15/05/2007

Ben e Ani: l’intellettuale del rock

UGUALI E DIVERSI

Apparentemente hanno poco in comune. Osservandoli da vicino, analizzando le loro storie personali e i rispettivi percorsi artistici invece, s’intuiscono curiose similitudini.

Lui, figlio di una coppia di musicisti panna-cioccolato, nasce (28 ottobre 1969) nella California meridionale al termine di quella calda estate che tra le malefatte di Charlie Manson e il Festival di Woodstock sancisce, di fatto, la fine del sogno dei figli dei fiori.

Lei viene al mondo poco meno di un anno dopo (23 settembre 1970) sulla costa opposta degli Usa, nella ghiacciaia di Buffalo, New York. Cinque giorni prima, a Londra, moriva Jimi Hendrix.

Ben Harper cresce a Claremont, una cittadina dove la musica è di casa. La chiamano Inland Empire (l’impero dell’entroterra) perché si trova ai confini del deserto del Mojave ma soprattutto perché lì, negli anni 60, prende vita una scena musicale piuttosto stimolante che ruota attorno ai nomi di David Lindley e Chris Darrow.

I nonni materni di Ben sono i proprietari del locale Folk Music Center (vedi box a pag. 37) un bellissimo negozio di strumenti musicali, famoso in tutta l’area di Los Angeles. E sia la nonna che la mamma sono insegnanti di musica tanto che Ben trascorre la fanciullezza tra dulcimer, arpe celtiche, didjeridoo australiani e tamburi africani circondato dall’affetto di una famiglia unita. Che mostra però un buco nero: il padre di Ben, del quale non s’è mai sentito parlare. Come mai? Per rispondere al quesito (e per molto altro ancora.) consigliamo la visione del dvd Pleasure + Pain (vedi box a pag. 38) in cui vengono trasmesse immagini inedite di Mr. Harper (un percussionista di colore che presenta una somiglianza imbarazzante con il figlio) e si ascoltano dichiarazioni non propriamente lusinghiere di Ben su di lui.

L’infanzia di Ani è diversa: quando i suoi genitori si trasferiscono nel Connecticut, lei ha già deciso di vivere da sola. Qualche anno prima, in un negozio di chitarre, aveva incontrato un eccentrico folksinger che era riuscito ad affascinarla e a introdurla alla musica. Musica a cui la giovane DiFranco comincia a dedicarsi a tempo pieno non appena terminati gli studi presso la Visual And Performing Arts School. Neanche ventenne, Ani ha già creato la propria etichetta discografica (la mitica Righteous Babe) e inciso il primo disco.

Oggi, poco meno di quindici anni dopo, la signorina DiFranco ha pubblicato 13 album ufficiali, 2 ep/remix, 2 dischi insieme a Utah Phillips, un dvd (Render, consigliatissimo a tutti gli appassionati). In più, ha messo sotto contratto non solo la sua bassista Sara Lee ma anche l’eccentrico duo Drums & Tuba, le newyorkesi Bitch And Animal, il poeta/performer afroamericano Sekou Sundiata, il tecnologico Kurt Swinghammer oltre al già citato Utah Phillips e al geniale Arto Lindsay.

Insomma, oggi alla Righteous Babe (il cui motto è diventato “so many babes, so little time”.) lavorano una ventina di persone. Non solo. Da un paio d’anni è stato aperto un ufficio a Londra e Scot Fisher, presidente della società, manager personale e da sempre partner finanziario di Ani, da muratore di Buffalo si sta candidando a diventare uno dei discografici americani di maggior successo: le vendite complessive dei dischi della Righteous Babe si avviano, infatti, a superare la soglia dei 4 milioni di copie.

Ben Harper ha fatto meno album (in totale sei, compreso l’ultimo Diamonds On The Inside e lo spettacolare doppio Live From Mars) ma ha venduto di più. Pur non essendo come la DiFranco un modello dell’etica del DIY (Do It Yourself, il proverbiale “fatelo da voi”), Harper ha una ‘struttura organizzativa’ simile. Il suo manager/produttore (JP Plunier) è un amico dai tempi del liceo e gli Innocent Criminals, i tre musicisti che formano la sua band, sono legatissimi a lui e lo accompagnano fedelmente dall’album Fight For Your Mind.

