20/03/2007

Crossroad

Dove si incrociano le strade di Eric Clapton e J.J. Cale


Le vite professionali di Eric Clapton e J.J. Cale viaggiano per lungo tempo parallele senza incontrarsi veramente fino al 2004, anno in cui Slowhand mette in piedi Crossroads, festival chitarristico che utilizza Dallas come base organizzativa. Alla manifestazione destinata a durare tre giorni partecipa l’elite dei chitarristi rock e Clapton chiama anche il vecchio maestro: J.J. accetta di buon grado e in cambio invita Eric sul palco ad accompagnarlo. Per tutto il set, a dimostrazione della stima per Cale, Clapton si pone al suo servizio come fosse un membro della band. È uno splendido modo per fare conoscenza e approfondire la neonata amicizia; Clapton prende al volo l’occasione per chiedere a Cale se vuole produrgli un album che ha già in testa e che vorrebbe realizzare proprio alla maniera del maestro, con quello stile insinuante, quasi sussurrato che da sempre lo caratterizza. I due cominciano a lavorare e appena il progetto inizia a decollare in perfetto accordo sugli sviluppi delle canzoni decidono per una co-produzione: The Road To Escondido è ormai cosa fatta.

Ci sono voluti più di trent’anni prima che il destino permettesse loro di incrociarsi (buffo pensare che l’occasione si sia presentata con il nome di Crossroads), ma come spesso succede l’attesa ha permesso la giusta maturazione per la genesi di un lavoro davvero piacevole. L’album non è un capolavoro perché non è niente di veramente nuovo, ma è molto interessante perché presenta una sorta di sintesi della storia musicale americana del secolo scorso in cui riescono a convivere tra di loro le matrici country, rock e naturalmente blues incastonate in una ragnatela di leggerezza che è poi l’anima del pop più intrigante. Delle quattordici canzoni di The Road To Escondido, undici sono state scritte da Cale, Three Little Girls porta la firma di Clapton, Hard To Thrill quella di John Mayer e soltanto una, Sporting Life Blues, è una blues cover. Cale e Clapton suonano e cantano in tutte le tracce e si fanno accompagnare da una band di autentiche stelle. Basta guardare la lista degli ospiti alla chitarra per rimanere a bocca spalancata: si susseguono nomi come Doyle Bramhall II e Derek Trucks, il primo regolarmente presente da anni in tutti gli appuntamenti che vedono in qualche modo impegnato Clapton, il secondo, giovane star nascente del rock-blues, ha aperto i concerti dello stesso Slowhand nel tour della scorsa estate, e poi ancora John Mayer e Albert Lee che via via si aggiungono nelle tracce che seguono. Non mancano poi altri nomi eclatanti come quello del mitico Taj Mahal che ci delizia in alcuni brani con il suono della sua armonica, Nathan East e Pino Palladino al basso, Steve Jordan alla batteria e una serie di altri grandi musicisti che si alternano al violino, tastiere e addirittura una sezione fiati. Da citare infine in modo particolare Billy Preston (a cui è dedicato l’album) che prima della sua scomparsa regala la sua arte al piano e all’organo.

Il brano di apertura è Danger e da qui si capisce subito la natura del lavoro che in qualche modo finisce per essere un omaggio allo stile di J.J. L’attacco ritmico, affidato all’organo Hammond di Preston e sostenuto dal suono secco della batteria, introduce la chitarra di Clapton che si sintonizza su un incedere pigro, ma capace di essere insinuante. Il suono si amplifica man mano che esce e fluisce dolce nel respiro come aria tiepida di prima estate. Clapton lavora soprattutto sulla parte solista e dà il solito tocco di classe reprimendo il classico effetto chitarra piangente a favore di un suono più trattenuto e soffuso. Bisogna aspettare il terzo brano, Missing Person, per incontrare finalmente il blues e anche qui la lezione di Cale prende decisamente il sopravvento sulla primigenia tentazione claptoniana; è così anche per la successiva When This War Is Over, che si caratterizza però per un pathos maggiore, e per il classico Sporting Life Blues, pure virato in versione Cale. Dead End Road introduce in modo delicato una ritmica prossima al country che troveremo poi diffusa anche altrove, e Three Little Girls e Who Am I Telling You sono le ballate lente in cui Clapton dà il meglio della sua interpretazione vocale: la prima con l’intervento di Taj Mahal all’armonica a modulare i tempi, costruita su quello stile che veniva tanto bene ai Beatles, l’altra dolce e ammiccante, incorniciata dalle tastiere di Cale. Il rock’n’roll lo troviamo invece in Ride The River (scelto come primo singolo) in cui i ritmi si fanno decisamente più sostenuti grazie anche all’armonica a bocca che fraseggia splendidamente sui coretti di stampo country e alle chitarre che gridano le loro ragioni spalleggiate da una ritmica incalzante, e in Anyway The Wind Blows, quasi un rockabilly con il basso che, alla vecchia maniera, dà il tempo e fa girare tutto intorno a sé, chitarre comprese, che solo ogni tanto riescono a perforare la cappa della ritmica per volare alte nei loro solo. Da citare infine la bella Last Will And Testament caratterizzata ancora una volta dai solo brillanti di Clapton, tutti puntualmente allineati allo stile “denso” di Cale.

