Va in giro che pare un reduce della grande guerra. L’uniforme rosso vivo s’abbina a pantaloni scozzesi e a un berretto da soldato semplice, a volte all’elmo puntuto dell’esercito prussiano. Oppure indossa casacca di tela grezza e canottiera bianca da contadino inglese d’inizio secolo. Due lunghi baffi gli solcano il viso.
L’eccentricità di Billy Childish è voluta, ma non affettata. È un travestimento di scena, non diverso dai completi dei mod degli Who. È il frutto della passione per la Storia, quella con la esse maiuscola. Ma è pure uno stemma di diversità, un ammiccamento egocentrico alla vecchia, bizzarra Inghilterra. Non il frutto d’un moto nostalgico, ma la misura della distanza tra l’artista e la società contemporanea, tra un sistema di valori antico e la vacua volgarità che ci circonda. Childish si vanta di non possedere un televisore e di non leggere i giornali. E così è la sua musica: un’esibizione orgogliosa e testarda di diversità acquisita tramite il recupero delle forme più elementari di beat, rhythm & blues, folk, blues e punk-rock, tant’è che i suoi dischi suonano come se fossero stati incisi nel 1963. E se avete già letto la definizione a proposito dei White Stripes, è perché il duo americano adora Billy.
In Italia Childish è un emerito sconosciuto – lo abbiamo visto esibirsi davanti a un centinaio di persone allo Spazio 211 di Torino – mentre in Inghilterra fa parlare di sé da alcuni anni per le raccolte di poesie, gli album, i dipinti. Lì del resto possono capire meglio la sua eccentricità: così britannica, così legata alla cultura di lassù. Non che Billy sia una star: l’establishment non ne ha mai riconosciuto appieno il talento. Lui commenta seccamente: “Mi rifiuto di diventare famoso”. Il personaggio coltiva una distanza purificatrice dalle cose, che unisce a un’estetica che deve tutto da una parte al rhythm & blues inglese degli anni 60, dall’altra al punk-rock dei 70, cui aggiunge la ferrea convinzione che si debba restare vicini alle radici per creare musica con uno straccio d’autenticità. “Vedi” mi dice nei camerini dello Spazio “uno stile dà il meglio appena nato: è il momento dell’espressione pura e vibrante. Quando diventa sofisticato e consapevole si fa noioso e formulaico”. Sarà mica passatismo? “Se una cosa non è moderna né cool, significa che non è utile? Siamo nell’era degli oggetti usa e getta, ed è una pazzia. Pensa alle registrazioni audio: hanno distrutto i nastri analogici per poi sviluppare tecniche di registrazione digitali che cercano di riprodurre il suono analogico. Hanno demolito i pub vittoriani per costruire locali nuovi di zecca che cercano di riprodurre l’ambiente di un pub vittoriano. Siamo come quei mariti che lavorano sette giorni su sette affinché le mogli possano ridecorare la cucina ogni 12 mesi. Siamo stupidi”.
A differenza di decine e decine d’altri musicisti che si rifanno alle medesime fonti, Childish riesce a colmare la distanza tra un suono semplicemente trascurato e uno vividamente caotico. Il punto non è spogliarsi di ogni ambizione estetizzante, un fatto comunque necessario per uno che fa quella musica. Il punto è arrivare a quel sound. Il punto non è suonare le chitarre, ma gli amplificatori. “La gente lo scorda: la musica è suono. Persino i musicisti non sono più interessati al suono e ne demandano il controllo ai tecnici”. È una filosofia, questa, che è giunta a maturazione in anni recenti. Il suo ultimo gruppo, in particolare, si chiama Musicians Of The British Empire: ancora la vecchia, bizzarra Inghilterra. Il batterista è il fidato Wolf Howard, il cui stile agile e dinamico è plasmato su quelli di Mitch Mitchell e Keith Moon. La bassista è Nurse Julie, stile elementare e voce sguaiata. Il concerto che portano in giro è una sintesi del Childish-pensiero: garage punk in cui metà dei pezzi sono cover (formidabile Fire di Hendrix) e metà sono originali che si rifanno senza falsi pudori all’epoca del rhythm & blues inglese, più qualche intermezzo poetico e un paio di canzoni a cappella (John The Revelator), urlate quasi saturando gli ampli. “Non abbiamo regole sull’uso di strumenti vintage. Ritengo sia possibile usare un equipaggiamento moderno e avere un sound decente. Certo, è più difficile per gli amplificatori – non sono molti quelli moderni che suonano bene – e per i microfoni che devono essere valvolari. In genere non è una questione di regole, ma di buon senso. Devi ascoltare la canzone e cercare di capire che cosa essa richiede. Lo stesso ragionamento vale quando dipingo: i quadri migliori nascono quando metto poco me stesso e cerco di prestare ascolto a quello che il quadro mi suggerisce. Meno ego è coinvolto, più le cose saranno come dovrebbe essere: questa è la creatività”.
