26/02/2013

Donald Fagen

«Deve essere funky», ha preteso Donald Fagen. E così è stato: funk elegante in un prezioso gioco di equilibri strumentali

«Everything Donald does has got to be funky» è stato l’ordine di scuderia col quale Donald Fagen ha aperto le porte dello studio di registrazione per Sunken Condos. E funk è stato, ma alla maniera di Fagen. Chiariamo subito le cose, questo è un disco di ricercatissimi ed eleganti equilibri fondati sull’asse Fagen-Herrington-Leonhart: il funk leggero e accattivante di Slinky Thing, ad esempio, svela nota dopo nota il vibrafono di Michael Leonhart che ben presto copre l’intera canzone con la stessa delicatezza di un velo di seta. La furba I’m Not The Same Without You lentamente mostra i muscoli sfoggiando una linea di fiati che sembra uscita da una grande orchestra del dopoguerra e duella elegantemente con l’armonica di William Galison (Barbra Streisand, Astrud Gilberto, Ruth Brown).

Sono equilibri, ripeto, complessità, che rimandano agli anni in cui la coppia degli Steely Dan Fagen-Becker sviluppava il senso e stabiliva la misura della canzone pop americana: dopo quei dischi di metà anni ’70 nulla fu più lo stesso ed è proprio a quelle atmosfere che Fagen strizza l’occhio quando apre il blues urbano di Weather In My Head e sommesso canta «Magari possono sistemare il clima globale come ha detto Mr. Gore / Ma dimmi che cosa si può fare, Signore, per il clima nella mia testa», ed è subito New York, è subito il blues funky elettrico dei primi Crusaders che si sposa alla maestosità della sezione fiati con la stessa sinuosità degli Steely Dan. Miss Marlene è così invitante, così immediata nel suo sensuale shuffle che quasi ci sorprende la linea dei fiati così kentoniana quando si inserisce e offre il destro a un ispirato Jon Herrington, mentre tocca a Kurt Rosenwinkel gigioneggiare sul ritmo di Planet d’Rhonda con la stessa padronanza e dolcezza di un moderno Phil Upchurch.

Ci sono tante strade che si intersecano in un disco di Donald Fagen e in Sunken Condos ci sono proprio tutte: c’è il jazz progressive che affonda i piedi nel blues elettrico e urbano dei primi ’70, ma ci sono anche le grandi orchestre di Basie ed Ellington che rendono sontuoso anche il più nervoso dei funk. Incrociare Donald Fagen, lungo la nostra – di strada – è come trovare un segnale lungo un sentiero. Seguire quel segnale significa perdersi in un caleidoscopio di suoni, riferimenti e citazioni. Accade ogni volta che esce un suo disco ed è accaduto anche stavolta quando, emozionati e commossi, ci siamo felicemente persi di nuovo.

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