Muskegon, Michigan, è una piccola cittadina sulle sponde del Grande Lago. Oggi è una graziosa località turistica dove, oltre alle escursioni nelle campagne circostanti, si possono visitare una nave della guardia costiera risalente all’epoca del Proibizionismo e un sottomarino della Seconda guerra mondiale, che sono attraccate nel suo porto. Sessant’anni fa, invece, Muskegon constava solo di uno sparuto numero di case immerse nella campagna ai margini della zona industriale di Detroit. Da qui comincia il lungo cammino di Bettye LaVette, nata Betty Haskyn. Un cammino che inizia precocemente, dato che, già a 16 anni, Bettye attira l’attenzione della Atlantic Records che la mette immediatamente sotto contratto. Di lì a poco registra il suo 45 giri di debutto My Man He’s A Loving Man che entra nella Top Ten rhythm & blues e che a lungo costituirà il suo unico, grande successo commerciale. La stella della LaVette, infatti, già nella prima metà degli anni 60 sembra affievolirsi: il suo One Thin Dime resterà a lungo nei cassetti delle case discografiche prima di essere pubblicato. Nel ’65 per l’etichetta Calla dà alle stampe il classico R&B Let Me Down Easy, che sarà la sua ultima visita alle posizioni che contano nelle classifiche di vendita. Il decennio successivo comincia col ritorno alla Atlantic, per cui registra una versione di Heart Of Gold di Neil Young nel ’72; gli scarsi risultati commerciali convincono però i discografici a rimandare la pubblicazione del suo lp Child Of The ’70s. Nonostante ciò Bettye ottiene una certa popolarità oltreoceano, tanto che a lungo il suo nome verrà associato alla parola northern soul.
“È un’etichetta che mi ha sempre infastidito” racconta Bettye con la voce calda e musicale propria dei neri d’America. “Per northern soul non si intende un genere musicale in particolare, quanto un piccolo gruppo di persone che all’inizio degli anni 70, nell’Inghilterra settentrionale, ha iniziato a collezionare e a scrivere sulla musica nera dei 60, soul e r&b principalmente; organizzavano molte feste in cui si suonava e si ballava questa musica, e io sono diventata una delle loro interpreti preferite”.
Nei due decenni successivi la LaVette consolida la sua fama di artista di culto, concentrandosi sulle apparizioni dal vivo e rassegnandosi a veder fallire i suoi sforzi in studio. Almeno fino all’inizio del nuovo millennio. Nel 2003, infatti, a più di dieci anni di distanza dal suo ultimo disco in studio e a quaranta dall’esordio, Bettye LaVette pubblica per la Blues Express A Woman Like Me, album che, finalmente, la segnala come una delle grandi voci dimenticate della soul music e che le permette di vincere l’anno successivo il W.C. Handy Award per il miglior ritorno blues dell’anno, oltre al premio Living Blues come miglior artista femminile blues del 2004.
“L’attenzione che mi ha circondato negli ultimi anni” spiega la LaVette “mi ha fatto entrare in contatto con Andy Kaulkin, il presidente della Anti Records (la stessa che ha rilanciato Solomon Burke, ndr), che mi ha proposto un album di canzoni scritte solo da autrici femminili. All’inizio ero riluttante, ma poi mi sono lasciata coinvolgere dal progetto, cui partecipava anche Joe Henry in veste di produttore. Mi hanno proposto una rosa di un centinaio di canzoni, da cui ho scelto le dieci definitive da inserire nel disco: ero alla ricerca di canzoni che avessero alle spalle una storia molto triste, in cui io stessa potessi identificarmi, perché non riesco a cantare qualcosa che non sento vicino e a pronunciare parole che io stessa non userei”. La scelta definitiva è caduta su titoli e autrici a volte distanti tra loro, come Sinéad O’Connor e Lucinda Williams, Aimee Mann e Dolly Parton, solo per citarne alcune. “Le canzoni che ho scelto risultavano male assortite per produttore ed etichetta, ma io sapevo che la mia voce sarebbe stata un buon collante. Non compaiono brani r&b o blues perché sarebbe risultato troppo ovvio e perché la label preferiva un repertorio contemporaneo. Inoltre, chiunque abbia visto un mio concerto precedente alla pubblicazione dell’album, sa che io canto qualsiasi genere di canzone, e lo faccio ormai da 44 anni: ho lavorato per un musical di Broadway, Bubbling Brown Sugar, ho cantato in decine di minuscoli jazz club e ho registrato decine di canzoni r&b”.