Da pochissimo, poi, anche Ben ha creato una sua etichetta discografica. Si chiama Inland Emperor, a testimonianza che l’affetto per Claremont (lo stesso che lega Ani alla natia Buffalo) è rimasto immutato. Il primo album pubblicato è quello dell’amico e collaboratore Patrick Brayer.

Ma gli elementi in comune tra Ani e Ben non finiscono qui. Innanzitutto, entrambi sono, per dirla con John Lennon, più artigiani che artisti. Le loro capacità musicali, infatti, si sono sviluppate e sono state perfezionate negli anni grazie allo studio, alle esercitazioni, alla pazienza tipiche dei bravi craftman. Non a caso, il loro modo di comporre brani e, più in generale, di far musica, è direttamente derivato dalla scuola folk & blues americana e cioè dal mondo della tradizione popolare. Che, oltre ad aver sempre fatto della musica uno strumento di comunicazione socio-culturale, ha come caratteristica principale lo stile.

Ecco perché, nella loro semplicità strutturale (tutti e due fanno ruotare la loro musicalità e il loro modo di comporre attorno alla chitarra acustica) sia Ani che Ben hanno saputo forgiare stili originali. Che oggi sono, per entrambi, un trademark inconfondibile della loro arte e della loro personalità.

Originali, unici e irripetibili, Ani e Ben lo sono, innanzitutto, nel modo di suonare lo strumento: l’accompagnamento sincopato della chitarra della DiFranco è perfettamente complementare al suo scattoso modus compositivo così come la fluidità della slide di Harper sulla Weissenborn è un indispensabile compendio alle sue incantevoli ballad.

Ma anche nel canto hanno saputo tracciare nuovi sentieri acustici. E se Ani ha, più che altro, spostato in là le frontiere di quel mix timbrico/stilistico di punk e folk già sperimentato con successo da Michelle Shocked prima o dalle Indigo Girls poi, Ben ha fatto della duttilità della sua ugola un ulteriore punto di forza. Il leggendario falsetto (che impreziosisce le ballate acustiche più suggestive) è pronto a lasciare il posto a una voce tosta per i brani rock o ad un seducente tono soul per i pezzi più neri.

La black music è un altro riferimento importante per entrambi: se il funk ha influenzato in modo decisivo la maggior parte delle produzioni della DiFranco degli ultimi cinque anni, blues, soul, reggae e R&B sono sempre presenti nei dischi di Harper.

Per tutti e due, il cuore della musica nasce dal binomio voce/chitarra acustica che inevitabilmente riporta al concetto di arte folk cui si accennava prima. E, proprio da questo punto di vista, all’appassionato più attento e preparato non può essere sfuggita un’altra caratteristica importante. I nostri eroi sono anche assolutamente in linea (come caratteristiche attitudinali) con le due principali scuole di folksinging americano: quella della East Coast che ha avuto il suo epicentro nel Greenwich Village e quella californiana di Laurel Canyon e dintorni.

Arrabbiata, diretta e scarna, politicamente impegnata e sessualmente disinibita, Ani è il prototipo della folksinger del 2000 che ha fatto sua la lezione dylaniana ‘dilaniandola’ sino alle estreme conseguenze. Anche nei testi, Ani porta avanti la ‘poetica’ del Village. Non sono casuali le collaborazioni con Utah Phillips così come non lo è la recente performance di un poemetto, il formidabile Self Evident, dedicato alle storture dell’America dopo l’11 settembre. “Alcune verità sono fin troppo evidenti”, recita la DiFranco, “punto primo: George W. Bush non è un presidente; punto secondo: l’America non è una vera democrazia; punto terzo: i mass media non mi prendono in giro.”

Un po’ Patti Smith, un po’ Lydia Lunch, la piccola Ani tira fuori in questo reading tutta la grinta di cui è capace e declama (alla maniera dei poeti beat, con formidabile senso ritmico) versi rabbiosi e denunce precise contro la società americana. Le sue canzoni hanno stregato anche uno scrittore affermato come Nick Hornby. You Had Time è diventata così l’oggetto di uno dei 31 saggi che compongono la sua ultima fatica letteraria, quel Songbook uscito a Natale negli Usa in edizione deluxe con tanto di cd accluso e illustrazioni.

