20/03/2007

Ai confini della realtà

I Muse raccontano il nuovo album Black Holes & Revelations

Dopo l’absolution non possono esserci altro che black holes and revelations, buchi neri e rivelazioni, nientemeno, tra fantascienza e aneliti pseudoteologici. Capitan Harlock Matthew Bellamy non ha affatto perso la voglia di girovagare per lo spazio in cerca di nuovi territori da esplorare con la sua navicella Muse. Fortunatamente l’ambizione è intatta, l’orizzonte ampio, i sostenitori in trepida attesa e istantaneo deliquio, e le schiere di detrattori a ranghi serrati, pronti a bersagliare la nave (ma questo ormai è solo affar loro). Niente paura, perché anche questa volta i Muse salveranno la ghirba, dopo aver dato in pasto l’ultima avventura, quel Black Holes & Revelations (vedi anche pagina 55) che, come al solito, rinsalderà ancor più le fila degli opposti schieramenti: amici e nemici.

Eppure i Nostri nulla hanno di belligerante e tanto meno provocatorio: anzi Dominic Howard è così minuto, inguainato nella sua aderente camicia nera; Matthew Bellamy un vero gentleman nel suo completo scuro da manager della City; Chris Wolstenholme l’unico che ostenta un fisico massiccio, dietro l’apparenza di un rugbista in libera uscita, ma buono come il pane. Come cornice gli sfarzosi interni di uno dei più prestigiosi hotel milanesi, sede deputata alla presentazione del nuovo lavoro della band. Un esauriente tête à tête con ogni singolo componente è la formula scelta dal gruppo per presentare il nuovo disco alla stampa e noi ci adeguiamo di buon grado. Tre lunghe chiacchierate con tre personalità differenti, amici che si conoscono da ragazzini e che insieme sono arrivati al grande successo, ma legati da un filo comune che si chiama Muse e che ancora una volta significa tanta passione, ricerca del limite, voglia di rischiare.

 

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Inevitabile partire dal fondo, una meta raggiunta stavolta con più fatica e tempo che in passato. “Non avevamo mai impiegato così tanto per realizzare un disco in precedenza” spiega Dominic. “Abbiamo avuto un tempo così esteso a disposizione proprio perché abbiamo fatto in modo di non avere restrizioni o dover adempiere a obblighi particolari, come partire in tournée. Non avendo pianificato il prossimo futuro eravamo liberi di trascorrere in teoria tutto il tempo che ci pareva in studio di registrazione”. Lo studio in questione è il Château Miraval, “un posto immerso nella tranquilla e pacifica campagna francese” racconta Chris “tra Marsiglia e Nizza, a un’ora di automobile dalla costa”. Proprio dove i Pink Floyd incisero parte di The Wall, anche se non sappiamo se Waters e soci in quell’occasione se la siano dovuta vedere con i pipistrelli, come invece è capitato ai Muse. “Quando ci siamo trasferiti a Château Miraval era estate e faceva molto caldo. La sera tenevamo aperte le finestre e verso le 23 ci ritrovavamo cinque pipistrelli che svolazzavano per la stanza. È bizzarro, eppure noi eravamo lì a provare i pezzi con i pipistrelli che ci volteggiavano intorno”. L’idea è quella di “trovare un posto per far nascere e sviluppare le canzoni, ma non necessariamente inciderle”.

Per la registrazione vera e propria i Muse si trasferiscono a New York, presso gli studi Avatar ed Electric Lady, in compagnia di Rich Costey, già producer di Absolution. Per Dominic la scelta di Costey è stata inevitabile: “Quando hai a che fare con una band composta da tre persone che si conoscono da così lungo tempo e che hanno tra loro un rapporto così saldo e profondo è difficile per chiunque intromettersi e far pesare la propria opinione. È arduo per noi considerare oggettivo e fidarci di un parere che proviene dall’esterno, ma con lui funziona ed è questa la chiave”.

