20/03/2007

Addio, Syd

La scomparsa di una leggenda del rock

Se è vero come si usa dire che solo i migliori muoiono giovani, allora anche Syd Barrett appartiene di diritto alla categoria. Perché il primo leader dei Pink Floyd è sì scomparso all’inizio di luglio a 60 anni d’età, ma se n’era andato a tutti gli effetti nemmeno trentenne nei primi anni 70. Salutò in fretta i fan lasciando dietro di sé composizioni straordinarie: il primo album dei “suoi” Pink Floyd The Piper At The Gates Of Dawn; una premonitrice Jugband Blues dal successivo A Saucerful Of Secrets, il cui testo sembra svelare future intenzioni (“È terribilmente cortese da parte vostra considerarmi qui / E vi sono molto obbligato per avere chiarito che io non sono qui”); due dischi da solista, Barrett e The Madcap Laughs; una manciata di folli sedute radiofoniche per la BBC e una di inediti che fanno ancora parlare, come il pluricommentato Vegetable Man, l’uomo vegetale (“Ho cercato dappertutto un posto per me / Ma non esiste, non esiste proprio”).

Quando Roger “Syd” Barrett abbandona ufficialmente i Pink Floyd la sua figura è già leggendaria e ha velocemente superato i confini della vitale ed effervescente scena underground londinese. Eppure è solo il 9 aprile 1968. Conoscendo la sua arte e commentandola con il senno di poi, ciò che ci ha lasciato in quel breve periodo può essere considerato moltissimo. Altri artisti nello stesso lasso di tempo non hanno saputo fare altrettanto bene e si sono comunque conquistati un posto al sole per decenni a venire. Dopo la separazione dai Pink Floyd qualche ritrovamento fortuito ha reso felice il fan e il cultore del mito di Barrett, come il filmato del 1965 del suo primo trip in acido o il ben più interessante segmento da Tomorrow’s World della BBC del gennaio 1968 (di cui si erano perse le tracce), in cui la band improvvisa follemente mentre Mike Leonard, insegnante d’arte dei quattro ragazzi, dimostra la sua “macchina della luce” (reperibile oggi nell’edizione su due dvd di The Pink Floyd & Syd Barrett Story).

Sono però gli avvenimenti successivi all’allontanamento dal gruppo ad alimentare la sua figura e lo status leggendario. Nel novembre 1970, con la pubblicazione del suo secondo album, Syd tentò di salutare definitivamente i fan per tornare a essere se stesso ma in modo diverso, come lo può essere chi si è rimpinzato di acido per tre, quattro anni senza soluzione di continuità. In un’intervista con il fotografo Mick Rock per la rivista Rolling Stone afferma: “Passo il mio tempo senza far molto. La mia chitarra è diventata arrugginita. Scusa, non riesco a parlare molto coerentemente”. Il suo straordinario talento non lo abbandonò così velocemente. Anche nelle session per la BBC del 16 febbraio 1971, estorte quasi con la forza dal produttore John Muir per il programma condotto da Bob Harris, Barrett appare lucido e lo stile vocale è ben definito (sono sopravvissute solo Baby Lemonade, Dominoes e Love Song). Nel 1972 il tentativo di mettere in piedi una nuova band, gli Stars con l’ex Pink Fairies John Charles “Twink” Alder, fallisce miseramente in un sottoscala di Portobello Road. C’è chi però, pur indirettamente, tiene il suo nome ben saldo nella mente degli appassionati di musica. David Bowie lo celebra, primo di una lunga serie, riproponendo See Emily Play nel suo album di cover Pin Ups dell’ottobre 1973 e afferma in un’intervista che “Syd Barrett è stato il primo cantante del nostro Paese a interpretare il pop e il rock con un accento britannico. Tutti noi gli dobbiamo qualcosa”. L’adorazione del Duca Bianco resterà inalterata fino alla fine come dimostra una straordinaria versione di Arnold Layne il 29 maggio 2006 durante lo show di David Gilmour alla Royal Albert Hall di Londra.

Un suo stringato ma intenso comunicato a seguito della scomparsa finisce con la frase “A diamond, indeed”.

 

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Quando David Bowie canta See Emily Play, il ritiro dalle scene di Syd Barrett è già iniziato, e non sapremo mai se sia stato premeditato. Si rintana prima a Cambridge, poi a partire dal 1973 di nuovo a Londra, in un appartamento a Chelsea Cloister dove – si dice – abbia passato il tempo mangiando e guardando la televisione. Nel novembre del 1973 e nei primi mesi del 1974 tiene alcune session favoleggiate e abortite ad Abbey Road, ma chi ne sa qualcosa non si è mai espresso con chiarezza, come se si volesse continuare ad alimentare un mistero che a questo punto giova solo a pochi. “Un caos totale” mi confessò nel 2003 il primo manager dei Pink Floyd Peter Jenner, nel suo ufficio di Kensington fra mille oggetti che ricordavano Syd e il gruppo. “Grappoli di note senza senso si alternavano ad accenni di melodie e liriche. Provammo anche ad isolare le cose migliori, quelle che avevano un senso, ma era troppo poco per aver qualcosa da fare ascoltare”.

