04/06/2009

CHICKENFOOT

Lezioni di hard blues

Che tu ci creda o no, questo disco mi ha fatto nuovamente innamorare dei Rolling Stones di Exile On Main Street. Credo che le canzoni dei Chickenfoot possiedano il respiro lungo di quel genere di pezzi. Pezzi che non furono composti per essere dei classici ma che poi, col tempo, lo sono diventati comunque».
A riferirmi queste (belle) parole è Joe Satriani, uno che durante la sua lunghissima carriera da stimato guitar hero è stato l’esatto opposto della filosofia «due dita, cinque corde e uno stronzo che suona» irradiata al mondo intero da un certo Keith Richards. Riconversioni stilistiche a parte, Satch è di passaggio in Italia per parlare del debutto dei Chickenfoot in uscita su Ear Music (la stessa etichetta di mister Ian Gillan), un disco che, ormai, anche le pietre (rotolanti?) sapranno inquadrare come uno degli eventi hard rock del 2009 visto che al suo interno ci suonano lo stesso Satriani, due quarti dei Van Halen più FM oriented (il cantante Sammy Hagar e il bassista Michael Anthony) e un batterista finalmente libero di esprimersi nel suo sfrenato drumming (e non più immolato alla regola fissa del rullante funky) come Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers.
Allora, Joe: come nascono ufficialmente i Chickenfoot?
«Ci siamo incontrati tutti e quattro a Las Vegas nel febbraio del 2008. L’idea era quella di concederci un lungo weekend di alcol e gioco d’azzardo ma poi, trascinati dall’entusiasmo contagioso di Sammy, ci siamo immediatamente messi a jammare con strumenti acustici e ad abbozzare canzoni in una stanza d’albergo. Quella è stata la scintilla principale. Tant’è che, terminata quella breve esperienza nel Nevada, abbiamo deciso di rivederci per finire quello che avevamo cominciato».
E dopo cosa avvenne?
«Beh, io mi sono imbarcato nel tour a supporto del mio disco Professor Satchafunkilus And The Musterion Of Rock (vedi JAM 151, ndr) e, man mano che le date procedevano, ho cominciato a ricevere via mail degli mp3 da Sammy che mi tenevano aggiornato sullo stato dei lavori. A settembre del 2008, durante un periodo di pausa dai nostri rispettivi impegni, ci siamo nuovamente incontrati per rifinire al meglio i brani e compiere una sorta di preproduzione molto proficua. Difatti quando a dicembre siamo definitivamente entrati negli studi Skywalker Sound di Marin County (la reggia sonica del regista George Lucas, a poche miglia da San Francisco, nda) in meno di due settimane l’album era pronto».
Soltanto a quel punto vi siete accorti di essere ancora privi di un contratto discografico…
«Già, ma allo stesso tempo non ci andava di firmare con una grossa major visto che i Chickenfoot non sono il genere di gruppo della serie prendi i soldi e scappa. Abbiamo preferito autoprodurci il disco da soli e poi darlo in licenza a Best Buy in America (la catena di megastore, nda) e alla Ear Music qui in Europa. Ripeto: l’integrità della nostra proposta è sempre stata al primo posto degli obbiettivi artistici dei Chickenfoot».
Da dove salta fuori un nome così bizzarro? Avrà mica a che fare con le fatidiche zampe di gallina contro cui combattono tutti i musicisti di mezza età?
«(Accenna una breve risata, nda) No, fortunatamente le rughe non c’entrano. La verità è che, circa una decina di anni fa, Sammy aveva messo su questo fun project chiamato per l’appunto Chickenfoot, che non è mai andato oltre qualche concertino sporadico tra amici… Il nome era una sorta di tributo al voodoo che si pratica dalle parti di New Orleans».
Che ci azzeccano i Chickenfoot con gli emo-rocker o con le band di cartapesta che fuoriescono dai talent show televisivi?
«Niente, assolutamente niente. Il nostro, infatti, è più un disco per feticisti del vinile: hai presente quell’oggetto nero e rotondo che negli anni 60 e 70 ci ha regalato la più bella musica popolare del secolo scorso? Ecco, i Chickenfoot appartengono a quella tradizione lì. Dai Led Zeppelin, per esempio, abbiamo preso l’assoluta imprevedibilità dei loro canovacci blues. Di Hendrix, invece, ho sempre adorato lo strapotere nel passare con naturalezza da una cover di Buddy Guy a un ardito esperimento psichedelico. Degli Stones ti dicevo prima… E, comunque, che senso avrebbe avuto incidere un disco adagiato sulle ritmiche funk dei Red Hot Chili Peppers o sulle chitarre iperboliche di Eddie Van Halen? Quella roba lasciamola a chi l’ha inventata. Sulla lavagna del nostro studio c’era una regola calcata a chiare lettere col gesso: niente eccessi! E difatti nei pezzi dei Chickenfoot non senti tutto quel fracasso elettrico che di solito faccio nei miei album solisti (ride, nda). Molti critici ci hanno già bollato in partenza come supergruppo ma la definizione non è esatta: qui stiamo parlando semplicemente di quattro rocker che si divertono a suonare musica originale. E a comporre canzoni democratiche…».