 

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Lo spirito che anima Black Holes & Revelations affonda le sue radici in quello che la band considera da sempre il proprio modus operandi: la continua spinta verso il nuovo. “Certamente l’obiettivo primario era quello di registrare più materiale possibile” prosegue Dominic “in modo da svelare quanti più lati, nascosti o meno, dei Muse fossimo in grado di palesare ed esplorare nuove direzioni. Abbiamo cercato in tutti i modi di caratterizzare ogni singola canzone in modo tale che fossero non solo diverse l’una dall’altra, ma anche differenti da quelle contenute nei nostri precedenti album”. Matthew precisa il concetto: “Con questo disco è quasi come se ripartissimo da zero, sebbene ovviamente non sia proprio così, ma il progetto è stato quello di cercare di rimuovere tutte quelle che erano le solite influenze dei Muse. È simile al secondo album nel tentativo di proporre canzoni che individualmente svelino qualcosa di nuovo, ma differente sotto l’aspetto della naturalezza nello sviluppare questo tentativo, dal momento che stavolta non ci siamo sentiti in dovere di dimostrare nulla dal punto di vista tecnico. L’importante era dare vita a canzoni che suonassero in maniera inedita per noi”. Chris lo completa: “Volevamo davvero evitare di realizzare qualcosa che avevamo già fatto in passato, che poi in realtà è un approccio che secondo me abbiamo utilizzato per ogni nostro disco. Per noi, sia come band sia come persone, è sempre stato importante proporre ogni volta qualcosa di inedito, diverso. Forse questo aspetto si nota maggiormente in questo album che nei precedenti, dove ogni pezzo è molto diverso da quello che lo segue o precede. C’è sempre una sorpresa quando inizia o finisce un brano. Absolution, a livello musicale e lirico, era più omogeneo, sebbene non fosse necessariamente un concept album, ma aveva delle tematiche comuni che si dipanavano tra le tracce. Dal punto di vista lirico Absolution era un disco molto negativo e cupo e anche in Black Holes & Revelations ci sono canzoni negative, ma anche altre positive e le musiche edificanti non mancano”.

In concreto dove stanno le novità? In sintesi: un approccio ritmico più potente e compatto; un maggior uso di suoni elettronici; un’accentuata concisione nei pezzi (salvo gli ultimi tre); una minor tendenza a ricercare a tutti i costi la melodia enfatica, servendosi di una voce sempre tesa allo spasimo (Bellamy non ha più l’ansia di dimostrare quale formidabile cantante sia); utilizzo di nuove sonorità. I commenti dei tre non si fanno attendere e sono del resto esplicativi. Inizia Dominic: “Sicuramente c’è una maggiore percentuale di elettronica rispetto al passato. È dovuta anche al fatto che questa volta abbiamo appreso un sacco di cose riguardanti l’aspetto precipuamente tecnico e utilizzato una larga componente di strumentazione elettronica, soprattutto vecchi sintetizzatori analogici modulari, ma anche qualcuno digitale. Avere a che fare con tutti quei cavi, suoni e specifiche è una vera e propria scienza e questa volta mi ci sono immerso a fondo. La conseguenza si è avuta in prima battuta sul piano ritmico, perché utilizzare una simile strumentazione non può far altro che modificare il modo in cui normalmente suoni ed è da lì che è scaturito un approccio più dance. Per esempio Supermassive Black Hole è un pezzo chiaramente basato sul groove, lo scopo era quello di creare un beat R&B molto potente e pesante che fungesse da scheletro per tutto il pezzo. Abbiamo cercato di produrre un nuovo modo per suonare pesanti, che andasse oltre l’utilizzo di riff o beat massicci: il modello è stato quello dei Lightning Bolt e il loro modo di essere potenti e caotici allo stesso tempo. L’interplay tra me e Chris si è fatto più denso e stretto e nelle parti di batteria c’è un pizzico di inedita pazzia. Ma la maggiore potenza è controbilanciata da altre sezioni in cui predominano ritmi latini, oppure il piglio jazz estremamente spoglio e organico presente in un brano come Soldier’s Poem, uno dei miei pezzi preferiti, con una parte vocale formidabile, con armonizzazioni di derivazione barbershop. La dicotomia tra approccio spoglio e suono molto ricco è qualcosa che mi ha sconvolto. Per noi è una cosa nuova, che non avevamo mai provato prima. Anche la componente jazz è un lato inedito che abbiamo voluto esplorare, uno stile al quale non ci eravamo mai accostati e che ci ha ispirato parecchio, al punto che lo abbiamo provato anche per altri brani, così per gioco, e magari un giorno diventeremo una jazz band che suona nei club (ride, nda)”.

