28/04/2015

Blur

L’ottavo album in studio della formazione londinese sancisce un ritorno pregevole e variegato, tra echi del passato e nuove intuizioni
A sedici anni da 13, ultimo disco in studio con Graham Coxon in formazione, e a dodici da Think Tank, i Blur suggellano il loro attesissimo ritorno discografico con The Magic Whip. Le dodici nuove tracce – tredici nella versione giapponese del disco – sono frutto di cinque giorni di jam session risalenti al maggio 2013, periodo in cui la formazione inglese era in Asia per una serie di concerti. La casualità degli eventi – l’annullamento all’ultimo minuto del Tokyo Music Rock Festival, dove i Blur erano gli headliner – permette alla band, infatti, di prendersi qualche giorno di pausa dai live e di rintanarsi in un piccolo studio di Hong Kong per lavorare su nuovi brani.
 
Nei mesi successivi si susseguono, tuttavia, una serie di dichiarazioni contrastanti, che gettano ombre pesanti sull’eventuale pubblicazione dell’ottavo album in studio dei Blur. Oltretutto l’uscita dell’elegante Everyday Robots (Parlophone, 2014), primo e vero album solista di Damon Albarn, sembrava mettere la parola “fine” sul futuro della band londinese.
 
Ma il destino, evidentemente, prevedeva un grande ritorno. A novembre, infatti, mentre il cantante è in tour per la promozione di Everyday Robots, il chitarrista Graham Coxon – tornato in pianta stabile nei Blur a partire dal 2009, dopo aver abbandonato la band durante le session di registrazione di Think Tank –  inizia a lavorare su quei famosi brani insieme a Stephen Street, storico produttore dei Blur fino al 1997. Per completare il quadro servono però i testi: a dicembre, di ritorno dal tour australiano, Damon Albarn decide quindi di restare qualche giorno a Hong Kong, dove trova la giusta ispirazione.
 
Anticipato dalla pubblicazione di tre singoli e videoclip – Go Out, There Are Too Many of UsLonesome Street – e da altrettanti estratti ufficiali – I Broadcast, My Terracotta Heart, Ong OngThe Magic Whip vede ora finalmente luce. È chiarissima l’inevitabile influenza e il ruolo fondamentale che la città Hong Kong ha avuto su questo nuovo lavoro, a cominciare dall’artwork in copertina – un grande gelato accompagnato da insegne in cinese – curato dall’artista visivo Tony Hung, regista peraltro del bizzarro video di Go Out.

The Magic Whip è un album che, dal punto di vista stilistico e di scrittura, è assolutamente sorprendente: i Blur del 2015 sono artisti maturi, cresciuti a distanza ma capaci di ricreare quella magica alchimia a quattro che aveva partorito album importanti per il rock inglese – e non solo – come Modern Life Is Rubbish (Food, 1993), Parklife (Food, 1994) o Blur (Food, 1997).  Lonesome Street, traccia posta in apertura, è un perfetto ritorno alle origini e alla “fisicità” dei tempi d’oro del rock inglese (dagli Who agli XTC passando per i Kinks), mentre la riflessiva New World Towers è più vicina ai Gorillaz o alle sonorità autunnali di Everyday Robots; Go Out riporta alla memoria perfino i Clash e le sperimentazioni di 13, mentre Ice Cream Man è un bel quadretto elettroacustico. Thought I Was A Spaceman, una delle tracce migliori per intensità emotiva e ispirazione, è scandita da un frizzante ritmo electro-pop ed è sommersa da sintetizzatori ’80s.
 
Il pop-punk stralunato e rumoroso di I Broadcast saprà essere sicuramente ancora più efficace in sede live, mentre la malinconica My Terracotta Heart, sulla tormentata amicizia con Coxon, è in pieno stile Albarn. In scaletta poi sono presenti la già nota There Are Too Many of Us, una The Universal del nuovo millennio, e le atmosfere esotiche e rilassate di Ghost Ship, neo-soul alla maniera degli Style Council nonché ennesimo omaggio a Hong Kong, al suo caotico vivere e alla sua gente. Pyongyang, dai sapori quasi “dark-wave”, è forse la vera perla di The Magic Whip, caratterizzata da un ritornello che, per impeto e intensità, non sfigurerebbe di certo dinanzi a grandi classici della discografia come This is a Low o capolavori come Death Of a Party; un brano dal testo significativo che riflette, senza retorica o facili slogan, sulla situazione nella capitale della Repubblica Popolare Democratica di Corea (Corea del Nord) e del suo Leader supremo, Kim Jong-un. In chiusura, oltre alla trascinante power-ballad Ong Ong, parente stretta di Tender, c’è anche Mirrorball, che con i suoi echi cinematografici e le sue splendide orchestrazioni e atmosfere agrodolci cala il sipario su The Magic Whip.
  
I Blur confezionano un album ispirato, ricco di intuizioni e idee, variegato ma equilibrato, una scommessa vinta che alla vigilia non sembrava affatto facile, un’opera che è inevitabilmente figlia delle diverse esperienze di Damon Albarn e Graham Coxon. The Magic Whip è quindi un lavoro corale, dove ognuno svolge egregiamente il proprio ruolo, ed è suonato da artisti maturi, desiderosi di sperimentare e soprattutto capaci di divertirsi e di essere convicenti. L’unica cosa da capire, eventualmente, è se The Magic Whip rappresenti l’inizio di un qualcosa di nuovo o la fine di un percorso. 
 
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