L’ultimo lavoro di Billy Childish coi Musicians Of The British Empire s’intitola Christmas 1979 ed è l’unico album natalizio che potete ascoltare in agosto senza sentirvi stupidi. È uscito contemporaneamente a The Xfm Sessions, un live radiofonico inciso col gruppo precedente, i Buff Medways. Sono solo le ultime tappe di una storia iniziata trent’anni fa. Fu il punk a far capire a Childish che poteva esprimere quel che sentiva tramite la musica pur essendo un totale incapace. “Il mio credo: non nasconderti dietro la celebrità, sii felice di restare piccolo, comunica col pubblico che ti è di fronte. Resta ancorato a ciò che è elementare. Musica fatta in casa, ecco di cos’abbiamo bisogno. Se hai una buona bistecca, non hai bisogno di salsa. Se hai una buona canzone, non hai bisogno di un arrangiamento elaborato. Una canzone è come una relazione sentimentale: dovrebbe essere semplice, non complicata”.
Dai tardi anni 70 a oggi, dai Pop Rivets ai Buff Medways passando per Milkshakes, Thee Mighty Caesars e Thee Headcoats, Childish ha pubblicato una settantina di album rigorosamente autoprodotti, una mole di lavoro che ha conquistato pochi adepti, ma se non altro quei pochi sono accaniti. Negli ultimi 15 anni musicisti influenti come Kurt Cobain e Beck (ma anche i Mudhoney, Jon Spencer, Robert Plant, Graham Coxon e… Kylie Minogue) hanno dichiarato la loro stima per Billy. “Ogni tanto qualcuno dice di ammirami? Bene. Ma non sono una pop star, io. Sto fuori dalle mode. Le mode sono un mezzo per vendere beni di consumo”. Il rapporto con Jack White fa storia a sé. Il chitarrista dei White Stripes ha più volte espresso la propria ammirazione per Childish, è andato a incidere negli studi dove lui ha registrato, ha usato persino lo stesso grafico per le copertine dei dischi, ha duettato con la “protetta” di Billy, Holly Golightly. Childish non è mai sembrato particolarmente impressionato. Quando Jack lo ha accusato via stampa di rubacchiare canzoni altrui, Billy ha risposto per le rime. Fine dell’idillio. “Prendere musiche dagli altri è un fatto vitale” afferma oggi l’inglese. “Quel che non si dovrebbe fare è nascondere le influenze, far finta di niente. È un fatto piuttosto naturale nel blues e nel folk. E Jack White dovrebbe saperlo, giacché ama il blues ed è un fan dei Led Zeppelin”. Già, ma dov’è il confine tra plagio e interpretazione creativa? Dobbiamo forse demitizzare l’atto creativo? “La musica è sempre stata una combinazione di elementi. Quando scrisse You Really Got Me, Ray Davies dei Kinks stava cercando di fare la sua versione di Louie Louie. Perciò sono molto aperto alla possibilità di prendere in prestito suoni, idee e melodie, l’importante è che alla fine al tuo lavoro complessivo sia riconosciuta una certa originalità”. Childish c’è riuscito, ma è stato un processo lungo e doloroso. Nato nel 1959 a Chatham, nel Kent, è la tipica mela marcia del sistema educativo. Dislessico, rifiutato da una scuola d’arte, ha lavorato come tagliapietre presso i cantieri navali della città. Per una quindicina d’anni ha vissuto grazie ai sussidi statali. Non nasconde d’essere stato a lungo un alcolista, di avere subito abusi sessuali da parte di un amico di famiglia, d’essere stato maltrattato dal padre, esperienze che racconta nel romanzo autobiografico My Fault. È un libro duro, animato da grandi dosi di rabbia e memoria. Ma quello è il passato. Oggi Childish fa yoga e afferma che la vita è un viaggio spirituale. Eppure la sua persona ancora mantiene una nota grezza, una durezza ineliminabile che è anche nella sua musica e nella sua arte. Ed è questa selvatichezza che ne preserva lo spirito. “Non è detto che continui a far musica” confessa. “Dopodomani compio 48 anni. Non sono più interessato allo stile di vita rock’n’roll”. Quando smetterà l’uniforme e poggerà la chitarra, il rock inglese perderà uno dei suoi soldati più coraggiosi. Che Dio salvi Billy Childish.