24/04/2024

Blaxploitation: una storia afroamericana

Il grande cinema nero nel libro di Mattia Chiarella

 

Un deejay che per fare radio usa come nickname Black Jack lo fa per una evidente scelta di campo: l’amore per la black music. È la storia di Mattia Chiarella, voce di Radio Cernusco Stereo, instancabile divulgatore di cultura afroamericana, che con WeirdBook ha pubblicato Blaxploitation. Una storia afroamericana. Il racconto appassionato ma analitico e dettagliato del cinema nero, per neri, dai neri, che ancora oggi affascina sia cineasti bianchi come Tarantino, sia i lettori di Jam che ricordano perfettamente Isaac Hayes e Curtis Mayfield. Ne parliamo con l’autore.

 

La prima pagina del libro, prima della prefazione di Carlo Babando, mostra una foto di Melvin Van Peebles: parte tutto da lui?

Da un punto di vista strettamente cinematografico sì, parte tutto da lui e da quell’ormai celebre 31 Marzo 1971 quando, in una sala cinematografica di Detroit, viene proiettato il film che ha scritto, interpretato e diretto dal titolo Sweet Sweetback’s baadasssss’ song. Tuttavia esistono una serie di presupposti socio-politici che hanno portato alla nascita di questo filone: per questo motivo ho scelto di approfondirli redigendo due corpose introduzioni che presentano figure ed eventi già molto noti al grande pubblico accanto a episodi sicuramente poco conosciuti ma utili a inquadrare un periodo storico non particolarmente trattato nelle scuole italiane.

 

Un tema cardine di questo fenomeno sono stati gli stereotipi: un cinema che contestava quelli bianchi diventa vittima di quelli neri, concordi?

Curiosamente gli stereotipi sono stati il motivo della nascita ma anche della morte della Blaxploitation: la volontà di lanciare un messaggio di supremazia afroamericana, in uno scenario totalmente dominato dai bianchi, ha generato tutta una serie di contenuti cinematografici che, con l’andare del tempo, sono diventati quasi “macchiettistici” fino a rasentare il ridicolo. Le azioni eccessivamente rocambolesche di certi protagonisti neri, accanto agli atteggiamenti assurdamente comici e denigranti di certi comprimari o antagonisti bianchi, hanno messo in esagerata evidenza il divario ucronico che doveva essere soltanto accennato, permettendo al pubblico di qualsiasi provenienza e ceto sociale di poter godere della visione senza essere costretto a storcere il naso davanti a scene e trame palesemente costruite ad arte per compiacere una precisa parte del popolo americano.

  

Ogni fenomeno artistico, anche quello cinematografico, ha delle premesse che precedono la “codificazione”. Quali film anticipano la nascita della Blaxploitation?

Convenzionalmente, il film Pupe calde e mafia nera del 1970 diretto da Ossie Davis (Cotton comes to Harlem, in lingua originale) viene considerata la pellicola che ha anticipato la nascita della Blaxploitation. Ricerche condotte per un altro progetto a cui sto lavorando hanno portato alla mia attenzione una dichiarazione del 2018, contenuta nel blog di Thomas Holt Russell (fondatore di un programma statunitense di “cyber-educazione”), in cui viene introdotto il film The split del 1968 diretto da Gordon Flemyng quale probabile precursore del filone. In questo film d’azione, con protagonista l’ex-star nera del football americano Jim Brown accanto ad attori molto noti quali Ernest Borgnine e Gene Hackman, “… non esattamente collocabile nel genere Blaxploitation, è perfettamente chiara la linea che collega certi film della fine degli Anni Sessanta con l’esplosione dei film d’azione afroamericani dei primi Anni Settanta…”.

D’altronde, i contenuti dei primi film di questo filone dovevano rispettare dei canoni ben precisi per poterne permettere l’identificazione: l’essere film d’azione, rappresentare la lotta dell’eroe nero irresistibile contro la malavita (mafia e spacciatori) o contro l’establishment, essere ambientati in periferia o nei ghetti metropolitani, contenere un linguaggio colorito con i toni dell’abbigliamento di protagonisti e antagonisti particolarmente nitidi, avere una colonna sonora Funk o Soul e, soprattutto, essere diretti a un pubblico afroamericano. A un’attenta lettura delle trame, i due film sopra citati rispondono perfettamente alle richieste.

 

Ecco, entriamo più in profondità: quali sono i film chiave della prima ondata, con le caratteristiche che renderanno tipico il genere?

Se si studiassero attentamente i requisiti richiesti per il “perfetto film Blaxploitation”, si ridurrebbe il tutto a quattro titoli molto conosciuti: Shaft il detective e Shaft colpisce ancora di Gordon Parks, usciti nel biennio 1971-72, Shaft e i mercanti di Schiavi del 1973, diretto da John Guillermin, e SuperFly di Gordon Parks, jr. nel 1972 che, tra l’altro, è il film che ha spinto il direttore della branca hollywoodiana dell’NAACP (l’associazione votata alla preservazione del patrimonio culturale afroamericano) Junius Griffin a “coniare” il termine Blaxploitation in relazione alle duecento pellicole uscite tra il 1971 e il 1976. D’altronde il grande interesse di alcuni operatori “bianchi” del settore ha spinto produttori, registi, sceneggiatori e attori caucasici a prendere parte alla realizzazione di pellicole di grande successo che, in molti casi, hanno esplorato altri generi cinematografici quali l’horror, l’animazione e perfino il western arrivando a rendere protagonista vincente una figura che, fino a quel momento era stata relegata a ruolo di “damigella in pericolo”: la donna.

 

A proposito di successo, con il boom di Shaft entra in gioco l’industria. Hollywood trionferà o lo zoccolo duro radicale e indipendente riesce a preservare lo spirito delle origini?

