24/05/2007

Diario di un vagabondo

Manu Chao

La scorsa primavera Manu Chao ha collaudato in America Latina la potenzialità che può esprimere mettendo in piedi un tour. Come ai tempi della Mano Negra. Lo ha fatto peregrinando tra i mille problemi di un continente dove le cose sembrano non dover cambiare mai, perennemente legate a un destino maledetto di povertà e repressione.

E lo ha fatto durante mesi importantissimi per la vita socio-politica dei paesi che attraversava, una stagione che, per esempio, ha registrato la privatizzazione dell’acqua in Bolivia, la cura del Fondo Monetario Internazionale in Argentina e la dollarizzazione in Equador. Manu ha attraversato questi paesi calandosi nelle diverse reltà che incontrava. Un viaggio attraverso la tristezza e la speranza di un mondo dove gli spazi di discorso pubblico e le possibilità di contaminazioni tra linguaggi sono molto difficili, perché la tendenza è quella di produrre silenzio, ammutolimento, la chiusura degli occhi.

È in questa America Latina che Manu ha celebrato concerti oceanici, come quello in Placa Zocalo, nella capitale messicana, ma anche esibizioni per poche centinaie di persone, per una scelta mirata che lo ha portato a suonare in precise situazioni come una università occupata o una assemblea di lavoratori.

Il segnale che ne ha ricevuto deve essere stato positivo perché oggi Manu Chao si appresta a girare l’Europa con la sua banda. In Italia suonerà prima a Genova, il 20 giugno, nella città che un mese dopo diventerà la capitale del popolo di Seattle per le contromanifestazioni legate al meeting dei G8. Il giorno dopo in piazza del Duomo a Milano in occasione della giornata della musica, e poi a luglio Roma (10), sulle montagne friulane al Tarvisio (12), nel Salento a Melpignano (27) e il primo settembre a Bologna.

In aprile, di passaggio a Milano per promuovere il nuovo disco, ha tenuto un mini-live, on air, nell’auditorium Demetrio Stratos di Radio Popolare e sempre a Milano si è incontrato con gli studenti di Scienze Politiche dell’Università Statale. Due ottime occasioni per fare il punto sul Manu Chao pensiero: opportunità importante perché ormai in molti oltre che un ottimo musicista e un buon cantante lo considerano un intellettuale a tutto tondo. Il patois che Manu ha utilizzato in questi due incontri pubblici è già una precisa indicazione di quanto abbia capitalizzato con la spedizione amerindia. Una mezcla di francese, portoghese, spagnolo, portignol: in sostanza una vera e propria lingua partorita durante questo peregrinare latino.

“In pratica ho attraversato tutti i paesi dell’America Latina, tranne Paraguay e Guyana. Come sempre non so quello che cerco con i miei viaggi, vado avanti perché sono curioso per natura. E mi guardo intorno: purtroppo la situazione sta peggiorando, dappertutto. Anche in quei paesi come l’Argentina dove la situazione, economicamente, sino a qualche anno fa era accettabile. Quello che mi spaventa è che non ho trovato un solo posto dove ci sia in atto un miglioramento. Gli Stati Uniti continuano a dire che oggi va tutto bene perché, eccetto Cuba, non ci sono più dittature e la democrazia finalmente regna sovrana. Ma è una grossa ipocrisia.”

Nel nuovo disco Proxima Estacion: Esperanza, nonostante questa analisi spietata sulla situazione politica del globo, c’è però una maggior dose di ottimismo rispetto al precedente. “Ancora adesso sono stupito per come è andato bene Clandestino: un lavoro molto triste, molto sofferto, pieno della solitudine che mi avvolgeva in quel momento. Oggi viviamo in una situazione dove c’è poco da stare allegri: il futuro non promette niente di buono. Però in America Latina ho trovato anche la ‘speranza’, ho visto che c’è una reazione contro la realtà che ci circonda. A volte si tratta solo di piccole gocce, ma sono tornato cambiato da questi viaggi proprio perchè ho trovato la speranza. L’ho trovata per esempio in Bolivia, dove hanno inventato una nuova tecnica per fare le barricate in mezzo alla strada. In una canzone del nuovo album, El Dorado, racconto di come anni fa, durante una lotta del movimento dei sinterra nel nord est del Brasile, vennero ucciso 19 persone che avevano issato una barricate. Oggi le fanno in modo diverso: ogni indigeno mette una grossa pietra e per 200 chilometri lungo la Panamericana trovi un masso e un indigeno. Con questa tecnica anche se mandano l’esercito è molto più difficile ripetere una strage. E la speranza l’ho trovata nella scelta coraggiosa degli operai di una fabbrica argentina che hanno deciso di provare a gestire una autoproduzione dopo che il padrone ne aveva dichiarato il fallimento. La cosa che più mi ha stupito è che loro lasciavano la chiave dello stabilimento a disposizione dei giovani perché potessero organizzare ogni sera un concerto o altri eventi culturali.