Matthew ci dà dentro: “Di sicuro in questo album non ho sentito il bisogno di dimostrare alcunché riguardo alla mia voce. Penso che sia il secondo disco quello con cui ho voluto maggiormente dimostrare qualcosa; il primo invece era soltanto una raccolta dei nostri pezzi migliori che avevamo composto fino a quel momento. Successivamente ci siamo pentiti di non aver mostrato fin da Showbiz che i Muse avevano altri interessi e potenzialità e con Origin Of Symmetry abbiamo cercato di colmare la lacuna, predisponendo brani col preciso scopo di dimostrare le altre cose che eravamo in grado di realizzare. Absolution è un mix tra i primi due: prende alcune idee del secondo disco e le sviluppa fino a farle divenire delle vere e proprie canzoni. Stavolta dal punto di vista vocale ho cercato la naturalezza: per esempio di solito usavamo molta compressione per la voce, in modo che risultasse diretta e distorta. In questo disco ho cambiato completamente il mio approccio alla registrazione della voce e ho seguito la via tradizionale: se canto con un volume più forte mi devo allontanare dal microfono, viceversa se la potenza è inferiore mi devo avvicinare. È un metodo molto più naturale di cantare, che ti permette di donare a ciò che canti lo stesso spirito privo di artifici”. E prosegue svelando dettagli vieppiù interessanti: “Sicuramente in Starlight, Supermassive Black Hole e Map Of The Problematique la sezione ritmica prende una direzione inedita per noi. In queste ultime due abbiamo introdotto per la prima volta in maniera evidente l’influenza a livello ritmico della musica elettronica. In Take A Bow invece l’elettronica è più a livello di sonorità. Penso anche che tu abbia ragione quando dici che questa volta le canzoni, eccetto le ultime tre, sono più compatte e concise che in passato, senza elementi aggiuntivi non necessari. Per esempio, Take A Bow sarebbe potuto diventare un brano progressive sperimentale della durata di 10 minuti, ma sono davvero contento che siamo stati in grado di maneggiarlo in modo tale da farlo diventare un episodio epico, seppur contenuto in pochi minuti. Nelle ultime due tracce abbiamo manifestato una forte influenza di musica europea, in particolare quella del sud, pensa al flamenco o al sound di Ennio Morricone. È stato naturale, anche perché parte delle registrazioni le abbiamo effettuate a Milano, negli studi di registrazione di Mauro Pagani. Lui mi ha introdotto a musiche che non avevo mai udito prima, tipo il folk napoletano e siciliano del XIX secolo, che è un campo davvero interessante, perché incorpora elementi mediorientali e nordafricani. Sono del parere che questo sia il nostro primo disco dove compaiono lievi tracce di world music. Inoltre Mauro Pagani compare in City Of Delusion, dove è l’artefice della parte orchestrale; tutte le parti di archi del disco sono state incise a Milano. Era nostra intenzione permeare City Of Delusion di un’atmosfera mediorientale, un’idea che ci è venuta mentre eravamo nel sud della Francia nello studio di registrazione dove sono iniziate le session: ci siamo imbattuti in una web radio che trasmetteva musica iraniana, indiana e di altri posti interessanti e questa influenza ci ha portati infine a collaborare con Mauro Pagani e lui ha una grossa competenza in materia. Io stavo cercando uno studio di registrazione a Milano e mi sono imbattuto nel suo (Officine Meccaniche, nda) ed è così che ci siamo conosciuti” (vedi anche box a pagina 52).

Chris personalizza il discorso: “Per i primi due album io e Dominic siamo stati influenzati da sezioni ritmiche prettamente rock o pop. Negli ultimi anni abbiamo cercato di incorporare elementi nuovi, tipo la musica latina, e tentare approcci differenti: ci siamo resi conto per esempio che una linea di basso che si snoda sopra un beat di batteria molto semplice è altrettanto potente, quando non lo è di più, di uno stile in cui basso e batteria sono fusi insieme. Pensa alla ritmica di Billie Jean di Michael Jackson: estremamente semplice, ma di una potenza impressionante. In Hysteria, presente in Absolution, abbiamo tentato qualcosa di simile: una pazza linea di basso supportata da un ritmo di batteria elementare”.