Ben Harper, al contrario, è un erede dell’intimismo californiano di fine anni 60 e primi anni 70. Non sono soltanto i testi personali e sognanti, le atmosfere sonore delicate ed elegantissime o l’uso costante della slide ad avvicinarlo a quel mondo artistico (che è solo una delle sue numerose, e dichiarate, fonti di ispirazione). Ben è proprio culturalmente affine a quella filosofia molto West Coast nella quale esoterismo, spiritualità e introspezione si fondono sino ad influenzarne lo stile di vita.

Figli anomali della Generazione X, Ani e Ben hanno sviluppato una visione melanconicamente positiva dell’esistenza. Non nichilista, dunque, come quella dei grunger di fine millennio, ma neppure spensieratamente sognante (modello “feeling groovy”.) dei neo-hippie. Il loro realismo va di pari passo con una poetica lucida ma al tempo stesso priva di certezze o di facili risposte che, ormai, non si trovano più neanche nel vento. E allora, come sempre Bob Dylan ricorda, tanto vale continuare a porsi domande. E proprio come sta insegnando sempre il Dylan degli ultimi anni, per un musicista oggi vale la pena farlo su un palco. Lì la musica diventa esperienza vera, vitale, senza condizionamenti: e cioè, davvero indipendente.

Anche per questo, nelle performance live DiFranco e Harper raggiungono l’apice della loro qualità musicale, della loro espressività artistica, della loro capacità di coinvolgimento del pubblico. In concerto esprimono la loro piena maturità artistica, la loro definita identità. Che è facilmente dimostrabile ascoltando alcune cover famose che i due hanno inciso in tempi più o meno recenti. Basta fare una prova (per quanto riguarda Ani) con due pezzi tratti da altrettante colonne sonore: Hurricane (la celebre canzone, guarda caso, di Bob Dylan, tema dell’omonimo film) o This Land Is Your Land, il classico di Woody Guthrie. Le versioni suonano tanto originali da sembrare uscite dalla penna della stessa DiFranco.

Idem dicasi per Ben che, sempre in tema di colonne sonore, interpreta la gemma beatlesiana Strawberry Fields Forever (nella soundtrack di I Am Sam) in modo inequivocabilmente ‘harperiano’.

Altro che balle: questa è indipendenza artistica!

(e.g.)

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DIAMANTI IN FONDO ALL’ANIMA

“She’s so good”, mi dice parlando di Ani DiFranco.

Non è la prima volta che Ben Harper esprime pubblicamente un parere lusinghiero riguardo ai suoi colleghi. Ad esempio, ricordo tempo fa di aver letto sul suo sito (www.benharper.net, ideato e realizzato in modo superlativo) che Ben consigliava ai fan i dischi di Gillian Welch. “Abbiamo gli stessi gusti”, devo aver pensato. E, subito dopo, mi è venuto in mente che, dai tempi del suo album di debutto, io e Ben ci incontriamo regolarmente all’uscita di ogni nuovo disco o nel corso di qualche tour.

La cosa non è sfuggita neppure a lui.

“Te lo ricordi”, mi dice, “che ci conosciamo da quasi dieci anni? In pratica, dalla pubblicazione in Europa di Welcome To The Cruel World. si può dire che siamo cresciuti insieme.”

L’ennesimo meeting con lui, che stavolta avviene nei nuovi uffici milanesi della sua casa discografica, è come sempre piuttosto affettuoso. Il signor Harper mi fa strada nel corridoio prima di darmi il benvenuto nella saletta che definisce, scherzosamente, “il mio ufficio”.

Sorride, il dolce Ben. A dire il vero, i capelli ‘stirati’, la canottiera da basket (per la cronaca, quella dei Los Angeles Clippers) e le braccia tatuate gli danno, a prima vista, un’aria da rapper aggressivo. Che contrasta nettamente con la sua vera essenza: riflessivo, intimista e con un’inclinazione profondamente spirituale, Harper non è soltanto un artista rassicurante. È una persona realmente deliziosa.

Anche se, per evitare spiacevoli contrattempi, è più salutare capire subito di che pasta è fatto. Meglio non pensare, infatti, che dietro a questa apparenza docile non ci siano un carattere fermo e una personalità determinata. Difficile da credere, dite voi? Provate a dare un’occhiata al dvd Pleasure + Pain nel quale è documentato un battibecco avuto proprio con un giornalista europeo reo di aver posto qualche domanda ritenuta poco idonea. “Odio quando mi chiedono cose stupide o troppo personali e soprattutto quando queste non hanno nulla a che fare con la mia musica. Se le cose non vanno come dico io, preferisco interrompere le conversazioni.”