Il 5 giugno 1975 un Barrett completamente trasformato va a trovare i colleghi Pink Floyd in studio durante le registrazioni di Wish You Were Here. L’episodio è celebre, ma nessuno si è mai preoccupato di spiegarci come uno sconosciuto potesse entrare in uno studio, luogo di per sé off limits ai curiosi, senza essersi fatto annunciare, per di più mentre all’interno si trova un gruppo tanto famoso e notoriamente recluso. Syd è grasso, ha i capelli cortissimi e le ciglia rasate. Se ne sta da una parte con uno spazzolino da denti in mano, nessuno lo riconosce. Poi si avvicina a Richard Wright e gli chiede: “Bene, in che segmento musicale devo registrare l’assolo di chitarra?”. Il silenzio scende in sala e la tensione va alle stelle. I quattro riconoscono Barrett. Stanno per registrare le voci di Shine On You Crazy Diamond. Waters senza farsi troppo intimorire va fino in fondo alla take e poi si rivolge a Syd: “Che ne pensi?” gli chiede diretto. “Mi pare un pezzo già vecchio sul nascere” risponde. E scompare.

 

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Syd torna così, più o meno premeditatamente, a essere Roger. Nel 1978 si presenta alla porta della villetta della sorella Rosemary, a Cambridge, e chiede definitivamente asilo. Va a vivere con la madre, Winfred, ma non è il recluso che tutti vogliono descrivere. È un uomo silenzioso che gira in bicicletta, che si reca a comprare le sigarette, il giornale, il latte, che cura con grande amore il giardino (operazione questa molto pinkfloydiana, secondo chi scrive), mentre curiosi, ossessivi, maniaci e/o reporter continuano ad appostarsi intorno alla sua casa per strappargli qualcosa. Ogni suo gesto è monitorato, ogni passo osservato. Il mito avanza.

Negli anni 80 Barrett passa per sua volontà un breve periodo in un istituto mentale. Nel 1987 un reporter di News From The World bussa alla sua porta di casa e realizza un servizio di due pagine in cui illustra gli effetti dell’LSD su Barrett, avendolo reso – così si espresse – “inabile a coordinare una sola frase”. Al cronista non passò neanche lontanamente per la testa che Roger non avesse nessuna intenzione di parlargli. La famiglia fece causa alla testata. L’anno successivo Wright osservò: “Se non avesse avuto un totale collasso nervoso, oggi sarebbe uno dei più grandi autori di canzoni in vita”. Commenti del genere esasperano la leggenda.

Nel 1988 venne pubblicato materiale inedito in un album intitolato Opel, cinque anni dopo una collezione di suoi lavori venne riunita in un box di 3 cd. La biografia Crazy Diamond, scritta da Mike Watkinson e Pete Anderson, appare nelle librerie nel 1991 in concomitanza alla raccolta Wouldn’t You Miss Me: The Best Of Syd Barrett. Nella metà degli anni 90 la Atlantic si fece avanti con una offerta di 200mila dollari per “tre o quattro canzoni da registrarsi ovunque, a sua convenienza, anche in cucina”.

L’offerta fu puntualmente rifiutata.

 

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A fare i conti con le miriadi di piccoli avvenimenti, appostamenti, leggende metropolitane, false testimonianze, balle spaziali che girano, verrebbe da pensare che Barrett fosse un uomo che in fin dei conti cercava solo un po’ di peace of mind, mentre il mondo era fuori dalla porta a tormentarlo ventiquattro ore al giorno.

Negli ultimi anni di vita apparve più frequentemente in giro per Cambridge. Aveva continuato a vivere nella villetta di proprietà della madre, dopo la sua scomparsa nel 1991 (sette anni dopo gli fu diagnosticato il diabete, ndr). Lo si poteva incontrare la mattina presto, in pantaloni corti. Un paio di anni fa, nonostante il tentativo della sorella di nascondergli la realtà, rimase davanti alla televisione fino a tardi per la visione di un documentario a lui dedicato, ma si alzò prima della fine dello stesso commentando lo spettacolo come “troppo rumoroso”. Pare che, ultimamente, avesse ricominciato a dipingere, sua vecchia passione, tenendo solo i quadri che più gli piacevano e distruggendo gli altri, senza mai essere intenzionato a mostrarne nessuno in pubblico.

I membri dei Pink Floyd – David Gilmour, Nick Mason, Roger Waters e Richard Wright – hanno diffuso un comunicato stampa congiunto dopo la notizia della morte data dal Guardian Unlimited alle 13 e 15 di martedì 11 luglio 2006 e subito ribattuta dalla BBC: “Il gruppo è triste per la notizia della scomparsa di Syd che è stata la luce guida della prima formazione. Egli lascia una eredità che continuerà a ispirare”.

La sua scomparsa mette la parola fine a una delle storie più tristi ed enigmatiche del rock.

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