Ho incontrato Bob per la prima volta tanto tempo fa, direi a metà degli anni 80. Allora, aveva appena concluso una straordinaria avventura con i Cheap Suit Serenaders del celebre cartoonist Robert Crumb, un quartetto di mattacchioni californiani infatuati della musica dei “roaring Twenties”. Brozman era già considerato virtuoso impareggiabile, maestro indiscusso di dobro e dintorni. Non solo. Si favoleggiava sul carattere eccentrico del personaggio e, soprattutto, sull’estrema spettacolarità delle sue performance (mani che percuotevano le casse degli strumenti, chitarre che roteavano per poi essere riacchiappate, ukulele volanti.). Si discuteva anche sulla straordinaria pertinenza stilistica e sulle formidabili qualità di entertainer. Insomma, BB era uno da marcare stretto.
In una fresca mattinata d’agosto, Brozman mi aveva dato appuntamento all’aeroporto di San Francisco dove, tra plin plon e implacabili annunci dei voli, ebbe luogo la nostra prima intervista. Da allora ci siamo rivisti soltanto tre o quattro volte, sempre in Italia, sempre con reciproca soddisfazione. Lui continua a essere il soggetto che avevo conosciuto allora, affabile e simpatico, entusiasta e generoso che scherza anche sul suo aspetto estetico. “Sono un americano atipico” dice “ho lontane origini nell’Europa dell’Est e i miei lineamenti sono assai particolari. Potrei esser scambiato per un mediorientale o per un greco. A volte con qualche americano un po’ ignorante ci scherzo sopra. Gli dico di provenire da paesi immaginari che a lui evocano mondi lontani: poi gli dico che vengo da Brozmanland, la mia vera patria. Una nazione tutta mia, dove regna una democrazia utopica; dove tutti suonano e dove c’è rispetto per le culture e le tradizioni più disparate”.
Un istante dopo, Bob sa essere preciso, professionale, severo, rigoroso. “Quando ci siamo incontrati tanti anni fa” ricorda “vivevo fuori dal tempo, in un passato fittizio ma fascinosissimo composto di musiche straordinarie, auto d’epoca, oggetti d’antiquariato. La tradizione nordamericana è stata la mia prima, grande passione: una grande scuola d’arte e di vita. Ma non ho rimpianti: il mondo viaggia troppo velocemente per aver nostalgia del passato. Da qualche anno, poi, ho cominciato a viaggiare per il mondo e ho scoperto realtà artistiche e culturali altrettanto seducenti, che sto vivendo al presente”.
Accompagnato dal fido promoter Alessio Ambrosi (mente e braccio dell’Acoustic Guitar Meeting di Sarzana, imperdibile appuntamento annuale per tutti gli amanti della sei corde acustica), Bob si presenta negli studi milanesi Casalogic di Francesco Piccolomini con un fantastico carico di strumenti: due National, una slide in legno koa hawaiano stile Weissenborn, una strepitosa chitarra di concezione indiana, quasi un ibrido tra dobro e sitar, un charango andino. Fisicamente tonico, artisticamente in stato di grazia, Brozman trasmette, a prima vista, entusiasmo e voglia di vivere: la sua filosofia è semplice ed efficace. “Ho 51 anni e sono felice di essere un musicista. Mi piace insegnare ai giovani non solo la tecnica o le tradizioni musicali che ho imparato ad amare nel corso degli anni. A loro spiego che, se ambiscono a circondarsi di maschi, debbono suonare il maggior numero di note nel minor tempo possibile. Ma se preferiscono avere intorno a sé belle ragazze. il ritmo è tutto!”. Detto fatto. Non appena attacca con uno dei suoi favolosi blues, interpretati con la grinta di Skip James, l’originalità di Charley Patton, la pulizia tecnica di Mississippi John Hurt, l’ironia dissacrante e prurignosa di Bo Carter, lo spessore di Robert Johnson ma con una verve tutta sua e un senso del ritmo da far invidia a Stewart Copeland, Brozman incanta e trascina anche lo spettatore più distratto. “Il blues è stato il mio primo amore, ma non mi piacciono i cliché o gli stereotipi legati ad esso. Neppure ritengo giusto e possibile che un bianco possa cantarlo in modo adeguato e pertinente. Nessuno di noi ha mai vissuto nelle piantagioni di cotone o ha subito la segregazione razziale. Ma quando è interpretato nel modo giusto, il blues è in grado di comunicare sentimenti ed emozioni a tutti gli esseri umani”. Bob lo ha dimostrato in 30 anni di carriera.
