Era da un paio d’anni che non si avevano più notizie di lui. E già c’era chi si chiedeva che fine aveva fatto quel songwriter ironico e sofisticato che, a metà anni 80, aveva provato a sperimentare nella musica leggera italiana una divertente miscela di pop e swing con qualche spruzzatina esotica. Quella trovata aveva colto nel segno decretando il successo di pezzi (e album relativi) come Un sabato italiano e Italiani Mambo.
Ora, per chi non lo sapesse, quel pubblicitario romano con l’hobby del jazz, is alive and well, come dicono dalle sue parti. Già, perché Sergio Caputo dall’inizio del 2000 vive (beato lui) con la sua famiglia a San Francisco.
Lo incontro a fine luglio, quando fa il suo debutto californiano al Top Of The Mark, un elegante club all’ultimo piano dell’esclusivo Mark Hopkins Hotel di Nob Hill. L’occasione è fornita da un party che il Centro Culturale Italiano ha deciso di organizzare qui. Anche se questo locale, molto chic e con una vista mozzafiato sulla baia, non pare il più adatto ad ospitare musica dal vivo perché, all’acustica infelice, aggiunge un’atmosfera un po’ troppo chiassosa. Così, anche chi lo vorrebbe, non riesce a seguire con la dovuta attenzione l’esibizione di Caputo che pure si presenta accompagnato da un eccellente quartetto jazz con Michael Bluestein al pianoforte, Mark Williams al basso, Deszon Claiborne alla batteria e Charles McNeal, della band di Huey Lewis, al sax. Ed è un peccato, perché coadiuvato da questi bravissimi musicisti, Sergio (con a tracolla una bella Gibson vintage) fa ascoltare diversi suoi cavalli di battaglia arrangiati in modo assai più fresco e intrigante rispetto alle versioni originali. Tra un set e l’altro, c’è anche tempo per una piacevole chiacchierata che inizia, inevitabilmente, con la curiosità di sapere quali sono i motivi che spingono un artista italiano in piena attività a decidere di trasferirsi negli Stati Uniti.
“È stata una scelta di vita”, chiarisce subito Sergio. “Mia moglie è americana. E quando i nostri figli si sono ritrovati in età scolare abbiamo dovuto decidere in quale paese vivere. Abbiamo scelto l’America anche per le opportunità che questo paese offre a chi fa musica. A quel punto abbiamo dato uno sguardo alla mappa per trovare il posto che ci sarebbe potuto piacere di più. Tenendo conto che, a parte il periodo trascorso a Milano, abbiamo sem-pre abitato in posti vicini al mare, San Francisco ci è sembrata la città ideale.”
Inizialmente, tra gli obiettivi di Caputo non c’era quello di rimettersi in gioco come artista. “La mia idea era quella di avviare e gestire uno studio di registrazione. Cosa che per altro ho fatto. Poi, dopo aver conosciuto alcuni jazzisti della Bay Area mi è tornata voglia di suonare. Sono stati loro che, per primi, mi hanno incoraggiato a uscire allo scoperto.”
Così, nel giro di poco tempo, è nata l’idea di produrre un nuovo album. “Sì, è vero. I ragazzi con cui suono mi hanno pungolato facendomi ritrovare l’entusiasmo necessario per scrivere canzoni e lavorare a un disco. Così, pian piano mi sono messo a registrare cose nuove. Sarà un album di brani jazz scritti da me: credo che a una certa età sia giusto poter scegliere di fare la musica che uno si sente addosso. Il lavoro (cantato in inglese) verrà indirizzato al mercato internazionale.
Ovviamente, ci sarà anche una versione in italiano.”
Una bella sfida, non c’è che dire, anche se Caputo non ha perso il contatto con i fan. Il suo sito ufficiale (www.sergiocaputo.com) è attivo e aggiornatissimo. “Ricevo suggerimenti e richieste in numero superiore a quello che mi sarei mai immaginato. Mantengo quoti-dianamente il contatto con il mio pubblico italiano rispondendo personalmente a tutte le e-mail che ricevo. Inoltre, se uno lo desidera, collegandosi on line può ascoltare le varie fasi della registrazione dei nuovi brani oltre ad essere costantemente informato delle attività che mi riguardano.”
Nel website di Caputo si trova una biografia dettagliata in cui si raccontano i momenti essenziali della carriera, dalla prima chitarra (a 13 anni) ai grandi idoli di quando iniziava a suonare rock-blues (Jimi Hendrix, Muddy Waters, Carlos Santana). Ma anche i grandi incontri della sua vita artistica, Dizzie Gillespie su tutti. Allo stesso modo, si può dare un’occhiata veloce alla sua discografia (11 album per un totale di oltre 100 canzoni) iniziata nel 1983 con Un sabato italiano e che vede come (per ora) ultimo capitolo Serenadas del 1998.
“Avevo un contratto con la Cgd”, ricorda, “che poi è stata assorbita dalla Warner. Che ho lasciato passando alla Fonit prima di essere richiamato dalla Cgd dove, poco dopo, sono cambiati i vertici aziendali. Le multinazionali del disco stanno attraversando un momento di grave difficoltà e per gli artisti è difficile instaurare rapporti proficui: gli interlocutori cambiano spesso in modo improvviso. Non vedo vie d’uscita: penso sarà sempre peggio: per fortuna oggi c’è Internet, un mezzo in cui io credo moltissimo.”
Eppure, al di là dell’entusiasmo e delle prospettive, ho la sensazione che per Caputo la ‘scelta californiana’ sia stata tutt’altro che facile. “È stata dura”, dice, “e non solo dal punto di vista professionale. Non avendo la cittadinanza americana, ma solo la green card, ho tutti i problemi che hanno gli immigrati: è difficilissimo fare anche le cose più semplici come avere una carta di credito, guidare un’automobile, com-prare una casa. Gli Usa sono un paese in cui i dollari contano moltissimo, non solo come quantità. È infatti importante avere una storia solida alle spalle. Se arrivi da un altro paese, puoi anche essere una celebrità ma purtroppo devi affrontare un sacco di problemi.”
“Dopo quasi due anni di residenza”, continua Sergio, “sto cominciando ad ambientarmi e posso dire di trovarmi bene. Non ho rimpianti e nemmeno recriminazioni verso il mondo della musica italiana. Vista dall’America, l’Italia appare come un microcosmo con abitudini e regole assolutamente particolari. È un mondo meraviglioso dove, per me, è bello tornare: ma per crescere, professionalmente e umanamente, penso che questa avventura americana sia stata la cosa più giusta da fare. Qui ci sono musicisti straordinari, che per altro mi hanno accettato e con i quali mi sono trovato benissimo. Ho dovuto rinunciare alla popolarità, cosa che da una parte è stata positiva ma che dall’altra mi ha fatto perdere diversi privilegi.”
“È un’esperienza che mi sta arricchendo moltissimo”, conclude Caputo. “Non mi sono dato scadenze e, al tempo stesso, non mi sono nemmeno chiuso alcuna porta. Ad essere sincero, ogni tanto l’Italia mi manca.”
Good luck.