04/02/2011

DIETRO IL MURO

Con Roger Waters nel backstage di The Wall

IL MURO DELLA PAURA

Il nuovo spirito politico e umanitario di The Wall

Di Claudio Todesco

The Wall cessò d’essere l’incubo di un singolo uomo il 2 maggio 1980. Quel giorno il governo del Sud Africa mise al bando il singolo Another Brick In The Wall Part 2 che spopolava in Europa e negli Stati Uniti. Nata sulla scorta delle esperienze scolastiche di Roger Waters senza alcuna pretesa di universalità, la canzone era diventata l’inno degli studenti di colore contro l’ineguaglianza del sistema educativo nel regime di apartheid. Fino a quel momento il concept dei Pink Floyd era la discesa nelle paure e nel carattere gelido e inumano di una rock star, un’esperienza difficilmente ripetibile dalla massa di ascoltatori che aveva comprato e apprezzato il 33 giri. Quel che accadde in Sud Africa dimostrò che le metafore allineate nell’opera andavano oltre il significato attribuito dal loro autore. «Trent’anni fa, quando scrissi The Wall», ha detto di recente Waters, «ero un giovane impaurito. Nel corso degli anni ho cominciato a pensare che forse la storia della mia paura e delle mie perdite, con l’inevitabile residuo di ridicolo, vergogna e punizione che l’accompagna, offre un’allegoria di più ampio respiro: nazionalismo, razzismo, discriminazione sessuale, religione, qualunque cosa. Tutti questi problemi e questi ismi sono spinti dalle stesse paure che hanno informato la mia gioventù».
Scatenate da musiche incredibilmente vivide e da testi diretti, forze emotive potenti erano all’opera. Le stesse forze che nel luglio 1990 piegarono la metafora del muro agli eventi di Berlino e spinsero Waters a rimettere in scena il suo capolavoro nella terra di nessuno che separava non solo metaforicamente l’Europa occidentale da quella orientale. Sono due precedenti importanti per capire la nuova rappresentazione di The Wall. Se il concept è ancora rilevante, e Waters ne è fermamente convinto, è per via della flessibilità e del carattere pervasivo del suo immaginario. Non è revival. Non è, come dire, l’esecuzione di un’opera antica da parte di un’orchestra nuova. Senza perdere forza e diluirsi in un brodo di significati estranei, The Wall sta dimostrando la sua longevità – un fatto notevole considerato il refrain di molti critici secondo cui «la gente non è interessata ai tormenti di un milionario». Oggi il muro di Waters è il luogo dove vengono proiettati – non solo metaforicamente – i temi della contemporaneità. La Seconda guerra mondiale, che in The Final Cut era già traslata nel conflitto delle Falklands, oggi è Afghanistan oppure Iraq. La madre oppressiva e soffocante di Mother somiglia al governo. Il muro d’incomunicabilità che separa Pink dai suoi simili è la barriera invisibile ma efficacissima che divide popoli e religioni, e il muro di informazioni eretto dai mass media che ci confonde, e l’insieme di nozioni e pregiudizi che nascondono la verità delle cose. Il conflitto interiore di un singolo – «l’ego trip finale di Roger Waters», scrissero all’epoca – si trasfigura nella coscienza collettiva. Nel 2011 The Wall è un racconto politico e umanitario.

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!