Se si dovesse chiedere alla maggior parte delle persone di citare il titolo di un grande successo degli Alan Parsons Project molto probabilmente si verrebbe accolti con un’espressione vuota e silenziosa. Questo però non vuol dire che non abbiano mai ascoltato un brano della storica band, che nella sua carriera ha avuto otto singoli Top 40 e cinque album Top 20 solo negli Stati Uniti. Basta suonare brani come Damned If I Do, Eye In The Sky o Games People Play e vedere attraversare i volti degli ascoltatori più distratti da un’ondata di riconoscimento.
Cosa che Alan Parsons, nella sua carriera di musicista, cantante e tecnico del suono (inutile ricordare tutte le sue collaborazioni dai Beatles ai Pink Floyd), deve aver capito da tempo. Così nel Greatest Hits Tour 2013 dell’Alan Parsons Live Project (diramazione dal vivo della ormai disciolta band fondata con il compianto Eric Woolfson) si diverte a suonare tutte le canzoni che il pubblico desidera ascoltare. Dotato di una tecnica raffinata, Parsons si è costruito nel corso degli anni uno stile fatto di intermezzi sinfonici tra ritmiche ossessive, ma anche di un uso sapiente della tecnologia, una scelta attenta dei vocalist e una profonda cura dei testi. E il successo è assicurato. Come è accaduto l’altra sera a Roma al Centrale del Foro Italico, con la band che ha regalato oltre un’ora e mezzo di musica. Ad aprire il concerto gli Urock, band italo-americana con radici tra Roma e Los Angeles, e che hanno avuto la fortuna di collaborare con Alan Parsons per due brani del loro recente disco di esordio.
Sullo sfondo di loop preregistrati i membri della band Danny Thompson (batteria), Alastair Greene (chitarra), Tom Brooks (tastiere) e Billy Sherwood (basso) sono saliti sul palco. A loro si è rapidamente unito il maestro Alan Parsons, che ha preso il suo posto al centro della scena posteriore, visibile a tutti, a bordo di una piattaforma rialzata. La band ha iniziato la serata sulle note di May Be A Price To Pay, che ha visto l’ingresso in scena del cantante PJ Olsson. La sua energia sul palco è stata molto intensa, offrendo nel corso della serata interessanti momenti di interazione con il resto della band. È stato ancora Olsson il protagonista di Damned If I Do, mentre in un gioco di scambio di voci (come del resto avveniva nei dischi in studio), hanno preso le redini vocali lo stesso Parsons sulla ballad Don’t Answer Me e il sassofonista Todd Cooper su Breakdown miscelata con The Raven. Con Time, una delle più belle canzoni mai scritte, si intuisce l’incredibile lavoro vocale di Olsson, che è riuscito a compensare l’assenza dell’orchestra della versione in studio. Dopo La Sagrada Familia è arrivato il momento del chitarrista Alastair Greene, che ha offerto alcuni imperdibili assoli di chitarra e prestato la voce su I Wouldn’t Want To Be Like You.
La band si è poi giocata cinque trace dell’album The Turn Of A Friendly Card, in una suite che comprendeva The Turn Of A Friendly Card Part 1, Snake Eyes, Ace Of Swords, Nothing Left To Lose e The Turn Of A Friendly Card Part 2, con in evidenza il sax di Todd Cooper. Il pubblico ha molto apprezzato la scaletta, accompagnando con cori ed applausi la parte finale del concerto da What Goes Up a Luciferama (medley dei brani Lucifer e Mammagamma), fino a Psychobabble, Don’t Let It Show, Prime Time, per chiudere con Sirius e la celeberrima Eye In The Sky, quest’ultima cantata dallo stesso Parsons. A grande richiesta la band ha poi concesso tre bis: la difficile (The System Of) Dr. Tarr And Professor Fether, la bellissima Old And Wise e Games People Play.