“In Cile ho trovato la speranza addirittura in un carcere di massima sicurezza in cui i condannati hanno da scontare da 90 a 120 anni. Gente rinchiusa per motivi politici, come i militanti del Fronte Lautaro reclusi per reati commessi quando lottavano contro Pinochet. Teoricamente potrebbero essere scarcerati, ma il governo socialista, forse per fare un piacere all’esercito, si rifiuta di farlo. Noi tutti, almeno simbolicamente, vorremmo vedere Pinochet dietro le sbarre, ma al massimo gli daranno una cella d’oro. Allora perché non si baratta la galera di Pinochet con la libertà di queste persone? L’incontro che ho avuto con loro mi ha cambiato perché è gente molto ‘nobile’ che, anche se si trovano in quella situazione, sanno dare un messaggio di speranza. Con loro ho parlato delle differenze che si riscontrano, in giro per il mondo, nei vari sistemi carcerari. Fortunatamente io non ho avuto un’esperienza diretta, come detenuto, se non per pochi giorni. Ma ho visitato le galere francesi, svizzere, in America Latina: ognuna è un mondo diverso. Io ho raccontato ai prigionieri che quelle elvetiche sono più tolleranti di quelle cilene: per esempio i detenuti possono uscire la sera. Ma nei loro visi non ho letto invidia, con orgoglio hanno sostenuto che per poter uscire alla sera probabilmente i detenuti svizzeri hanno dovuto scendere a patti con i loro carcerieri. Calare le braghe. E questa è una condizione che la loro dignità non potrà mai accettare. Uno di loro era un poeta e mi ha letto alcuni suoi versi sulla vita dei giudici. L’aveva spedita a quello che lo aveva condannato e in cambio il giudice gli ha aggiunto dieci anni di pena. Ma ridendo mi ha spiegato che non era un grosso problema: passare da novanta a cento anni di condanna la sostanza non cambia. Quando un anno fa ho visitato questi detenuti erano in buona salute, purtroppo da due mesi stanno facendo lo sciopero della fame e non vorrei che la situazione degenerasse come sta succedendo in Turchia. Sono rimasto sconvolto da alcune immagini che ho visto sulla situazione penitenziaria di quel paese. Un dramma che coinvolge sia i detenuti che i loro familiari. In entrambi i casi c’è gente che sta morendo per lo sciopero della fame.”

Nonostante il suo repertorio comprenda brani come Denia (una commovente canzone, che troviamo nel nuovo album, dedicata alla drammatica situazione algerina) Manu non ha mai fatto direttamente politica come i suoi colleghi francesi degli Zebda, che nelle recenti elezioni amministrative hanno fondato un movimento che a Tolosa ha raccolto quasi il 10% dei voti. Ma durante i suoi viaggi è molto attento a quello che lo circonda. Non è una rock star che sale e scende da un aereo senza rendersi conto di dov’è. In Messico, per esempio, ha trovato il tempo di farsi un’idea sul Comandante Marcos e lo zapatismo. “A dicembre ho avuto la fortuna di visitare il Chiapas e ho vissuto con gli indios condividendone la quotidianità. Ho conosciuto anche il Sub Comandante. Mentre ci andavo avevo paura di ricevere una delusione: capita spesso quando visiti sul campo una situazione che hai mitizzato. Non è andata così e sono tornato ancora più convinto che la loro causa è giusta. Probabilmente senza il Chiapas non ci sarebbe stato Seattle e tutto il movimento che ne è conseguito.”

Questi viaggi gli hanno permesso di mettere a fuoco il grosso pericolo che minaccia l’umanità in questo periodo, il nemico da temere. Un concetto che torna spesso nel suo discorrere e che illustra con passione. “La mafia è la ‘cosa’ che più mi preoccupa, è il vero problema di questo nuovo secolo. Sono convinto che il potere sia gestito da una dittatura molto feroce. È un’analisi che vale non solo per l’America Latina, ma anche per l’Africa, per la stessa Europa. Mi riferisco alla dittatura della mafia, una dittatura che spesso si nasconde dietro la democrazia.”