Prego?
«Sì, ho detto proprio democratiche. Le canzoni dei Chickenfoot sono esclusivamente basate su voce, chitarra, basso e batteria. Sai, non ci interessava avere sonorità alla moda o cinque o sei opzioni d’arrangiamento per piacere ai direttori delle radio FM… Al massimo ci importava che ognuno di noi facesse il suo compito a puntino. Quando ci incontravamo in studio, Sammy portava i testi e le melodie vocali, io lo scheletro delle chitarre e Michael e Chad una solida sezione ritmica: tutto qui. Quando ci ritrovavamo un pezzo puro tra le mani, correvamo nell’altra sala a registralo. Naturalezza e velocità sono state le parole chiave dietro a un album come Chickenfoot».
Tutto il contrario, quindi, del Satriani prestato in passato ai Deep Purple o a Mick Jagger…
«Sono esempi che non prenderei nemmeno in considerazione visto che i Chickenfoot sono un vero gruppo mentre, nei due casi che hai appena citato, mi limitavo a ricoprire un ruolo e basta. Ho ottimi ricordi del tour con Mick (tenuto nel 1988, nda) ma si capiva lontano un miglio che lui, chiamando me, cercava solo un chitarrista tuttofare in grado di replicare, a turno, sia lo stile di Keith Richards che quello di Mick Taylor. Con i Deep Purple, invece, sono corso in aiuto dei miei amici Ian Gillan e Roger Glover dopo che Blackmore li aveva piantati in asso alla vigilia di un importante tour giapponese nell’autunno del ‘93. In quel caso ho cercato di non personalizzare troppo gli assoli perché quella era roba composta in origine da Ritchie e i fan volevano sentire esattamente quella sequenze di note. In fondo era un loro diritto sacrosanto».
I Chickenfoot faranno altri dischi?
«L’obbiettivo è quello visto che abbiamo lasciato fuori un mucchio di materiale da quest’album di debutto: roba tosta che ci piacerebbe, prima o poi, farvi ascoltare… Però, allo stesso tempo, il gruppo è estremamente sensibile agli impegni di Chad Smith e se nel 2010 i Red Hot Chili Peppers dovessero decidere di tornare on the road, vorrà dire che i Chickenfoot si prenderanno a loro volta una pausa a tempo indeterminato. Io, nel frattempo, potrei approfittarne per pubblicare il mio nuovo disco solista e Sammy tornerebbe senza problemi a produrre dell’ottima tequila (ha un’avviata attività nel campo degli alcolici con la sua azienda Cabo Wabo, nda). Ma per ora concentriamoci sul tour. Sicuramente suoneremo tutto Chickenfoot più alcune cover tratte dai nostri rispettivi repertori. Sai, sarà divertente, a un certo punto dello show, vedere Michael Anthony tramutarsi in Flea e il sottoscritto fare le veci di John Frusciante».
Non ti ho ancora chiesto quali sono i tuoi dischi preferiti dei Van Halen e dei Red Hot Chili Peppers…
«Wow, bella domanda. Onestamente non esiste un’opera dei Van Halen che non abbia incontrato il mio assoluto gradimento. Forse l’unica che non mi va giù è quella con Gary Cherone alla voce (il debole Van Halen III del ‘98, nda) ma tra la formazione guidata da David Lee Roth e quella di Hagar c’è solo l’imbarazzo della scelta. Per quanto riguarda i Red Hot Chili Peppers, invece, non posso che prediligere la loro fase più funk, album tipo Mother’s Milk e Blood Sugar Sex Magik. Come? Ho provato ad ascoltare anche Stadium Arcadium ma, dopo quattro brani, mi perdo: in quel doppio album c’è davvero troppa musica».
Ai Coldplay, al contrario, è bastata una sola canzone per mandarti su tutte le furie…
«Ehm, ti riferisci forse al presunto plagio tra la mia If I Could Fly del 2004 e la loro Viva La Vida dell’anno scorso?».
Proprio a quello.
«Allora preferisco lasciare al pubblico l’ardua sentenza. Tu sei convinto che loro mi abbiano palesemente copiato? Grazie tante, ma sono la persona meno indicata per darti ragione. Sai, suonerebbe così pretenzioso da parte mia…».

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