 

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Quando si parla dei e con i Muse ci sembra doveroso soffermarci un attimo su una questione spinosa che li riguarda: incoscienti e testardi non rinunciano a osare e talvolta a pasticciare, al punto da prestare il fianco a chi li accusa di “farla fuori dal vaso”, perseguendo una condotta di quando in quando ai limiti del kitsch. Per chi scrive è la loro massima forza e debolezza allo stesso tempo, ma lungi dallo sperare che cambino e in materia gli indizi sono confortanti. “Non abbiamo mai avuto paura di sperimentare nuove soluzioni” afferma Chris. “Quando si tocca questo argomento a me vengono sempre in mente i Queen e quanti rischi si prendevano con la loro musica. Mi sono sempre piaciuti per quel motivo, anche se la gente può valutare stupide o folli alcune loro trovate, ma nonostante questo non avevano paura di realizzare qualcosa di insolito e questo per me è il punto”.

“Il rischio, l’osare nella musica, è una delle ragioni basilari per ascoltarla” prosegue Matthew. “È difficile non sembrare esagerati dicendo una cosa del genere, ma credo che ciò stia alla base dell’evoluzione in genere: cercare di scoprire e raggiungere i propri limiti e rendersi conto quali funzionano e quali no, tentare di sapere se il modello in cui viviamo è quello corretto… e non lo è (ride, nda)”.

 

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E pensare che Matthew, un performer notevole e un musicista con molte frecce al suo arco, è un completo autodidatta (“Le uniche lezioni musicali che ho preso nella mia vita sono state quelle di chitarra flamenco, per circa sei mesi, quando avevo 16 anni”) e un cantante per caso: “Quando la band si è formata ufficialmente, avevamo circa 16/17 anni, la mia idea era quella di cercarci un cantante, perché io non avevo mai cantato e non sapevo che pesci pigliare. Alla fine il cantante adatto non l’abbiamo trovato e così mi sono dovuto adeguare per forza di cose. Non avevo mai cantato prima, né avevo mai fatto alcuna pratica o esercizio, insomma non ero proprio un cantante naturale. La band aveva una forte componente strumentale, con brani molto lunghi in cui la parte vocale era davvero minima. Credo sia per questa nostra particolare natura che fin dall’inizio siamo stati aperti e propensi a sperimentare nuove soluzioni strumentali. Dopo qualche tempo, verso i 18/19 anni, ho cominciato a sentirmi un po’ più a mio agio con la voce. Il comporre canzoni sapendo che le avrei dovute cantare mi ha aiutato ed è stato proprio in quel momento che ho cominciato a utilizzare la mia voce nella maniera adeguata. Nei primi tempi la mia voce, spesso su tonalità acute e in falsetto, era in costante contrasto col suono della band, che era molto pesante. La voce si è evoluta attraverso la musica: noi componiamo sempre prima la musica ed è solo tramite quella che la mia voce prende corpo. La musica deve suscitare in me una reazione, deve catturarmi e spararmi in un’altra dimensione: è solo allora che inizio a cantare, è quella la spinta necessaria perché io lo faccia. Questo processo ispira la band a creare musica che possa essere molto interessante anche in assenza del cantato”.

Ci piace chiudere con una delle dichiarazioni più sentite che ci ha fatto Matthew: “Attraverso la musica sento di potermi rapportare con la storia e con la vita in generale. So che certa gente potrebbe trovarlo strano, ma per me la musica ha davvero il potere di trasportarti al di fuori della realtà verso i limiti dell’immaginazione. Per me è un potere che possiede ogni forma d’arte, sia la pittura, il cinema o la scrittura. Attraverso le forme d’arte la gente esplora i limiti estremi dell’espressione e dell’immaginazione”.

Forse nella sua casa in affitto sul lago di Como, che condivide con la sua ragazza, Gaia Polloni (conosciuta a Londra per via degli studi universitari oltremanica di lei), discutono anche di questi argomenti. E così anche gli amanti di gossip sono accontentati.

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