A fronte di analisi precise come questa è però difficile anche per Manu, come per molti altri artisti, mettere perfettamente a fuoco il grado di politicità della sua musica e decidere una strategia nei rapporti con lo show business. “In America Latina Clandestino è stato considerato un album molto politico, mentre in Germania è solo un lavoro di pop esotico. Anche per me, tranne la title-track, non era un disco politico. Mi piace che ci siano diverse letture della mia musica. Il problema era cosa fare con il nuovo disco, quello che esce adesso. Ovviamente non è di problemi di natura commerciali che parlo. Proxima Estacion: Esperanza venderà molto: lo farà per inerzia. Avrebbe venduto anche se avessi inciso una merda perché arriva dopo un successo come Clandestino (che nel mondo ha venduto 4 milioni di copie, di cui 300.000 in Italia, nda).”

“Il business funziona così, anche se a me non va bene. Allora ho deciso di non fare un disco politico, di non commercializzare le mie idee. L’essere ribelle è spesso un’operazione di marketing, per vendere della merce e non voglio cadere in questa trappola. Mi considero un artigiano della musica e voglio fare quello che mi piace. Ho deciso di tenere le due cose separate anche perché sono convinto che oggi l’unica rivoluzione possibile è quella che ognuno può realizzare con se stesso. Un individuo si deve preoccupare di sé e di quello con cui convive: la sua famiglia, il suo barrio. Se tutti contribuissero a cambiare il proprio quartiere si farebbe come in Bolivia: tante pietre hanno reso imbattile la barricata.”

“Io vedo questo come una gara tra due macchine. Una è guidata dalla pazzia, è una sorta di macchina suicida. Come diceva una canzone dei Mano Negra ‘… quando la terra trema nessuno si salva’. Nella macchina che c’è dietro c’è invece gente che dice che non possiamo continuare così e io spero che sia questa macchina a vincere. Il problema è che spesso noi siamo dentro a tutte e due le macchine. Per questo dobbiamo essere noi a fare delle scelte personali precise: giorno dopo giorno.”

Anche la sua produzione artistica è una sorta di mosaico che si compone giorno dopo giorno, una sorta di work in progress pernicioso in quanto spesso l’indomani si scompone ciò che era stato creato il giorno prima. “Quando devo fare un disco la cosa più difficile è dire ‘Basta. Fermiamoci e registriamo’. Ogni giorno le canzoni hanno un’anima differente, le eseguo in una forma totalmente stravolta rispetto a quella del giorno prima. Se entrassi in una sala di incisione oggi, con le stesse canzoni che sono state registrate un mese fa, farei un disco totalmente differente. Non saprei dire se lo farei più bello, di sicuro diverso. Devo confessare che è anche un problema di memoria, non mi ricordo come le ho fatte in precedenza.”

Non ha tentennamenti invece nel dare un giudizio preciso sul problema della musica in rete. Conscio che alcune canzoni del suo nuovo album sono scaricabili già da qualche settimana, con ampio anticipo sull’uscita del nuovo cd, non ha alcuna difficoltà ad ammettere che “sono consapevole che dal momento in cui esco da uno studio di registrazione perdo il controllo della mia musica. Posso farlo mentre registro, a lavoro ultimato diventa praticamente impossibile. Questa situazione a me, personalmente, non crea alcun problema. Sono infatti convinto che Napster possa essere un problema per i musicisti che non sono in grado di vivere solo con la loro musica. Per gente come me, cioè tutti quegli artisti che sono già famosi, non penso sia un problema. Se qualcuno prende la mia musica da Napster non mi cambia la vita, ho soldi ha sufficienza per vivere e, quello che più conta, per comprarmi i biglietti d’aereo per girare per il mondo. Penso anche che gran parte della responsabilità di questa situazione sia imputabile alle case discografiche. Se la musica non costasse così tanto, se i cd avessero dei prezzi più contenuti, Napster e anche tutto il mercato legato alla pirateria, avrebbe dei grossi problemi a garantirsi dei fatturati come quelli attuali. Sotto questo punto di vista penso anche che grazie a Internet presto si potranno avere dei prezzi più popolari, perché le multinazionali della musica sono oggi costrette a misurarsi con la rete.”

