30/03/2007

Buddy Guy

Non il solito Blues – Intervista a Buddy Guy

Country boy, city man: queste le due nuove anime di George Buddy Guy, indiscusso maestro del moderno blues di Chicago. Moderno in senso lato, perché il sound di Buddy Guy è da sempre innovativo, più avanti degli altri, sperimentale pur nel solco della tradizione.

È così da quando arrivò a Chicago negli anni 50 con Magic Sam e Otis Rush per inventare la “nuova onda” della Windy City. Era giovane ma aveva le stimmate del grande bluesman: voce intensa che si stemperava in un falsetto stridulo e stridente, chitarra muscolare dagli assolo brucianti, grande versatilità nello spaziare dal soul al blues più crepuscolare. Sono passati tanti anni, alcuni di oblio, altri (l’ultimo decennio) di straripante successo e, anche se il mondo del rock ha cercato di trasformare Buddy Guy nell’ennesima icona consumistica – facendolo scivolare a tratti in eccessivi istrionismi e in forzature autocelebrative -, il grande chitarrista ha accusato il colpo, ma non è mai andato ko. Non a caso è stato paragonato alla figura di Cassius Clay/Mohammed Ali.

Rinfrancato dagli onori e dai successi commerciali di album come Damn Right I’ve Got The Blues, Feels Like Rain, Slippin’ In, Heavy Love, gratificato dagli splendidi album acustici con Junior Wells, Guy a 65 anni si rimette in gioco tentando la missione impossibile di fondere i suoni del Delta con quelli della Chicago elettrica che lui da sempre frequenta. Non suoni del Delta qualunque però: quelli duri, elettrici, truci, destabilizzanti, ma intimamente legati al country-blues, di personaggi vecchi solo anagraficamente ma dallo spirito indomito come il compianto Junior Kimbrough, T-Model Ford, Robert Cage, Cedell Davis.

Guy spiazza i suoi fan partendo (come ai bei tempi della coppia con Junior Wells) con l’acustica Done Get Old; poi dà il via alla sarabanda che ci coglie piacevolmente impreparati. I suoni al vetriolo degli artisti Fat Possum sono aggrediti selvaggiamente dalla chitarra di Guy: rinasce così con brutale eleganza She’s Got The Devil In Her, il pezzo grezzo e dolente che caratterizza il cacofonico stile di Cedell Davis (i blues del dolore di questo chitarrista poliomielitico bruciano l’anima), deflagra Look What All You Got del già esplosivo T-Model Ford, si agita il fantasma di Junior Kimbrough nelle multiformi Stay All Night, I Gotta Try You Girl, Baby Please Don’t Leave Me. Anche Guy contribuisce a creare l’atmosfera firmando It’s A Jungle Out There.

Per registrare il cd Buddy è andato sul campo, agli studi Sweet Tea di Oxford, Mississippi, a pochi passi dalla casa di R.L. Burnside, dove si compiono molte delle ‘malefatte’ della banda Fat Possum. Al suo fianco, al posto dei raffinati musicisti cui ci aveva abituato, personaggi muscolari come i batteristi Spam (inseparabile compagno di T-Model Ford) e l’eroico Sam Carr, il chitarrista Jimbo Mathus, il pianista Bobby Whitlock.

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Come mai questo inedito matrimonio tra Chicago e Mississippi?
Tutti vogliono rinnovare il blues buttandoci dentro le cose più astruse. Si continua a parlare di blues ma si sente in giro musica che non ha nulla a che vedere con il blues. La cosa più logica è quella di agganciare le due direttrici principali del blues: il Mississippi e Chicago.

Però hai puntato sui cosiddetti nuovi tradizionalisti del Mississippi, musicisti anziani ma con energia da vendere.
Non conoscevo personaggi come Junior Kimbrough o Cedell Davis, ma quando li ho ascoltati sono rimasto folgorato. Suonano l’antica musica del Delta con strumenti elettrici, in modo assordante ma profondamente legato alla tradizione. I loro brani sono la cosa più pura e al contempo moderna che io abbia sentito.

Per questo hai sentito il bisogno di andare in Mississippi?
Sì, volevo respirare quell’atmosfera, toccarla di persona, e questo ha dato un tocco ancora più sincero al disco. Io odio la tecnologia, ma andando laggiù ho capito quanto sono importanti i suoni naturali.

Hai incontrato qualcuno di loro?
Sì, T-Model Ford. Vive in un’altra epoca, in un’epoca senza tempo, è sereno, felice e tutto quello che suona gli esce dal cuore, un cuore che ha vissuto emozioni che io non ho mai provato.

Hai utilizzato Spam, il suo batterista.
Anche lui è un personaggio incredibile. Ha un senso del ritmo tutto suo ma incredibile. È difficile stargli dietro perché non ha logica, ma suona la batteria, i tamburi o un bidone di latta con un’intensità e una rabbia da far impallidire un punk. Sam Carr ha la stessa potenza ma è un po’ più regolare nel beat.

Per una volta hai tradito Chicago.
Se si vuole rinnovare il blues non bisogna mescolarlo ad altri generi: ci sono diversi stili di blues, mettiamo insieme quelli ed otterremo un suono che sposa rinnovamento e tradizione. Se non lo facciamo noi, chi lo deve fare?

