07/05/2013

C+C=Maxigross

Il nuovo folk montanaro guarda all’America, ma viene dalla Lessinia

Prendete il rock psichedelico dei Grateful Dead, la coralità di Crosby Stills Nash & Young, il colore degli Os Mutantes, gli intrecci vocali dei Beach Boys. Portateli sulle montagne della Lessinia, in Veneto. Mischiateli con un sano spirito di provincia, aggiungete un pizzico di giocosità e otterrete qualcosa di simile ai C+C=Maxigross. Anzi no, perché gruppi così nascono per strane coincidenze che nella vita non si ripetono mai due volte. Loro sono al primo album (Ruvain), hanno già fatto una mezza dozzina di concerti negli States e promettono di fare innamorare chi ha consumato i dischi di Fleet Foxes e compagnia folkettara. «Ci fanno impazzire i tour infiniti di una volta», dicono, «la presa diretta, il nastro, le session interminabili di registrazione giorno e notte… la dedizione totale alla musica tipica degli anni ’60».

Folk e psichedelia: quando avete scoperto che questa era la vostra strada?

«È stato tutto molto naturale. Noi C+C siamo nati da quattro anni ormai (anche se il primo ep Singar ha solo due anni). Siamo amici a cui è sempre piaciuto passare le notti a suonare nei prati in estate e davanti al camino d’inverno. Ognuno con le sue influenze e attitudini compositive. Aggiungi che a tutti noi piace cantare e ottieni pezzi totalmente differenti tra di loro legati “solamente” da un’anima folk, un’aura psichedelica e un’esecuzione corale».

Alcuni vostri pezzi hanno un animo giocoso, alla Animal Collective…

«La componente giocosa è un ingrediente fondamentale nelle nostre composizioni. Molte di esse in fase di arrangiamento in sala prove vengono arricchite di dettagli che servono a divertire o destabilizzare l’ascolto: stacchi, strumenti inusuali, citazioni e rimandi, finali a sorpresa. In quanto ai testi, sono molto wilsoniani, nel senso di Brian, il leader/guru dei Beach Boys: la precedenza va al suono delle parole. Ma non significa che non diamo significato ai versi… L’attitudine in realtà è molto personale e difficilmente si potrebbe trovare un filo conduttore tra i nostri testi (scriviamo in cinque): ne abbiamo di quotidiani, come Testi’s Baker / Jung Neil, che parla della routine di un panettiere, Lesha Keyoo See-ya parla di amicizie di convenienza, e ci sono testi più profondi come Pamukkale In E o Ten Dark Wednesday».

Cosa succede alle vostre canzoni dal vivo? Restano come sono o qualcuna si
espande fino a diventare jam come Testi’s Baker / Jung Neil?

«La dilatazione, ma forse più l’improvvisazione è una componente fondamentale dei nostri concerti. Per dire, non capita mai di fare un concerto con la stessa scaletta (capitano addirittura i concerti senza). I pezzi si fondono, si allungano, cambia la formazione, si variano gli assoli e si passa in acustico totale per 2-3 pezzi in mezzo alla gente. Abbiamo una paura cronica di annoiarci».

Ci dite come siete arrivati a suonare negli Stati Uniti? Quante date avete fatto? E dove?

«Siamo arrivati negli USA grazie alla vittoria di Arezzo Wave Love Festival 2012. Tra i premi c’era anche questa data al CMJ Festival di New York. Quindi ad ottobre siamo volati negli States per una settimana, in cui abbiamo collezionato sei date tra NY e Boston. L’esperienza è stata incredibile. Un pubblico diversissimo, che non ti conosce ma molto rispettoso e soprattutto anglofono. I club negli states poi sono incredibili. A NY in particolare si ha l’impressione che si suoni 24 ore al giorno. C’è proprio un pubblico vastissimo e questo permette ai locali di programmare musica in ogni momento della settimana, che sia sabato notte o lunedì ad ora di pranzo. Inoltre è stato importantissimo per stendere una prima rete di contatti oltreoceano: abbiamo conosciuto tanta gente del settore in giro per il festival e per i locali e siamo riusciti a farci trasmettere sulla WMFU, la radio indipendente più importante di NY».

Perché l’inglese come lingua principale?

«Si tratta di una cosa molto spontanea più che di una scelta. È il risultato delle nostre influenze e crediamo che l’inglese abbia un suono più adatto ad accompagnare le nostre melodie. O forse si tratta di una capacità innata di distaccarsi dalle mode, se pensi che da qualche anno nel nostro caro stivale si parla sempre di “svolta in italiano”… Di sicuro per noi cantare in diverse lingue, per quanto non siamo dei linguisti esperti, non è affatto un problema, ma un valore aggiunto all’atmosfera che vogliamo dare a certi pezzi. Perciò oltre a quelli in inglese ce ne sono in spagnolo, italiano e cimbro. E l’ultimo pezzo che abbiamo registrato come bonus track per chi comprava Ruvain in presale era in portoghese».

Il disco è stato in parte registrato e mixato in una casa-studio
di montagna. La descrivete per i nostri lettori?

«La nostra casa in montagna è il nostro rifugio. È un edificio abbastanza isolato da permetterci session musicali senza problemi di volumi e orari. È composta di sala prove permanente e spazio vivibile/casa che in fase di registrazione in una giornata convertiamo in studio di registrazione».

Non lo dico in senso dispregiativo, ma il vostro disco ha qualcosa di
provinciale o addirittura di montanaro…

«La nostra musica nasce in Lessinia, è quindi naturale che se ne senta l’influenza… È musica abituata a spazi aperti, verde, boschi, pascoli, formaggio e vino buono e tempi dilatati. Questo è il valore aggiunto della montagna. Niente studi di registrazione in freddi capannoni di tristi zone industriali. Abbiamo registrato nella sala della nostra casa di montagna con il balcone che dà sulla valle… È capitato di registrare in presa diretta, al buio aspettando la luce dell’alba. Di questo è pregna la nostra musica».

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