22/03/2007

Bonnaroo 2005

3 giorni di pace, amore… e jam session

Nella fattoria di Sam McAllister le mucche sono tornate a casa. Le infrastrutture del festival più cool dell’estate americana sono state smontate e il luogo di selvagge avventure e frenetici momenti musicali è stato ripulito e riconsegnato ai suoi abitanti a quattro zampe. Ma per tre giorni, come ormai accade ogni secondo weekend di giugno, questi pascoli sono stati teatro di un evento entusiasmante.

Ci troviamo a Manchester, 60 miglia a sud-est di Nashville, nella bellissima campagna del Tennessee. Siamo qui per la quarta edizione del Bonnaroo, il festival che Rolling Stone Usa ha definito come “uno dei 50 momenti che hanno cambiato la storia del rock’n’roll”.

Per capire di cosa stiamo parlando diciamo subito che il Bonnaroo non è diventato celebre per le sue dimensioni (vengono staccati al massimo 90mila biglietti) bensì per la straordinaria selezione delle band che, come sostiene il promoter Ashley Capps (dell’A.C. Entertainment), “non importa che tipo di musica facciano, importa che siano tutte eccezionali nelle performance live”. L’altro aspetto che caratterizza il festival e che lo rende davvero unico (nonostante i numerosi tentativi di imitazione) è il coloratissimo pubblico: abbigliato nei modi più insoliti e bizzarri, è in grado di dare vita a un Mardi Gras irrefrenabile nel bel mezzo dei campi di foraggio.

Parlare di ciò che abbiamo (e, ahimè, non abbiamo) visto a Manchester, TN, è senza dubbio un’impresa non facile e risulta quasi impossibile restituire l’atmosfera che in quei giorni ci ha circondato. Sotto il grande cielo del Sud, l’aria era pervasa da un senso di pace, di libertà e di buon umore: il massimo per ascoltare musica.

Ottanta band si sono alternate su sei palchi e la sovrapposizione tra le performance ci ha costretto a scelte quanto mai complicate. Come in una fiera campionaria ci siamo ritrovati infatti a correre tra uno “stand” e l’altro cercando di assaggiare il più possibile.

La line up di quest’anno dovrebbe aver seppellito per sempre l’idea di trovarci di fronte ad un “jam band festival”. Perché se è vero che le jam band più importanti hanno partecipato in massa è altrettanto vero che nomi come Alison Krauss, Kings Of Leon, Jack Johnson, Mars Volta, Modest Mouse, Joss Stone, John Prine, Herbie Hancock, Iron & Wine e Madeleine Peyroux (solo per citarne alcuni) non possono certamente essere classificati come appartenenti a quel mondo. E l’incontro di mondi diversi è stato appunto uno degli aspetti più interessanti di questa edizione: quello delle jam band è stato affiancato da quello dei songwriter, quello del country e del bluegrass da quello dell’alternative rock.

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Jammin’: gli improvvisatori

Herbie Hancock è stato senza dubbio una delle figure memorabili di questo festival. Presentato come unico resident artist della manifestazione, oltre a presentare il suo nuovo progetto, Headhunters 2005, ha suonato anche con altre formazioni. Il suo gruppo elettrico, messo insieme per l’occasione, ha dato vita a uno dei set più incredibili del panorama live mondiale. Tra i suoi compagni di viaggio (perché di viaggi musicali qui si parla) citiamo senz’altro il giovane John Mayer alla chitarra (Hancock si è detto “emozionato di suonare con lui”), Roy Hargrove alla tromba e Marcus Miller al basso.

Sempre nell’ambito dei gruppi votati all’improvvisazione segnaliamo la strepitosa prova dell’Allman Brothers Band che, oltre a coinvolgere con il suo jazz-rock leggendario, è divenuta il teatro delle solite impressionanti sfide a colpi di Gibson tra Dereck Trucks e Warren Haynes. Nel loro set hanno colpito due brani inattesi: The Night They Drove Old Dixie Down di The Band (chiaro omaggio alla terra che ci ospitava) e Good Morning Little School Girl con l’accompagnamento di Jerry Douglas alla slide guitar.

Ai Widespread Panic gli organizzatori hanno invece chiesto l’impossibile: intrattenere il pubblico del main stage, nelle due serate principali, con due spettacoli di quattro ore ciascuno. Farlo senza ripetersi non era affatto semplice ma l’operazione è pienamente riuscita. Il gruppo è parso in gran forma e ha impressionato soprattutto per l’affiatamento della sezione ritmica (sugli scudi le percussioni di Ortiz) e per gli assoli del chitarrista George McConnell. Per portare a compimento questa impresa titanica il sabato i Panic si sono fatti aiutare da Warren Haynes e Danny Louis dei Gov’t Mule mentre la domenica hanno chiamato prima Bob Weir, poi Herbie Hancock, e infine Luther Dickinson (chitarra dei North Mississippi Allstar) e Robert Randolph, autentico fenomeno della pedal steel.

