12/11/2013

Bill Callahan

L’ex artefice del progetto Smog è diventato un piccolo classico: canzoni di marca folk che emanano un piacere sottile, voce profonda, dettagli che diventano poesia. In Italia nel febbraio 2014

Bill Callahan, classe 1966, si è costruito una reputazione nei dischi a nome Smog contribuendo all’approccio sperimentale e minimalista del cantautorato americano che nei ’90 utilizzava sonorità poco raffinate. Al pari di Will Oldham, lentamente è divenuto a suo modo un classico, al punto che dal 2007 ha ritenuto di abbandonare il vecchio nome per meglio evidenziare le peculiari qualità di interprete (cantando un’ottava più sotto) e di cesellatore del songwriting (giocando con la semiotica). Nel nuovo album, Callahan raggiunge l’apice di questa arte del “fare con poco”, confermando lo stile dei due che lo hanno preceduto e conferendo al minimalismo degli albori un’identità inedita, distante da quel lo-fi di cui era stato artefice in dischi come Wild Love e The Doctor Came At Dawn.

Fin dalle prime battute Callahan ne avvita i cardini: pigrizia, indolenza, ironia. Resoconti in stile carveriano dove i dettagli marginali diventano architettura. Il semi-recitato di The Sing è un gioco a togliere, quadretto di situazionismo esistenzialista. Le parole “Birra” e “Grazie” a un certo punto si ripetono su una chitarra in controluce che sottolinea sottili cambi nell’inflessione vocale. Il gioco riesce a catturarci e farci sentire parte di questo bighellonare ad alta voce del pensiero. Fra cambi di passo, note lievi ed evocazione di immagini, siamo noi stessi parte della canzone. Tra le righe, soprattutto tra le note, troviamo qualche appiglio, ma è l’assenza di gravità a dare a questa canzone il suo peso specifico. Javelin Unlanding prende le forme di una danza avvolgente in cui un ipnotico flauto, dialogando con il ritmo stabile di una chitarra inquieta, porta in un luogo dove umore nero e cinismo hanno il tratto della leggerezza. Da qui in poi, ogni distrazione “altra” mal si combina col piacere sottile emanato dalle canzoni. Ci si unisce a questa danza straniante nei tenui movimenti di Small Plane, episodio catartico che cancella dalla memoria l’antica propensione di Smog nel volerti soffocare con la sua cappa depressiva. Il nuovo Callahan procede alla rovescia, aprendo spazi, lasciando cose in sospeso, tratteggiando suoni nitidi permeati da strutture al contempo fragili e decise, dalla bellezza imperfetta.

Le chitarre mostrano un’anima solida: nell’incipit di Spring sono un ponte fra un arpeggio sottile e la voglia di schiaffeggiare l’aria, che si manifesterà qualche attimo dopo. Altro punto di forza di questa raccolta è che l’autore mai indugia nello stesso squarcio di luce, che sia suono o linea melodica. È un fluire continuo, dolcemente inarrestabile: Callahan spinge la sua nostalgia in reticoli vocali e strumentali sempre nuovi, alternando differenti tonalità di colore. Le intensità dei chiaroscuri notturni di Ride My Arrow o il soppesare con pazienza la struttura definitiva da dare al brano, talvolta dall’inizio alla fine, come in Summer Painter, sono istantanee che ascoltiamo trattenendo il respiro. È proprio questo brano a svelare l’inquietudine che Bill vorrebbe tenere a bada con i suoi paesaggi bucolici e con il vociare laconico. Realizziamo che gli unici battiti percussivi ascoltati fin qui provengono da mani sui tamburi o dal ticchettio di qualche fragilissima bacchetta. A questo strato di fruizione, Dream River diventa un universo oscuro proprio nel momento in cui cerca di eluderlo, dipingendo scenari di tranquilla e pacata quotidianità. Seguendo l’autore in Seagull, scrutiamo che questo apice artistico ha ancora le sue cime da varcare e non ci stupirebbe ritrovare Callahan, tra qualche anno, sugli stessi percorsi aspri compiuti da Scott Walker, ovviamente con diversi risultati, ma con la stessa meticolosa abilità di decostruire la scrittura e i suoni.

Lo stile di Callahan, nell’attuale panorama cantautorale, è una sintesi di paradossi: come dice Werner Herzog ne La conquista dell’inutile, la piena espressività si manifesta rimodellando e quasi annullando le strutture canoniche dell’espressività. A Callahan basta inseguire le sue visioni tratteggiando gli spazi vuoti, mettendo sul pentagramma l’alternarsi di silenzi e suoni, ruminando con una voce che diventa strumento irreplicabile. Stare seduti nel bar di un hotel, pilotare felici un piccolo aereo, ordinare birra ringraziando, ascoltare un’intervista radiofonica a Donald Sutherland sono solo piccoli dettagli trasformati nella poesia di una canzone.

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