Addirittura, un suo recente lavoro (Blues Reflex, vedi www.bobbrozman.com), da questo punto di vista, risulta assolutamente esemplare. Qui, più che mai, la sua National dimostra di essere strumento completo, capace di cogliere le rurali ma sensualissime vibrazioni del Delta del Mississippi riverberandole, amplificate, nel nuovo millennio quasi fossero una nuova tendenza. Nel contempo, mantenendo intatto il sapore genuino e lo spessore storico-sociologico di un’imperdibile tradizione culturale. “Le chitarre National” spiega Bob “sono solitamente associate al blues. Eppure, il costruttore originale di questi strumenti mi ha confessato che lui, all’epoca, non aveva alcuna cognizione del blues. Piuttosto, ha costruito queste chitarre per la musica hawaiana. Il prototipo della National è stato ideato alla fine degli anni 20, prima dell’avvento degli strumenti elettrici: ecco spiegata la geniale invenzione del risonatore (e del corpo di metallo per contenerlo) che, diventando sorta di amplificatore rudimentale, dà allo strumento un volume più alto che gli consente di avere maggiore impatto dal vivo. È uno strumento dalle enormi potenzialità espressive anche in virtù della fantastica dinamica di volume, timbro e colori: può essere suonato in modo delicato, quasi sussurrato, oppure in modo violento. Da questo punto di vista, è come avere due o più strumenti a disposizione”.
L’amore per la National ha portato Brozman alla scoperta delle Hawaii, patria musicale della chitarra slide. “La musica e la cultura delle Hawaii mi hanno sempre affascinato, la bellezza e la fragilità di quelle tradizioni viaggiano in parallelo con la spettacolarità della natura. Ma non possiamo dimenticare la storia: quando l’uomo bianco è arrivato sulle isole c’erano 500 mila indigeni. Oggi saranno poco più di 5 mila gli hawaiani puri. Quando l’uomo occidentale colonizza le culture altre lo fa in modo assolutamente ignorante e prevaricatore. In quel momento, non ha swing. Le culture sottomesse, calpestate reagiscono con ritmi e forme di espressione artistiche forti e coraggiose. Le più elevate forme di musica sono quelle che scaturiscono da una sorta di urlo dell’animo umano. Ci sono ovunque: anche nella cultura occidentale, vedi la tromba di Louis Armstrong o di Miles Davis, la chitarra di Django Reinhardt e Jimi Hendrix. Così la musica diventa un linguaggio universale. Di fatto la comunicazione musicale viene trasmessa attraverso i muscoli delle braccia, delle dita. È addirittura più veloce del canto e della parola: è una comunicazione diretta tra cervello e muscoli”.
La visione della musica di Bob Brozman è davvero affascinante. “Con l’invenzione del pianoforte” spiega “l’uomo occidentale ha imposto una sorta di griglia che ha modificato gli equilibri delle note musicali, il suo naturale frazionamento. Ecco perché gli europei hanno deciso di accordare la chitarra nel modo che oggi conosciamo. E, al contrario, anche perché, in quasi tutte le culture tradizionali, si accorda la chitarra con un’accordatura aperta, che suona, a corde vuote, come un accordo tradizionale di Re, Mi, La o Do. È più semplice, istintivo: in una parola, è più naturale. Difatti, le accordature aperte sono utilizzate ovunque: dal Delta del Mississippi a Cuba, dall’India a Papua Nuova Guinea, dal Sud America all’Africa. Persino nella vecchia Europa o nei paesi arabi”. In ognuno di questi luoghi, Brozman ha portato la sua concezione musicale adattandola ai nuovi idiomi. “Si è trattato di esperienze umane e culturali prima ancora che artistiche” sottolinea con orgoglio. “Nel mio ultimo progetto (Songs Of The Volcano, cd + dvd registrati a Rabaul, Papua New Guinea con 5 stringband locali, nda) ho portato le corde ai musicisti che non ne avevano e ho dato loro in mano i miei strumenti: erano felici come bambini il giorno di Natale! In cambio, ho ricevuto le chiavi d’accesso a universi sonori straordinari”.
“Viaggiare per il mondo” conclude Bob “mi ha fatto nuovamente innamorare del genere umano. Oggi mi considero un antropologo, uno scienziato della musica e degli strumenti a corde”.