Sporting Club di Montecarlo, 18 luglio 2005.
Sono le 22.15. La direttrice del Salone Des Etoiles si avvicina al mio tavolo e in perfetto inglese domanda: “Mr. Aldo Pedron, right? Would you please follow me backstage? Mr. Wilson is just waiting for you”. Well. Brian Wilson mi aspetta in camerino. Non è un sogno: a sei anni di distanza dal nostro primo incontro, nella quiete della sua residenza californiana a Beverly Hills, ho di nuovo l’occasione di conversare con il Genio del pop. Ma c’è un problema: l’aria condizionata del locale monegasco è a livelli di tortura. Mia moglie Grazia ha resistito per un paio d’ore (siamo nel locale dalle 20, per la cena di gala e i concerti degli opening act) ma poi, giustamente, ha deciso che non c’era motivo di continuare a soffrire. Così è scesa nel parcheggio, per recuperare il maglioncino lasciato in macchina. Se me ne vado senza di lei, mi uccide.
Decido allora di prendere tempo con la gentile direttrice; le dico che di lì a poco avrei raggiunto il backstage. Intanto, chiamo mia moglie. La prego di far presto. Dieci minuti dopo, squilla il mio cellulare: è Scott Alexander, road manager di BW che mi chiede che fine ho fatto. In quel momento arriva Grazia e insieme ci rechiamo nel retro palco.
Brian è lì, in piedi, ad aspettarci, già vestito con l’abito di scena. È molto più alto e corpulento di quel che ricordassi: lo trovo in grande forma. Lui ci accoglie calorosamente con un abbraccio.
“Hai notizie di David?” chiede subito. David è David Leaf, il più accreditato biografo dei Beach Boys e, da una ventina d’anni, consigliere fidato di Brian. Nonché, o meglio soprattutto, giornalista musicale, autore e producer televisivo di successo.
“Sì” gli dico “ci siamo sentiti nel pomeriggio. Siamo d’accordo di vederci tra un paio di giorni a Ravenna”. Ravenna sarà la prima delle due tappe del tour italiano. Lì, David e Eva Leaf insieme a Melinda Ledbetter Wilson (sua seconda moglie dal 1995) si riuniranno a BW.
Brian è agitato. David, più di una volta, mi ha confidato che, quando la moglie non è con lui, Brian non è tranquillo. Mi pare di intuire che anche la presenza di David Leaf possa essere un elemento rassicurante. Scott Alexander, probabilmente, lo sa e mi usa come diversivo pre concerto.
“Ti piace il mio nuovo disco?” mi chiede in modo pleonastico mentre il manager ci scatta qualche foto. David Leaf, da anni, gli dice che sui Beach Boys ne so più di lui e così si fida di me. Anche per questo, BW inizia a confidarmi una serie di chicche che, nel corso della settimana, si rivelano preziosissime.
“Enjoy the show” mi dice accomiatandosi. Quando ci lasciamo gli strappo la promessa di rivederlo nel giro di due giorni. Tornati al tavolo, io e Grazia ci sediamo per assistere al concerto che inizia con l’ingresso di Brian e della sua band su un palco montato su due rotaie. Mr. Wilson è seduto di fronte alla tastiera. Appare visibilmente teso nonostante le note di Do It Again, Barbara Ann e Dance, Dance Dance, primi brani in scaletta, scorrano fluide. La band, guidata dall’arrangiatore, polistrumentista Darian Sahanaja e dal fido chitarrista Jeffrey Foskett, è semplicemente sensazionale. Gli arrangiamenti ricalcano, con formidabile pertinenza stilistica, le versioni originali. Ma sono suonati meglio. Le voci, poi, sono eccezionali. Anche Brian, da questo punto di vista, non delude: canta davvero bene anche se mostra qualche incertezza sulle parole delle canzoni (lo sorprendo più di una vota sbirciare sul prompter i testi dei brani). Il pubblico, vestito elegantemente, si lascia andare nei più grandi hit dei Beach (I Get Around, California Girls, Do You Wanna Dance), assiste compiaciuto ai capolavori di Pet Sounds (Wouldn’t It Be Nice, Sloop John B, God Only Knows) e va in sollucchero per classici immortali come Heroes And Villains, Good Vibrations, Surfin’ Usa o Fun Fun Fun che chiudono il concerto.
“È il mio momento” mi dice BW due giorni dopo, seduti al tavolo di un ristorante di Fiesole. In effetti, in poco più di un anno, Brian ha pubblicato un disco con brani inediti (il bellissimo Gettin’ In Over My Head), ha registrato ex novo (ma con gli arrangiamenti originali) il leggendario “lost album” Smile, ha fatto uscire uno spettacolare doppio dvd (vedi JAM 118) con uno splendido documentario firmato da David Leaf e il concerto di Smile registrato ad hoc. Lo scorso gennaio, poi, ha presentato un nuovo modello di basso (Brian Wilson Valley Arts Signature Model) e il 13 febbraio ha pure ricevuto un Grammy (Best Rock Instrumental Performance) per il brano Mrs. O’Leary (“Magari non è proprio il mio capolavoro” mi confida “ma va bene lo stesso”).
Ma non è finita.
Il 18 ottobre, negli Usa, esce un album natalizio (vedi box a pagina 62): What I Really Want For Christmas. “E poi” svela con entusiasmo “sono pronto a fare un disco di rock’n’roll. Non si tratterà di cover di pezzi dei Fifties” precisa “sono canzoni composte da me nel classico stile degli anni 50. Non escludo di inserire qualche pezzo scritto insieme ai vecchi compagni dei Beach Boys: Alan Jardine, Bruce Johnston, Mike Love”.