Detto fatto: l’incauto giornalista spegne il registratore, si alza e se ne va.

In realtà, con me Ben ha sempre parlato di tutto. Anche se ricordo che una volta non ha voluto rilasciare dichiarazioni sulla sua (allora) recente paternità. Certo, con lui è molto meglio discutere di musica o sfogliare l’album dei ricordi. Tanto che non posso scordarmi di quella volta (era il 1994) in cui, per uno showcase che stavo allora riprendendo con le telecamere di Telepiù, gli ho prestato la mia chitarra.

“Ce l’hai sempre la tua Martin?”, mi chiede lui.

“Sì. e gode di ottima salute!”, gli rispondo. “Sai, l’anno scorso sono stato a Claremont, nel negozio della tua famiglia. Lì, ho provato una Maton (le chitarre acustiche australiane che Harper oggi usa abitualmente, nda) ma non mi è piaciuta. Molto meglio la mia vecchia D-35.”

Ben si mette a ridere. “Sei stato davvero al Folk Music Center? Allora, adesso puoi davvero capire tutto. Io, lì dentro, ci sono praticamente cresciuto e posso dire che il mio gusto musicale ne è rimasto influenzato moltissimo. Ho compreso l’importanza di ascoltare musiche diverse, di studiarne gli stili e di interpretarle in modo originale.”

Senza che ancora glielo chiedessi, quindi, Ben ha svelato il segreto della sua inimitabile ricetta artistica. Che gli consente di essere, oggi, uno dei songwriter più versatili del mondo ma al tempo stesso di restare assolutamente originale. Bastano, infatti, pochi secondi di un brano (che sia un blues, un reggae, una ballata acustica, un pezzo soul o un rockettone tosto) per riconoscerlo all’istante. Specie nel suo ultimo album, Diamonds On The Inside, un’autentica parata di brani, stilisticamente diversissimi, composti e interpretati da vero fuoriclasse.

“Sono contento che mi dici queste cose”, mi fa lui. “Ero stufo di parlare delle mie influenze. Di Bob Marley, Robert Johnson, Neil Young, Marvin Gaye. O di Hendrix, degli Zeppelin o Muddy Waters. La musica, gli stili, l’arte e la creatività di queste figure leggendarie sono state da me completamente metabolizzate. Il periodo in cui io dovevo dimostrare al mondo le mie capacità è finito. Oggi, credo di aver raggiunto una piena personalità artistica e una precisa identità. Direi che il Live From Mars ha chiuso un ciclo. Diamonds On The Inside ne apre uno nuovo in cui ne esce un Ben Harper più determinato e sicuro dei propri mezzi.”

E, aggiungo io, persino più ispirato. Oggi Ben scrive con una facilità e una naturalezza davvero imbarazzanti. Sempre mantenendo una pertinenza stilistica impeccabile. “Non ho bisogno di andare sul Delta del Mississippi per scrivere un blues o a Kingston per comporre un brano reggae. L’ispirazione o le idee possono giungere in modo improvviso e nei luoghi più impensati. Io, in genere, scrivo molto quando sono on the road. È, probabilmente, un modo per fuggire dalle difficoltà della vita del musicista, dai sensi di colpa verso la famiglia ma anche dagli stress di essere ogni sera in un luogo diverso. Dopo un po’, o per lo meno, a me capita così, sei alla ricerca di certezze. Io provo a scovarle nelle mie canzoni.”

Per questo, Ben mi racconta che ogni luogo e ogni situazione diventano potenziali ‘stanze creative’. “Ho davvero scritto alcuni testi”, confessa, “sui fazzolettini di carta che ti danno in aereo. Già, proprio come si favoleggia nella mitologia rock.”

E pur ammettendo che girare con gli stessi musicisti e con un entourage fisso gli attenua le ansie, “i pezzi li compongo sempre da solo. È raro che provi i nuovi pezzi mentre sono in tournée. In genere, i miei musicisti non ascoltano mai il nuovo materiale prima di entrare in sala d’incisione: penso che fare troppe prove prima comporti poi una minore freschezza e spontaneità nel corso delle session di registrazione. Per Diamonds On The Inside ho voluto provare una cosa inedita: nessuno dei musicisti aveva mai sentito una canzone prima dell’inizio delle registrazioni. In tre mesi abbiamo completato il lavoro con enorme soddisfazione. In studio, gli Innocent Criminals danno il loro contributo per ciò che riguarda gli arrangiamenti. E, dal vivo, hanno molto spazio sulle parti improvvisate. Ma, in genere, si parte sempre da un mia idea”.