Il lavoro in studio procede spedito e si stabilisce un’atmosfera estremamente creativa: “Con Joe Henry c’è stata una magnifica collaborazione: è un gentiluomo ed è davvero dotato di molto talento; è riuscito a donare alla mia voce una brillantezza come mai nessuno prima di lui. Inoltre mi ha assecondato in tutto ciò di cui avevo bisogno e ha sempre tenuto in considerazione le mie idee”.
L’album, intitolato I’ve Got My Own Hell To Raise, è un vero e proprio tour de force per la voce profonda, commovente e altamente drammatica della Lavette, che si produce in interpretazioni da mozzare il fiato. “Little Sparrow (Dolly Parton) è forse la canzone più divertente da cantare, anche perché l’arrangiamento è completamente diverso dall’originale; Down To Zero (Joan Armatrading) è quella che ha richiesto il maggior sforzo, il maggior talento e la maggior tecnica: ho dovuto attingere a tutta l’esperienza di cui dispongo per cantarla, perché dal punto di vista musicale è senza dubbio la più brillante e impegnativa. I brani che amo di più sono Joy (Lucinda Williams), che suona molto funky, Just Say So (Catherine Ann Maciejewsky) e Sleep To Dream (Fiona Apple), anche se in realtà i piacciono davvero tutti quanti”.
Sebbene abbia raggiunto oggi l’apprezzamento tanto agognato grazie a due dischi in studio, Bettye continua a considerare l’attività live come il momento più importante del suo lavoro. “Prendiamo ad esempio i Temptations. Sul palco lo speaker annunciava: ladies and gentlemen, here’s The Temptations! E quando attaccava la musica tutti conoscevano il pezzo (canticchia l’intro di My Girl, nda). Quando lo speaker annuncia il mio nome pochi conoscono me e il mio repertorio, quindi so che dovrò dare il massimo perché sia un buono show, rispettoso della gente che è venuta a vedermi”. Una lezione appresa da un grande del soul e della musica nera in generale, Otis Redding. “Sono molto orgogliosa di averlo conosciuto di persona, quando abbiamo lavorato nello stesso periodo alla Atlantic” dice Bettye, la voce un poco rotta dalla commozione. “Otis era capace di incantare qualsiasi platea, era un grandissimo entertainer nel senso migliore del termine; mi ha insegnato che stare sul palco è il momento più importante per un cantante: ora quando scelgo una canzone da cantare il mio primo pensiero è dedicato non tanto a come suonerà in radio, ma a quale sarà la sua resa dal vivo. Inoltre, mi fa piacere pensare che lungo la mia carriera sono stata in grado di soddisfare un pubblico di diversa estrazione e con differenti gusti musicali, proprio come Otis era in grado di fare, meglio di chiunque altro”.
Lungo è il cammino che ha condotto Bettye LaVette ad oggi; un cammino che non accenna a fermarsi, dato che Bettye prosegue un’intensa attività concertistica che l’ha portata a visitare il nostro Paese per ben quattro volte negli ultimi tre anni, l’ultima delle quali la scorsa estate.
Queste le sue parole prima del commiato: “Non so cosa mi abbia spinto a non cedere fino ad oggi, eppure l’ho fatto. Anche se avessi avuto l’occasione di esibirmi solo a livello locale, come d’altra parte ho fatto per buona parte della mia carriera, avrei proseguito ugualmente. Ho sempre saputo che cantare non era solo l’unica cosa che sapevo fare, ma era soprattutto quella che amavo di più. Nonostante solo ora stia assaporando il successo, sono orgogliosa di quanto ho realizzato in passato, così come sono fiera che mai, in 44 anni, qualcuno mi sia venuto a dire di non aver apprezzato un mio concerto o una mia performance. E questo è quello che conta davvero”.