizione di un festival dedicato alle donne», dice prima di cantare la sua leggendaria Pata Pata.

La scorsa estate avevo insistito per riportarla in Liguria, per l’edizione 2008 di Just Like A Woman. Un mese prima le sue precarie condizioni di salute hanno però costretto i suoi promoter italiani a cancellarle qualsiasi impegno. Ma all’evento di Castel Volturno, contro la camorra, non aveva voluto mancare. Il suo cuore, grande e coraggioso, prima di smettere di battere le ha concesso l’ultima, trionfale uscita di scena.
Addio, Mama Africa…

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!