È stata, ovviamente, sua l’idea di chiamare i Ladysmith Black Mambazo per un brano (Picture Of Jesus) il cui arrangiamento è rimasto a lungo in dubbio. Gli faccio notare che il coro zulu (diventato celebre dopo la partecipazione a Graceland) proprio nel fortunato sodalizio con Paul Simon cantava Diamonds On The Sole Of Her Shoes. Oggi i diamanti finiscono dentro di noi, in fondo all’anima (come recita il titolo del disco di Ben) e non sotto le suole delle scarpe.

“Non ci avevo fatto caso. anche perché i Black Mambazo li conosco da molto prima che incidessero Graceland. Al Folk Music Center c’è una sezione di dischi di world music; i loro album erano nei nostri scaffali già all’inizio degli anni 80. Quando ho avuto l’intuizione di trasformare Picture Of Jesus in un brano a cappella ho immediatamente pensato a loro. Ho telefonato al mio manager il quale, nel giro di un’ora, ha scoperto che la settimana successiva Ladysmith Black Mambazo sarebbero stati in California e che avrebbe avuto un day off. Abbiamo preso l’occasione al volo e registrato immediatamente il brano che dà un ulteriore tocco di originalità al disco.”

“E per tornare al titolo”, ci tiene a sottolineare, “come sai, io ho da sempre la convinzione che la parte più interessante degli esseri umani sia quella interiore. Che il nostro corpo sia soltanto una miniera in cui immergersi e scavare per trovare quei ‘diamanti’ spirituali che potenzialmente tutti possediamo. Si tratta di farli arrivare in superficie.”

Quando parla di queste cose, non posso scordarmi che Ben è nato alla fine degli anni 60 (come mi suggeriva la sua coetanea Noa) “poco prima che il mondo cominciasse a deteriorarsi” e che, non a caso, è diventato un beniamino della scena neo-hippie delle jam band. Il suo volto è recentemente apparso sulla copertina di Relix, il magazine più amato dagli ‘orfani’ di Jerry Garcia.

“Trovo che il mondo della musica stia vivendo un momento eccitante. Sia per quello che riguarda il fenomeno delle jam band sia per tutti i nuovi artisti – da Norah Jones a Macy Gray, dai Wilco alla Dave Matthews Band – che sono emersi negli ultimi 5 o 6 anni. È davvero eccitante poterne far parte: credo che possa costituire un ulteriore stimolo a fare musica migliore.”

“Sono molto soddisfatto del nuovo album”, prosegue Ben, “e al tempo stesso estremamente motivato: non vedo l’ora di portare il nuovo repertorio in tour (la data inaugurale, 1 marzo, si tiene al Bridges Auditorium di Claremont, nda). Sto attraversando un momento magico della mia carriera, specie dal punto di vista creativo. Come direbbero gli sportivi, mi sento in gran forma. Perché se è vero che molti, giustamente, vanno in palestra per allenare il proprio fisico, io faccio la stessa cosa con la mente: scrivere nuove canzoni è il mio allenamento quotidiano.”

“Per me la musica non ha barriere”, conclude Ben, “non ha confini stilistici e nemmeno divisioni culturali. Sarà che io stesso sono mezzo bianco e mezzo nero. sarà che sono cresciuto ascoltando contemporaneamente Woody Guthrie e Howlin’ Wolf, gli Allman Brothers e Bob Marley, Jimi Hendrix o i Chieftains. sarà che so suonare strumenti etnici che vengono dagli angoli più sperduti del pianeta. sta di fatto che oggi mi considero cittadino del mondo. E sono felice che la mia musica sia ascoltata oggi in tanti paesi diversi e che sia apprezzata quasi ovunque.”

(e.g.)

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BELLEZZA IN MOVIMENTO

Forse si sente come la falena che adorna la copertina dell’album. “Sto solo cercando di evolvermi”, canta Ani DiFranco nella canzone che dà il titolo al nuovo lavoro paragonandosi a una falena che potrebbe volare libera nei boschi e invece gira pericolosamente attorno a una lampadina. Evolve è un lavoro raffinato e viscerale che conferma la “piccola folksinger” artista dalla creatività inarrestabile, nonché voce dissenziente nell’America degli amministratori delegati con stipendi a quattro zeri e dei barboni che dormono per strada.

