08/07/2015

British Summer Time

The Who e Paul Weller grandi protagonisti di una giornata memorabile per la kermesse britannica
Anche quest’estate ad Hyde Park si è tenuto il British Summer Time Festival, con quattro serate divise in due weekend e come headliners tre grandi protagonisti del rock (The Strokes, Blur e The Who) e un’ultima serata decisamente pop con Taylor Swift.
 

Assistiamo alla terza tappa, che prima dello show degli Who, ha visto altri grandi eccellenti ospiti britannici (Gaz Coombes, Johnny Marr, Kaiser Chiefs e Paul Weller).

  
GAZ COOMBES
  
Set piuttosto breve per l’ex cantante dei Supergrass, con solo 7 canzoni, tutte tratte dai suoi due album solisti, senza concessioni alla carriera passata. In verità 6 delle 7 canzoni che propone Coombes sono tratte dall’ultimo lavoro, Matador, uscito a gennaio 2015. Sono brani dalle atmosfere spesso acustiche (The Girl Who Fell To Earth, Detroit), con ricorso a sample di elettronica e drum machine (Buffalo, Matador). La melodia struggente del ritornello di 20/20 è probabilmente tra le migliori del suo set, insieme alla sperimentazione elettronica di The English Ruse. Coombes dimostra ancora le sue ottime capacità vocali e ha una bella coesione con la nuova band, resta però il sospetto che, se riformasse i Supergrass, non sarebbe confinato ad esibirsi alle 15 di pomeriggio.
 
JOHNNY MARR
 
In tema di ex, subito dopo è il turno dell’ex-Smiths Johnny Marr. Apertura affidata a uno dei suoi migliori brani solisti, The Right Thing Right (del 2013), e più avanti propone anche le più recenti Easy Money e 25 Hours. I boati arrivano però sui brani degli Smiths, come il super classico There Is A Light That Never Goes Out, che il pubblico inglese canta a squarciagola dall’inizio alla fine. O quando intona il riff inconfondibile d’apertura di Stop Me If You Think You’ve Heard This One Before che, certo, non interpreta come farebbe Morissey, ma porta a casa più che dignitosamente. Nel finale c’è spazio anche per una “disco song”, come dice introducendo il brano, la bella Getting Away With It del suo periodo con gli Electronic (collaborazione con Bernard Sumner dei New Order), e per una cover infiammata di I Fought The Law. L’ultimissimo brano del suo, piuttosto breve, set è la splendida How Soon Is Now?, B-side degli Smiths divenuta però un classico, con quel “I am the son and heir, of nothing in particular” che è un emblema del loro nichilismo. E il pubblico dimostra di ricordarla ancora molto bene.

KAISER CHIEFS
 
I Kaiser Chiefs sono il gruppo di più recente formazione di tutta la serata e, in un certo senso, si vede. Sono quelli che più di tutti si scatenano sul palco e intrattengono il pubblico, cercando di animarlo nel caldissimo (incredibile a dirsi!) pomeriggio londinese, con frequenti grida del tipo “are you ready for The Who?”. Passano dai brani più famosi (Ruby, Everyday I Love You Less And Less, Never Miss A Beat, I Predict A Riot) ad altri tratti dall’album più recente, Education, Education, Education and War, a quanto pare tratto da una citazione di Tony Blair del 2005. Canzoni meno energiche rispetto ai singoli che li hanno resi famosi e più orientate a una sorta di ‘arena rock’ (Coming Home, Ruffians on Parade, Misery Company). Tengono benissimo la scena, lanciandosi anche in una parodia/tributo dei singalong col pubblico tipici di Freddie Mercury. E i brani che lasciano più il segno sono quelli di energico punk-rock misto ad elettronica come Everything Is Average Nowadays, The Angry Mob e Modern Way, ottimi ritratti, anche dal punto di vista dei testi, della vita moderna inglese.
  
PAUL WELLER
 
Prima degli Who tocca alla classe infinita di Paul Weller scaldare il pubblico. Già l’inizio con The Changingman (dal capolavoro Stanley Road del 1995) mostra un Weller in grandissima forma, con la solita band capitanata da Steve Cradock degli Ocean Colour Scene alla chitarra e Ben Gordelier che unisce in maniera impressionante batteria e backing vocals. C’è spazio per molti classici della carriera solista di Weller: i capisaldi anni ’90 come Porcelain Gods, Friday Street e Peacock Suit, il rock energico di From The Floorboards Up, i momenti soul di grande classe (You Do Something To Me, Broken Stones). Anche il suo nuovo album (Saturns Pattern, uscito a maggio 2015) trova grande spazio, tra il quasi-punk di Long Time, l’hard rock di White Sky e le ballate Going My Way, I’m Where I Should Be e la title-track (con tanto di atmosfere gospel, sottolineate dalle coriste africane in sottofondo). Naturalmente, anche nel suo caso, i boati maggiori da parte del pubblico arrivano quando intona i brani dei The Jam. Sono tre in tutto: una versione tiratissima di That’s Entertainment (con ospite speciale Miles Kane all’acustica), il divertissement Beatlesiano di Start! e, in chiusura di esibizione, la mitica Town Called Malice.
 
THE WHO
 
Lo show degli Who è chiaramente il più atteso della serata, ma anche quello che lascia le emozioni più contrastanti. Da un lato la sensazione di essere di fronte a uno dei gruppi che, più di tutti, ha letteralmente creato il rock così come lo conosciamo e che potrebbe essere ormai ai suoi ultimi concerti. Dall’altra quella di uno show senz’altro ottimo e ben costruito, ma con un gruppo che non regala più le esibizioni infuocate per cui era celebre. I classici ci sono tutti, dai più vecchi (I Can’t Explain, I Can See For Miles, The Kids Are Alright, Pictures Of Lily su tutti) ai brani granitici di Who’s Next, come la ballata Behind Blue Eyes e i riff indimenticabili di Bargain. E c’è spazio per due brani della produzione, spesso sottovalutata, degli anni ’80 (You Better You Bet e una bella versione di Eminence Front, cantata da Townshend) Salta all’occhio la forma vocale purtroppo ormai non perfetta di Roger Daltrey, che spesso sembra risparmiarsi e limitarsi al compito più facile (forse anche in vista della data successiva a Glastonbury, per sostituire i Foo Fighters). Gli acuti di Love Reign O’er Me o Who Are You non sono, forse non potrebbero essere, più quelli di un tempo, e un brano storico come My Generation senz’altro non potrebbero non suonarlo, ma non ha più l’energia e l’impatto di una volta. Il gruppo suona comunque in maniera fenomenale, Pete Townshend è in grande forma (tranne diversi momenti di parlato che, in una location così grande, rischiano di smorzare l’energia), così come è sempre impeccabile la sezione ritmica composta dal basso di Pino Palladino e Zak Starkey alla batteria. I momenti migliori sono probabilmente affidati al finale, con uno splendido medley a tema Tommy (Amazing Journey/Sparks e le immancabili Pinball Wizard e See Me Feel Me). Non siamo a Woodstock, ma il tramonto spettacolare londinese su Hyde Park, sulle note di See Me Feel Me, potrebbero ricordare quell’alba del 1969, immortalata in video. E il duo devastante di Baba O’Riley e Won’t Get Fooled Again mandano tutti a casa felici e soddisfatti. Potrebbe essere, dicevamo, l’ultimo tour degli Who; finché il repertorio è questo, potrebbero in realtà andare avanti per sempre, ma senz’altro non ci si può aspettare la carica impressionante e distruttrice di chitarre di una volta.

    

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