E a proposito di case discografiche Manu confessa che continua ad essere tentato di fondare una sua etichetta, anche se si rende conto che prima ha molti problemi da risolvere. “Per me è una specie di sogno. Per ora penso di non aver la capacità di gestire una organizzazione simile. Ho poco tempo e una grossa necessità di gestire bene la mia vita. Il mio è un problema di organizzazione, devo darmi prima una regolata e poi forse potrò realizzare questo mio sogno.”

Non è l’unico; da tempo Manu ne coltiva un altro. Ripetere un’avventura come quella che ha vissuto, quasi dieci anni fa, con il treno del ghiaccio in Colombia. Mille chilometri attraverso le zone più calde del Paese, quelle infestate da Narcos, guerriglieri e zanzare. Un viaggio, durato quasi un anno, che seguiva le orme dello zingaro Melquìades di Cent’anni di solitudine e ne perseguiva lo stesso obbiettivo: portare il ghiaccio a Macondo. Un azzardo compiuto realizzando il sogno di riabilitare al trasporto passeggeri un tratto della ferrovia colombiana, allora in disuso, che anni prima era stata costruita da colonialisti e bananieri per facilitare i loro traffici commerciali. Un’avventura in compagnia dei suoi colleghi della Mano Negra, di decine di musicisti patchankeri, di trapezisti, tatuatori, ninhos da rua in cerca d’affetto e di Roberto, un’enorme iguana che sputava fuoco sulle folle. Un’epopea mirabilmente raccontata da Ramòn Chao, il padre di Manu, in La Mano Negra in Colombia, un libro disponibile anche in Italia nella edizione curata da Silvia Ballestra (Ritmi Theoria).

La nuova meta che Manu sogna da tempo è in Africa: la discesa su un barcone del fiume Niger, ma è consapevole che una serie di ostacoli ne impediscono la realizzazione a breve. “Per ora continua ad essere solo un sogno: per quest’estate l’idea originale era proprio di andare a suonare in Africa, poi invece ho deciso di fare un tour europeo. Il problema più grande è quello del finanziamento dell’avventura africana. Non ci sono soldi in Africa e gli unici soldi che ci hanno proposto per lavorare lì non sono accettabili. O era denaro offertoci da mafiosi o sponsorizzazioni che arrivavano dalla Francia. La Francia è stata fonte di un mare di disgrazie per quel continente e non ci sembrava proprio il caso di accettare quelle proposte. L’idea è di fare soldi con il tour europeo per poi andare in Africa senza aver bisogno di un tour ufficiale e organizzarci qualcosa di totalmente nostro.”

Anche su temi differenti, ma altrettanto scottanti, Manu Chao opta per la chiarezza. “Nelle mie canzoni capita che parli della marijuana. È da anni che combatto per la sua legalizzazione, ma lo faccio anche per tutte le altre droghe. Eroina compresa. Non perché ci si possa tutti bucare di più, semplicemente per togliere questi soldi alla mafia. Sono convinto che tutti i capitali che arrivano dalla droga vanno a costituire i fondi neri dei governi, fondi che servono a finanziare le dittature che sono oggi al potere: le dittature della mafia.”

“Uno dei problemi più gravi delle società occidentali è quello dei clandestini. La realtà è che il primo mondo non ha mai voluto aiutare il terzo mondo. Anche se di colpo oggi tutti decidessero di cancellare il debito ci vorrebbero quaranta, cinquant’anni perché ormai la situazione è veramente catastrofica: si è distrutto il terzo mondo. Se si insegnasse a questi paesi a sfamare i propri cittadini queste persone non arriverebbero qua: se stessero bene nei loro paesi non li abbandonerebbero. Vengono solo per necessità: è una malattia cronica. È un po’ come l’argomento della droga: si dice che non si vogliono i clandestini, che non bisogna farli entrare. In realtà serve proprio che loro rimangano tali: senza documenti non possono aver nessuna copertura sindacale, possono lavorare a metà prezzo. Oggi l’Europa e l’America li sfruttano per poter essere competitivi con i paesi asiatici dove la manodopera costa molto meno. Sono dei veri e propri schiavi moderni.”

Diretta conseguenza di questi ragionamenti sull’agenda di Manu Chao c’è una data che non compare nel tour ufficiale. Se a metà luglio durante le contromanifestazioni genovesi per il meeting dei G8 vedete una persona, che indossa strane divise di squadre di calcio sudamericane e che imbraccia una chitarra, fermatevi ad ascoltarlo: potrebbe essere Manu Chao che regala ai manifestanti alcune sue canzoni.

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