(Riflette a lungo, ndr…). Credo che il vero e proprio spirito delle origini (ovvero il famoso claim “from blacks, to blacks, by blacks”) si sia perso, praticamente, subito dopo l’uscita di Sweet sweetback’s baadasssss’ song. Pensiamo al personaggio di Shaft appena citato: pochissimi sapranno che è stato creato da uno scrittore e sceneggiatore bianco. Un altro esempio è dato dai film Coffy e Foxy Brown con protagonista Pam Grier: entrambi diretti da Jack Hill, un regista chiaramente caucasico. Che si tratti di “Metro Goldwyn-Meyer” o di “American International Pictures”, sempre di Hollywood si parla: certo, in tantissimi casi, lo “spirito delle origini” è rimasto e il messaggio arriva chiaro e deciso allo spettatore, in diversi altri casi, però, la presenza di operatori di settore considerati “americani puri” può arrivare a mettere in discussione l’intento originario dell’intero progetto culturale.

 

Una domanda al deejay Black Jack. Una componente fondamentale è la musica. Quali sono le migliori colonne sonore che vuoi consigliare al pubblico di Jam?

Tralasciando quella manciata di album già ampiamente conosciuti al grande pubblico, mi sento di consigliarne, in particolare, altri due: il primo è del 1973, difficilissimo da reperire in formato fisico, realizzato da Herbie Hancock ai suoi primi tentativi di sperimentazione “elettronica”, ed è la colonna sonora di The spook who sat by the door diretto da Ivan Dixon (in italiano, Freeman, l’agente di Harlem). Il motivo di questa mia prima scelta è semplice: i grandi appassionati di Jazz conoscono, certamente, il brano Actual proof di Herbie, dall’album Thrust del 1974: bene, sappiate che il tema principale della pellicola contenuta nella colonna sonora (accompagnata da un’inedita versione “reprise”) e il brano sopra citato, sono lo stesso prodotto!

Il secondo album è la colonna sonora di Wattstax del 1973, il documentario diretto da Mel Stuart che riassume le ventiquattro ore di concerto che si è tenuto a Los Angeles nell’Agosto del 1972, proposto al grande pubblico come la risposta nera al Festival di Woodstock. Se volete farvi una scorpacciata di materiale live di artisti appartenenti alla scuderia Stax, questo è l’album che fa per voi!

 

Tanti film di serie B hanno colonne sonore di serie B: la musica si è salvata o anch’essa ha risentito della sovrapproduzione?

Dalla mia esperienza di ascolto di, almeno, il novanta per cento delle colonne sonore del filone mi sento di suddividere questi album in due differenti categorie: le colonne sonore con brani registrati in studio e le colonne sonore con i brani estrapolati direttamente dalla pellicola (con effetti sonori cinematografici annessi e, a tratti, personalmente fastidiosi). In entrambi i casi ho trovato una grande originalità e qualità nelle produzioni, oltre a una varietà di generi che esulano dai meri Funk e Soul. In sostanza, non ho mai ascoltato un album uguale all’altro e ogni volta è stata una piacevole sorpresa.

 

È errato pensare al mondo afroamericano come a una comunità coesa: questi film sollevarono notevoli polemiche a partire dalle accuse di razzismo. Col senno di poi, secondo te erano fondate?

Se si parla di razzismo dei neri nei confronti dei bianchi, la mia risposta non può che essere: “questo era, esattamente, lo scopo di certe pellicole del filone”. Altro tipo di polemica, e qui mi trovo d’accordo con te, riguarda l’esagerazione di cui parlavo prima: accuse fondate che hanno rovinato un filone cinematografico con un intento ben preciso, ovvero quello di immaginare un mondo con afroamericani messi in situazione paritetica o, in qualche caso, di superiorità rispetto al bianco storicamente oppressore.

 

Ricordo un film di fine anni ’80, Harlem Nights, totalmente all black fatta eccezione per il bravissimo Danny Aiello: Eddie Murphy, Richard Pryor, Redd Foxx, Arsenio Hall e tanti altri. Era un ritorno della Blaxploitation?

Un film che conosco molto bene e che rivedo spesso con piacere. Sicuramente, i canoni Blaxploitation ci sono tutti: regia e sceneggiatura afroamericana, attori neri buoni contro bianchi cattivi, colonna sonora introvabile di un musicista nero con ambientazione metropolitana, specificamente in un quartiere come Harlem…

Se si trattasse di un vero e proprio “ritorno” non saprei dire, ma sicuramente è stata una delle avvisaglie che avrebbe, poi, trovato conferma nel cinecomic Blade del 1998 diretto da Stephen Norrington convenzionalmente riconosciuto come il film che ha fatto tornare in auge la Blaxploitation.

 

E oggi? A oltre vent’anni da Jackie Brown, cosa resta di questo fenomeno?

Oggi resta la volontà di continuare a ricordare, attraverso remake di eccellenti registi, i grandi capolavori della Blaxploitation: da Spike Lee con Da sweet blood of Jesus del 2014 (remake di Ganja & Hess di Bill Gunn del 1973) a Dolemite is my name del 2019, diretto da Craig Brewer (che narra del making of del film Dolemite del 1975 diretto da D’Urville Martin con Eddie Murphy nel ruolo del protagonista Rudy Ray Moore), la Blaxploitation è di nuovo sulla bocca di tutti: bisogna solo ricordare al pubblico, di tanto in tanto, il nome di questo filone spesso difficile da scrivere e pronunciare, oltre a ricordarne il grande impatto sociale che ha avuto e che ha ancora oggi dato che il popolo afroamericano ha ancora tante battaglie da affrontare.

Blaxploitation - Mattia Chiarella

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