Ovunque la porterà l’evoluzione cui fa riferimento il titolo dell’album, Ani sarà sola. Negli ultimi tre anni la folksinger si è esibita con una band comprendente tastiere, basso, batteria, fiati, che le ha permesso di uscire dagli angusti confini del folk e di creare una musica sfaccettata nella quale convivevano la libertà espressiva del jazz e i ritmi sincopati del funk. “In questi anni abbiamo sviluppato un nostro linguaggio peculiare, una nostra estetica”, ha detto recentemente. “Non molto di ciò che ci aveva preceduto assomigliava a ciò che stavamo facendo. Venivamo da esperienze diverse: il jazz, il rock. Era un collettivo di interpreti e io stavo semplicemente ad ascoltare scegliendo fra ciò che veniva offerto.”

Evolve è un po’ la summa di questo percorso, un disco nel quale sono riversati l’energia e il feeling delle straordinarie esibizioni dal vivo della “piccola folksinger”. Basta ascoltare Promised Land, la canzone che apre il lavoro, per rendersi conto di come i fiati, con frasi di poche note piazzate alla fine di ogni strofa, riescano a dare profondità emotiva alle parole di Ani. Slide, già presente nel dvd Render e qui resa in versione raffinata, dimostra quanto bene il tessuto strumentale della band si sposi con la scrittura nervosa di Ani. La brillante Here For Now, una delle sorprese dell’album col suo ritmo latineggiante, e Icarus, brano dal passo lento e greve, quasi marziale, dimostrano dove sarebbe potuta andare Ani con la band. Non ci andrà: Evolve è, con ogni probabilità, l’ultimo frutto della collaborazione tra la DiFranco e il gruppo. Ani è da tempo tornata ad esibirsi in solitudine, accompagnandosi con la sola chitarra.

“Quando sono arrivata verso la fine delle registrazioni dell’album mi sono accorta che mi stavo evolvendo. Volevo uscire dalla fase in cui tutto il lavoro era concentrato sulla band”, ha detto la cantante. “Quest’album mi ha dato un’emozione particolare perché è il compimento di tutto il lavoro fatto finora con lil mio gruppo. È la realizzazione di una visione che si è andata sviluppando durante il mio percorso musicale.” Ani ricorda l’eccitazione e il sensazione di “movimento costante” provata quando per la prima volta assemblò la sezione fiati che avrebbe aperto un nuovo orizzonte sonoro. “C’era sempre una nuova canzone da suonare, oppure un arrangiamento inedito di un brano vecchio. Era elettrizzante imparare da altri musicisti e lavorare con strumenti che erano per me nuovi. C’è stata poi l’esperienza d’essere una bandleader: perché sei persone improvvisino insieme ci vuole qualcuno che le guidi, e quel tipo di lavoro mi ispirava parecchio. Ho deciso di continuare da sola, ma amo tantissimo questa band e mi intristisce il fatto che questo sia una sorta di lavoro postumo per un gruppo che non ci sarà più.”

Nei brani più scarni, quasi interamente basati sull’affabulazione dell’artista, Evolve mostra quel che DiFranco può fare armata di una chitarra, un buon testo e poco altro. Non è un ritorno alle atmosfere dei primi album. Se a inizio carriera certe canzoni soffrivano per l’esiguità della trama strumentale, nuove composizioni come Phase, Evolve o Serpentine traboccano d’espressività e l’interpretazione vocale di Ani lascia a bocca aperta.

La DiFranco del futuro forse è quella del brano che dà il titolo all’album, un giro blues trasfigurato basato per lo più sulla chitarra e sulla voce: straordinario come l’interpretazione vocale riesca a movimentare i quattro e passa minuti della canzone tanto scarna. “Brani come Evolve e Serpentine”, ha detto Ani, “esprimono il desiderio di ritrovare l’uso della mia stessa voce che si era un po’ persa cantando con la band.”

