Le Former Lives, le «vite precedenti» appartengono tutte a Benjamin Gibbard. Le canzoni che il musicista ha riunito per il debutto solista non sono creazioni recenti, ma pagine musicali rimaste indietro. Come dice lui, «coprono otto anni, tre relazioni sentimentali, due città, alcolismo e sobrietà». Non è la primissima uscita a nome Benjamin Gibbard – ci sono stati l’album dedicato a Kerouac in coppia con Jay Farrar e la colonna sonora di Kurt Cobain About A Son con Steve Fisk – ma è nondimeno la sua prima raccolta di canzoni. Lui ama dire che non rappresenta un nuovo capitolo, ma è una storia accessoria. Se è così, è una storia piacevolissima da “leggere”.
I pezzi portano il marchio melodico dei Death Cab For Cutie, di cui Gibbard è cantante, leader e autore principale, ma sono arrangiati nella miglior tradizione dei songwriter americani. E sapete cosa? Funziona alla perfezione. Come se immergersi nei suoni elettro-acustici dell’americana avesse rinfrescato la creatività di Gibbard. Come se la distanza da queste creazioni avesse donato al disco una levità ispirata che mancava agli ultimi lavori del gruppo. Chi s’aspettava un disco da cuore infranto dopo la rottura con l’attrice Zooey Deschanel se ne torna a casa deluso. Former Lives accosta i sentimenti più disparati, cambia più volte prospettiva, racconta storie radicalmente diverse l’una dall’altra. Ma trova un equilibrio nel gusto melodico e nello stile canoro. A volte Gibbard canta di sé, a volte si cala nei panni dello storyteller. Spesso abbina stati d’animo e luoghi. Come nel singolo Teardrop Windows, sulla vecchia Smith Tower di Seattle come metafora della tendenza a dimenticare ciò che di bello abbiamo avuto un tempo, con un accompagnamento tintinnante fra Byrds e Big Star. O come nella deliziosa introduzione a cappella di Shepherd’s Bush Lullaby, bozzetto di grigiore londinese registrato originariamente su un iPhone. Gibbard alterna toni quasi epici (il duetto con Aimee Mann Bigger Than Love ispirato alla corrispondenza fra Zelda e Francis Scott Fitzgerald) a riflessioni scarne (I’m Building A Fire, per voce, chitarra acustica e fruscio).
L’album è figlio del trasferimento del rocker da Seattle a Los Angeles, dove ha conosciuto altri musicisti e ha provato un nuovo senso di libertà nell’anonimato. E così si permette cose che mai avrebbe fatto coi Death Cab, come raccontare la sua vita californiana con l’accompagnamento di un ensemble mariachi o imbastire un sogno lennoniano come Duncan Where Have You Gone?. Come pizzicare la chitarra acustica come un outlaw per cantare la storia di Lilly, «che è l’Oceano Pacifico e io sto sulla riva» e quella di Lady Adelaide che «non tradisce emozione, gelida più di un’onda del Mare Artico».
Trovando la bellezza nella semplicità, Gibbard ha scritto un dischetto incantevole. Dice che non ne farà un altro per almeno una decina d’anni: sarebbe un peccato.