Quanto conta la scena blues oggi?
Il blues si vende poco e il music business ha poco interesse a promuoverlo. La vera miniera d’oro è il rap. Non sono contro il rap, anzi, è ricco di idee e messaggi originali, ma ci sono troppi interessi, troppo denaro che gira, troppi personaggi fasulli e inventati solo per moda.

Il blues è solo in crisi o in via di sparizione?
No, anche se siamo in pochi a vendere dischi. Però ci sono centinaia di musicisti attivi, seri, preparati, poco disposti al compromesso. Il blues non è un prodotto di consumo: gli appassionati trovano decine di album interessanti ogni mese. Poi dischi come quello di B.B. King con Eric Clapton aiutano a creare interesse.

Vedi nomi interessanti?
Tanti, tantissimi, anche bianchi, da Jonny Lang, nome già consolidato, a Susan Tedeschi, chitarrista di Boston dalle notevoli qualità. Il blues è un vecchio bambino che deve ancora crescere molto. Lasciatelo in pace, non assillatelo e avrete delle grosse sorprese.

Una ricetta per incentivare il blues?
Prima di tutto sfatare certi luoghi comuni. Il blues non è soltanto una musica triste, o una musica che suonano i poveracci o i disperati. Certo in passato è stato così, ma poi è diventato uno stereotipo che faceva comodo ai bianchi. Il blues può essere anche sofferenza, ma è vita vera, è qualcosa che senti dentro. Un tempo si diceva “ti svegli la mattina, ti senti male e ti accorgi di avere i blues”. La verità è che qualsiasi sentimento o emozione, la gioia come il dolore, fanno nascere il blues. E poi il blues è anche una forma canzone: alcuni tra i più bei blues sono stati scritti da Willie Dixon ed eseguiti da Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Little Walter. Non bisogna vergognarsi dicendo che il blues è una canzone.

Insomma l’immaginario collettivo rovina il blues?
Sì, è una musica che ha sempre avuto una cattiva reputazione, non per nulla la chiamavano musica del diavolo e la contrapponevano a quella eseguita in Chiesa. Ma già quando io arrivai a Chicago, a metà degli anni 50, le cose erano diverse.

Cosa ricordi in particolare di quel periodo?
Ho solo bei ricordi e nessun rimpianto. Ricordo soprattutto Magic Sam, il più grande talento che io abbia mai incontrato. Fu uno dei primi a suonare la chitarra elettrica da solo mescolando accordi e parti soliste come nessuno aveva mai fatto prima. Suonava come un’intera band. Se fosse ancora tra noi avrebbe superato chiunque in popolarità. Non posso dimenticare Muddy Waters, il suo carisma, tutto ciò che mi ha insegnato. Sono fiero di aver suonato con lui in Folk Singer, uno dei più bei dischi blues di sempre.

Jimi Hendrix è stato un tuo allievo?
Io ho sempre suonato alla mia maniera, poi ho scoperto che molti musicisti mi imitavano. Il giorno che uccisero Martin Luther King suonai a New York e in prima fila c’era quel ragazzo con un grosso cappello in testa e una cinepresa tra le mani. Era Jimi e mi disse: “Ho annullato un concerto a Londra per venire a vederti, perché ho rubato un sacco di trucchi e di giri armonici dai tuoi dischi”.
Pochi giorni fa sono venuti gli AC/DC al Legend, il mio club, e alla fine del mio show hanno detto: “Sei il nostro idolo, suoni da Dio”, però.

Però?
Per tornare in pista ti devi affidare ad una rockstar. Io sono tornato nel giro, dopo quasi dodici anni di assenza, grazie a Eric Clapton che mi ha voluto con sé nel tour 24 Nights e nell’omonimo disco. Sono state serate bellissime, una session dietro l’altra con personaggi fantastici come Robert Cray e il povero Stevie Ray Vaughan.

E i tuoi maestri chi sono stati?
Gente sconosciuta, personaggi incontrati lungo la strada e poi, naturalmente, Muddy Waters e Fred McDowell.

McDowell è un maestro dello stile slide, ma tu lo usi pochissimo.
Lui e Earl Hooker erano i migliori e a me non piace essere secondo a nessuno.

Perché così tanti anni fuori dal mercato?
Le case discografiche non volevano scommettere su uno che suonava blues in senso stretto e teneva decine di concerti a Chicago senza accettare compromessi. Poi con Damn Right ci fu la svolta.

Ma qualche compromesso lo hai accettato, un po’ di funk, pezzi di John Fogerty e John Hiatt.
Qualche compromesso bisogna sempre accettarlo. Ma con il nuovo cd ho dimostrato di credere solo nel blues. Sarebbe facile scrivere dieci brani, qualche coretto, un po’ di soul, ritornelli accattivanti, qualche giochetto con la voce e venderei milioni di copie. Ma non voglio più fare porcherie.

Tra i tuoi dischi migliori ci sono quelli acustici in duo con Junior Wells: suonerai ancora acustico?
Sì, ma dovrei trovare un partner del valore di Junior, e credo che sia impossibile. Ci capivamo al volo. Avevamo carriere parallele e a volte non ci vedevamo per mesi ma quando ci incontravamo bastava uno sguardo per tirare fuori dischi magici, a volte quasi per gioco come accadde con l’album dal vivo a Parigi.

In vista una stagione ricca di concerti?
Sì, ad agosto terrò alcuni concerti in America con B.B. King, poi verrò in Europa, a settembre probabilmente sarò in Italia. Vorrei portare anche Spam con me.

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