 

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The Road To Escondido, per Eric Clapton, è in qualche modo un cerchio che si chiude, un percorso iniziato nei primi anni 70, quando vive a New York e sente per la prima volta parlare di Cale da Delaney e Bonnie Bramlett, musicisti con cui si esibisce dopo i trascorsi fastosi, ma difficili, con Cream e Blind Faith e nel cui giro circolano strumentisti con cui avrebbe costantemente collaborato in futuro. J.J. Cale verso la fine degli anni 60 è stato chitarrista della band dei Bramlett e questi ultimi serbano un buon ricordo del musicista dallo stile vocale sussurrato e suggeriscono a Clapton di ascoltarlo attentamente. È qui che comincia l’interesse di Eric per lo stile di J.J., anzi ne rimane talmente impressionato che vuole inserire nel suo primo lavoro solista il brano di Cale After Midnight, e anche se paradossalmente è proprio questo pezzo a conferire particolare successo all’album, Clapton è distratto da altri progetti e per un po’ lascia perdere l’esperienza solista. Si fa coinvolgere dal suo amico George Harrison che sta organizzando il concerto benefico per il Bangla Desh e dà vita all’ennesimo supergruppo, Derek & The Dominos, con Duane Allman, Jim Gordon, Carl Radle (conterraneo e amico di J.J. Cale) e Barry Whitlock come musicisti di supporto.

Seri problemi di tossicodipendenza tengono Clapton lontano dalle scene e bisogna quindi attendere il 1974 prima di vederlo tornare in sala d’incisione e dare definitivamente inizio alla sua carriera solista. Lo stile di Clapton attenua il rigore bluesy del passato e concepisce sempre più un modo di suonare solcato da venature soul e comunque disposto ai compromessi del pop che se da una parte fa arricciare il naso ai vecchi fan, dall’altro gliene fa acquisire molti altri affascinati dal nuovo corso. Eric non ha dimenticato la lezione di J.J. Cale e nel 1976 ha finalmente l’occasione di andarlo a sentire dal vivo al London Hammersmith Odeon dove presenta il suo nuovo lavoro, Troubadour. Ancora una volta rimane affascinato dal suo stile e in particolare viene colpito da una canzone, Cocaine, che l’anno successivo deciderà di pubblicare su Slowhand. Cale sembra non essere particolarmente interessato all’ammirazione di Clapton e al successo che ottiene facendo delle cover dei suoi pezzi. In un’intervista fattagli in quel periodo a questo proposito risponde: “Non faccio molto caso a quel che succede nel mondo della musica finché non arriva sulle frequenze delle radio di Tulsa”, la sua città natale in Oklahoma.

J.J. è un tipo schivo che vive al di fuori dei riflettori e raramente commenta le scelte dei suoi epigoni. Oltre a Clapton infatti proprio in quegli anni emerge Mark Knopfler che con i suoi Dire Straits scala rapidamente le classifiche emulando lo stile morbido e ipnotico della sua chitarra.

Per tutti gli anni 80 Cale si dimostra pago del successo che ottiene tra il pubblico di culto e della considerazione artistica guadagnata nella decade precedente, per cui si ritira sempre più a riccio nella sua riservatezza dando alle stampe, nella prima metà del decennio, quasi un album all’anno salvo poi diradare sempre più la produzione negli anni successivi.

L’incontro con Clapton, che ha dato luogo alla realizzazione di The Road To Escondido potrebbe essere l’occasione per una nuova feconda resurrezione musicale da tempo attesa. Dalle dichiarazioni rilasciate, Cale appare in una veste insolitamente brillante: “Eric e io ci siamo conosciuti per molto tempo a distanza ed ora è un grande evento riuscire a fare finalmente un disco insieme. Lui è un magnifico musicista ed è stato un grande piacere poter lavorare spalla a spalla a un progetto comune”.

Dal canto suo Clapton non delude le aspettative e proclama: “La realizzazione di questo disco potrebbe essere la mia ultima ambizione di musicista. Non ci sono parole che possano definire la mia gioia per aver potuto lavorare con la persona che più di qualsiasi altra mi ha ispirato. Sono così felice che già vorrei cominciare a pensare a un altro disco con lui”.

 

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