Mike Love. questa è una notizia. Brian ha perso nel 1994 una lunga e durissima battaglia legale proprio contro Love. Risultato: 5 milioni di dollari d’indennizzo e obbligo di doppia firma su una trentina di brani tra i quali California Girls, Dance, Dance, Dance, Wouldn’t It Be Nice.
“M’avesse dato retta” sostiene David Leaf “non sarebbe successo. Quella di Mike Love è stata una truffa: Brian non era ancora uscito dalle grinfie del Dr. Eugene Landy (lo psichiatra che, secondo molti, lo ha plagiato tra la fine degli anni 80 e i primi 90, nda), aveva conosciuto da poco Melinda e forse necessitava maggiore sostegno”.
David Leaf è il mio consulente speciale su Brian Wilson e dintorni. Non è solo un’autorità dal punto di vista storico-musicale; David segue, ormai passo a passo, la carriera di Wilson e, sono certo, ne influenza scelte e strategie artistiche. È anche colui che conferma (o in qualche caso smentisce) le dichiarazioni che Brian mi rilascia; come quelle avvenute nel corso della lunga conversazione avuta nel backstage di Ravenna, mentre la band faceva il soundcheck per il concerto della sera. Una vera e propria messe di curiosità, alcune già note (“I migliori album dei Beach Boys? Smile e Pet Sounds”), altre meno ovvie (“Ecco i miei tre album preferiti di tutti i tempi: Sgt. Pepper’s dei Beatles, il Christmas Album di Phil Spector e Sail Away di Randy Newman. Ho imparato le armonie vocali dai Four Freshmen ma Phil Spector resta il mio guru tra i compositori/arrangiatori”), altre ancora mai sentite prima (“Le due canzoni che mi hanno influenzato maggiormente sono state invece Rock Around The Clock di Bill Haley e Earth Angel dei Penguins, un quartetto di colore di Los Angeles”). Brian, inoltre, aggiunge che non pubblicherà (per ora) la sua originale versione lenta e suggestiva di Proud Mary e che altre cover di classici a lui attribuite (tipo Gimme Some Lovin’) non sono mai state neppure incise.
Wilson risponde tranquillamente alle mie curiosità. È rilassato e, in concerto a Ravenna, lo dimostra. Lo spettacolo è assai migliore di quello di Montecarlo e Brian stesso sembra più tonico. In scaletta, anche pezzi diversi rispetto al concerto monegasco tra cui una trascinante Johnny B. Goode, che dà il via al blocco dei cinque bis. Il pubblico del Pala De André è partecipe e coinvolto
Sono tre i bus che trasportano Brian Wilson e il suo entourage: uno per i tecnici, uno per la band e uno per Brian e Melinda (nel quale trovano posto anche Scott Alexander e il chitarrista Jeffrey Foskett). Finito il concerto di Ravenna, partono tutti per Roma.
Cappella Sistina, Città del Vaticano, 22 luglio.
Ore 9.30. Squilla il telefono. David Leaf ci chiede di raggiungerli ai Musei Vaticani. Ci vediamo all’interno dei musei e poco dopo, sotto la volta michelangiolesca della Cappella Sistina, scorgiamo la famiglia di Brian (oltre ai coniugi Wilson ci sono la figlia adottiva Daria e la sua tutor mentre gli altri due figlioli Dylan e Delanie sono rimasti in California). Osservare Brian che guarda ammirato gli affreschi di Michelangelo mi fa una certa impressione e penso a quanto due forme d’espressione artistiche, apparentemente così diverse e così lontane nel tempo, hanno forse in comune molto più di quanto uno possa pensare. Insieme, visitiamo la Pietà, la tomba di Giovanni Paolo II, la Basilica di San Pietro. Melinda scatta foto a raffica e compra l’impossibile mentre Brian cammina tutto il pomeriggio con disinvoltura fermandosi, di volta in volta, di fronte alle meraviglie artistiche del Vaticano.
Visto in mezzo a tanta gente, BW appare timidissimo. A volte, persino infantile. Stare con la figlia Daria fa bene al suo spirito ed è attività, per lui, quasi terapeutica. Eppure, quando mi chiede in continuazione caramelle (che scarta nervosamente, quasi fosse un bambino) fa tanta tenerezza. In quel momento, ritornano in mente le tante debolezze dell’artista, le sue insicurezze professionali (dallo stagefright alla mania competitiva con i Beatles e altre band degli anni 60), i suoi dubbi esistenziali, la sua crisi mistica negli anni 80, il periodo buio al fianco di Eugene Landy. Oggi, a 63 anni, Brian Wilson ha ritrovato energia e coraggio. E lo vedo discretamente a suo agio con qualche fan che lo riconosce in Piazza San Pietro e gli chiede l’autografo. Ma, soprattutto, è assolutamente sciolto sul palco dell’Auditorium per l’ultimo dei suoi concerti italiani. Forse non è la miglior performance complessiva (Ravenna è stato lo show migliore) ma, a Roma, Brian è lanciatissimo: si alza dallo sgabello, balla, si diverte. Questo George Gershwin dei nostri tempi, questo moderno Leonard Bernstein (che, non a caso, aveva affermato che Surf’s Up era la sua canzone preferita), questo Orson Welles del rock rinasce a 63 anni suonati: the Pop Genius is back.
(L’autore ringrazia David e Eva Leaf, Scott Alexander e, in particolar modo, Jean Sievers)