Evolve è anche un album che parla di conflitti e solitudine. Di dolore. Forse non è un caso che la folksinger si sia separata dal marito, come ha rivelato in un’intervista rilasciata al mensile statunitense Out. Il testo di In The Way, altro brano di cui Render ha fornito un’anteprima, racconta della separazione tra due partner – lei che lo caccia letteralmente di casa e lui fa le valigie in un’insopportabile atmosfera di mestizia. Potrebbe essere un’appendice di Revelling/Reckoning, i due album incentrati sulla crisi sentimentale di Ani, ma il brioso ritmo sincopato non ha nulla a che fare col carattere malinconico e riflessivo delle ballate di quei dischi. Un’altra faccia dell’amore è cantata in O My My, racconto dal vago retrogusto Dixie di un rapporto che, se lasciato a briglie sciolte, diventerebbe “selvaggio”.

Evolve è, infine, un album politicizzato. Ani DiFranco è un raro caso d’artista che, pur evolvendosi, non ha mai abbandonato il proprio credo politico. Lo scorso 31 gennaio si è esibita a Berkeley al fianco di Chuck D, Michael Franti e Saul Williams in un concerto a favore dell’organizzazione pacifista Not In Our Name. E il suo contributo appare tra quelli di Thurston Moore, Kathleen Hanna e altri nel documentario Money For Nothing: Behind The Business Of Pop Music, dedicato al problema del controllo della produzione di musica popolare da parte delle multinazionali.

“La musica folk”, si leggeva nelle note di copertina di Revelling/Reckoning, “rappresenta storicamente la voce della comunità, dei cambiamenti sociali. Raccontare le proprie piccole storie, quelle di cui non c’è traccia nei testi scolastici e alla tv, è un primo passo per contribuire alle trasformazioni politiche. Con il folk si impara a rispettare la magnificenza dell’essere umano, a governare se stessi, a prendersi cura degli altri.”

Questa vocazione a leggere la realtà e a legare il proprio destino a quello della propria comunità, dà vita a Serpentine, dieci minuti di straordinaria poesia di stampo sociale, un sos lanciato da una DiFranco particolarmente ispirata. Arrabbiata, forse anche scoraggiata, Ani prende in considerazione la solitudine come rifugio in una nazione dove non c’è distinzione tra democratici e repubblicani (e difatti lei li chiama “democrani” e “repubblicratici”), dove il potere ce l’hanno le persone sbagliate. Dove, un po’ come ai tempi della Confederazione, siamo tutti “schiavi nella piantagione delle multinazionali”, dove il motto è “quel che va bene per gli affari, va bene per il Paese”. Dove “la mafia dell’industria musicale” vende alle ragazzine il finto mito del “girl power” e dove “l’hip-hop è legato nella stanza sul retro con un logo infilato in bocca”, ammutolito dalla sua stessa opulenza. E anche se la voce si fa rotta e senti che il pessimismo sta prendendo la meglio in lei, Ani ha la forza di denunciare “il controllo della mente” e “la miopia” dell’America d’oggi, dove siamo istupiditi dal fatto che “ogni giorno è Superbowl” e sui cartelloni “stupende donne in lingerie ammiccano ad ogni fermata dell’autobus”.

Alcune canzoni di Evolve suoneranno famigliari ai fan di Ani DiFranco. Oltre ai brani citati contenuti nel dvd Render: Spending Time With Ani DiFranco, il doppio live So Much Shouting, So Much Laughter ospitava Welcome To (una canzone su come restare soli il giorno di Natale, quando dovresti trovarti con la famiglia) e Shrug. Confrontate quest’ultima con la versione contenuta in Evolve. Se dal vivo Shrug possedeva una compostezza innaturale e Ani sembrava quasi reprimere lo sdegno per quell’amante che mette a tacere la coscienza così come si scopa lo sporco sotto il tappeto, la voce che doppia il canto nella Shrug contenuta in Evolve è un grido di disperazione dell’anima, ed è quest’urlo distorto, abbinato ad arrangiamenti delicati e stratificati che fanno ‘respirare’ la musica, a portare la canzone in un’altra dimensione.

Incantati dalla grazia e dalla bravura della band che accompagna la folksinger, ci si scorda che Evolve è – come ogni altro album dell’artista di Buffalo – una fotografia vecchia. Ani è già altrove. “Ho sempre più da fare”, canta nel brano che dà il titolo al lavoro, “e sempre meno da provare.” Poi arrivano i versi chiave: “Mi ci è voluto troppo tempo per capire / Che non riesco a scattare belle fotografie / Perché ho un tipo di bellezza / In movimento”.

(c.t.)

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