Uno dei progetti sicuramente più interessanti della manifestazione è stato The Word, incentrato sulla rilettura (in chiave strumentale) della musica gospel e di vecchi inni religiosi. Dietro questo nome si cela un supergruppo che ha davvero emozionato sia per le grandi capacità tecniche sia per l’originalità nell’affrontare un repertorio così insolito. Il tastierista John Medeski (Medeski Martin & Wood) e il già citato Robert Randolph si sono infatti uniti ai North Mississippi Allstar dando vita a un concerto intenso e magnetico, caratterizzato dai lunghi interscambi sulle note alte tra la pedal steel di Randolph e la Les Paul di Dickinson, conclusosi con una splendida rilettura di I’ll Fly Away.

Per chiudere con le jam band sottolineiamo infine la solita, eccellente, performance dei Gov’t Mule (Haynes è considerato a ragione “the Godfather of Bonnaroo”) e le trascurabili prove di Trey Anastasio e dei Ratdog di Bob Weir.

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Will The Circle Be Unbroken: i gruppi country

Essendo vicini a Nashville, capitale della musica country, è piuttosto normale che il cartellone preveda un’abbondante partecipazione di musicisti del genere. Ciò che invece non è affatto normale (ma solo per europei poco eruditi in materia) è l’enorme successo che questi musicisti riscuotono nei giovani e nei giovanissimi. L’unico aggettivo che ci sembra adatto per spiegare tutto questo è: indescrivibile. Nel senso che solo un viaggetto da queste parti può illuminare le nostre menti ottenebrate da troppi pregiudizi. Qualche esempio? Una string band di quattro ragazzi del Colorado, chiamata Younder Mountain String Band, ha suonato di fronte a una platea di circa 40mila scatenati ventenni, battendo la concorrenza del palco principale che offriva, in quel momento, l’esibizione dei resuscitati Black Crowes (vedi box a pagina 61).

All’affollatissimo concerto di Bela Fleck Acoustic Trio sapevamo che avremmo visto il più grande banjoista vivente. Ma ciò che non sapevamo era che avremmo sentito un chitarrista, Bryan Sutton, talmente bravo da entusiasmarci come ragazzini al primo concerto. Potremmo inoltre parlarvi di due giovani band che hanno un successo incredibile tra i teenager, che si chiamano rispettivamente Old Crow Medicine Show e Old 97’s e che suonano bluegrass con l’energia di un gruppo grunge. Ma parlare in questi casi serve a poco. Qui bisogna toccare con mano, ascoltare l’urlo della folla che esplode ad ogni assolo. Assordante sotto le tende. Folgorante come la prova di affetto che il pubblico ha offerto a un mito vivente come Earl Scruggs. L’anziano musicista si è esibito con un fantastico gruppo di amici che hanno dato prova di tecnica sopraffina regalando un concerto davvero indimenticabile. Il legame tra il giovane pubblico e la musica delle origini è apparso quasi commovente.

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Sing Me A Song: i cantautori

Due ex busker australiani hanno rapito la nostra attenzione: Xavier Rudd e John Butler. Il primo è uno strano tipo, selvaggio nell’aspetto, che propone un incrocio tra la musica di Bob Marley e quella di Ben Harper. Canta e suona la chitarra, le percussioni, l’armonica e il didgeridoo e la sua musica evoca continenti lontani. Meno magnetico ma altrettanto interessante è John Butler, californiano di nascita ma australiano d’adozione. Nel mondo è ancora abbastanza sconosciuto nonostante in Australia sia entrato anche in classifica. Ha sorpreso per la tecnica chitarristica e per l’abilità nel mischiare generi a volte davvero lontani tra loro. Si è esibito con un trio acustico e anche in lui è parsa piuttosto evidente l’influenza di Ben Harper.

I songwriter di casa erano ben rappresentati da Samuel Beam, artista originario del sud della Florida, che si nasconde dietro lo pseudonimo di Iron & Wine. Pensavamo di vederlo accompagnato dalla sola chitarra e invece si è presentato con un inatteso quintetto acustico. Le atmosfere delicate, che rimandano al vecchio Sud hanno evocato suggestioni old time in una performance sognante che si è rannuvolata solo durante una bella rilettura di Mr. Soul (Neil Young).

Per concludere citiamo la piacevole performance di Ray LaMontagne, cantautore dalla voce “nera” che ha sorpreso per la capacità di interpretare brani dall’inconfondibile sapore folk.

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