Oxford, metà anni 60. È un pomeriggio come tanti, Mrs. Hare sta sorseggiando una tazza di tè in attesa che arrivi uno dei suoi studenti di pianoforte. Quando sente bussare guarda l’orologio e pensa: «Strano, oggi è in perfetto orario». James Hugh Calum Laurie ha 6 anni, prende lezioni da circa tre mesi, ma non promette niente di buono. Non che non sia capace, ma è svogliato, non si applica.
Del resto, come dargli torto? Da tre lunghi mesi sta arrancando tra le pagine di quel noiosissimo Elementary Piano Book One e, nella sua testa, quella gentile signora ha ormai assunto le sembianze di una strega spietata col viso pieno di verruche, che lo costringe a camminare «a mani nude» sui carboni ardenti che ha perfidamente sostituito ai tasti di quel vecchio pianoforte.
Oggi, però, il piccolo Hugh sembra stranamente eccitato. Cerca di non darlo a vedere ma ha un’aria impaziente, come se fosse in procinto di risolvere un misterioso e complesso enigma: nella sua testa c’è un punto interrogativo che lo tormenta fin dalla prima lezione, e col passare del tempo si è trasformato in un oscuro vortice capace di alimentare e al tempo stesso risucchiare la sua fervida immaginazione.
La risposta a tutte le sue domande è nascosta tra le pagine di quel noioso manuale, e più precisamente tra le note di Swanee River (una composizione di Stephen Foster che sugli spartiti originali viene indicata col titolo Old Folks At Home – Ethiopian Melody). Le lezioni di piano sono un vero strazio, ma quando il ragazzino ha scovato quel brano i suoi occhi si sono illuminati e da quel giorno si è sottoposto pazientemente alla tortura dei carboni ardenti in attesa di scoprire la misteriosa melodia custodita in quella pagina. C’è qualcosa di estremamente affascinante nel sottotitolo del brano: ma come si fa ad essere così attratti da poche parole di cui, per altro, non si conosce nemmeno il significato? È proprio questo il mistero, e oggi la vecchia strega, dopo una serie infinita di strazianti ninnananne francesi e bizzarre melodie polacche, sarà finalmente costretta a svelarlo. Il gran giorno è arrivato: il giovane Hugh è sotto una specie di incantesimo e non immagina nemmeno quale brutto tiro abbia in serbo per lui la perfida Mrs. Hare.
La donna apre il libro alla tanto agognata pagina, inforca i suoi buffi occhialini e legge ad alta voce: «Swanee River. Negro Spiritual – Leggermente sincopato».
Immediatamente il suo peloso labbro superiore si contorce in una smorfia di disgusto: «Oh, povera me…». Senza pensarci un attimo volta pagina e appare Le tigre et l’elephant. Il suo volto si rasserena, ma negli occhi del giovane Hugh si può leggere un’espressione di terrore. Il ragazzino è sull’orlo di un incubo senza fine, non ci sono più ancore di salvezza all’orizzonte, e così decide: «Oggi sarà comunque un gran giorno… il giorno in cui metterò fine alla mia schiavitù musicale».
Poco tempo dopo, a salvarlo definitivamente dall’oblio ci penserà un’altra canzone: un tale di nome Willie Dixon lo raggiungerà attraverso le onde radio sulle note di I Can’t Quit You Baby, e gli farà sentire il canto delle sirene blues che cambierà per sempre la sua vita.
Crescendo, Hugh si innamorerà anche del teatro, della commedia e da grande diventerà uno dei più pagati attori della televisione americana, ma il blues rimarrà per sempre la sua ombra e lo “tormenterà” fino a quando non si deciderà a trovare il coraggio di guardarlo dritto negli occhi e affrontarlo tra i solchi di un disco.
New Orleans, marzo 2011. Mr. Laurie ha 51 anni ma dentro di sé è ancora eccitato come quel ragazzino di 6 anni il giorno in cui ha scoperto la musica blues. È emozionatissimo: sta per dare il primo vero concerto della sua vita nel cuore pulsante della leggendaria Big Easy. Questa sera presenterà in anteprima Let Them Talk, il suo album di debutto prodotto niente meno che da Joe Henry, in cui dichiara apertamente il proprio amore per il blues di New Orleans interpretando una serie di grandi classici: da Tipitina di Professor Longhair a Buddy Bolden’s Blues di Jelly Roll Morton, da They’re Red Hot di Robert Johnson all’immancabile Swanee River. Chissà cosa direbbe Mrs. Hare, se potesse vederlo?
«È stato come fare bungee jumping per la prima volta», racconta Laurie ancora euforico il giorno dopo in linea da New Orleans. «A dire la verità non ho mai fatto bungee jumping, però me lo immagino esattamente così. Ho suonato al Latrobe’s On Royal, uno splendido edificio antico situato nel cuore del French Quarter, dove un tempo sorgeva la Louisiana State Bank. Una cosa intima, circa 50 persone… una grande serata».
Non c’era altro posto al mondo in cui Hugh avrebbe preferito fare il suo primo concerto, perché «da bambino la città dorata di New Orleans era come il Paese delle meraviglie. Nella mia testa era la città del blues e il solo pensiero mi creava un turbine di emozioni contrastanti: gioia, disperazione, romanticismo, malinconia. Devi considerare che oggi con iTunes e Google puoi avere facilmente accesso a un’infinità di informazioni. Quando ero ragazzino queste cose non esistevano. Il primo disco che ho comprato era di Muddy Waters: volevo imparare a suonare la chitarra, ma poi sono passato al piano in modo graduale. Forse ero troppo pigro per suonare in piedi… il piano è uno strumento che puoi suonare da solo, mentre la chitarra è più da band. O forse ero semplicemente un ragazzino solitario. Andavo in cerca dei dischi di Dr. John, Professor Longhair, Memphis Slim, Otis Spann e li ascoltavo a ripetizione cercando di imparare a suonare e magari carpire qualche trucco del mestiere. Adoravo quel sound. Ogni volta che abbassavo la puntina del giradischi si apriva una specie di stargate e come per incanto mi ritrovavo nella città dei miei sogni».
Probabilmente state pensando che una volta cresciuto, e soprattutto una volta diventato ricco e famoso, Laurie non solo sarà andato mille volte a New Orleans, ma si sarà pure comprato una megavilla. Niente affatto: «Ho visitato la mia Gerusalemme per la prima volta un anno fa. Ho sempre avuto paura di andarci, temevo che la realtà non reggesse il confronto con la fantasia, ma per fortuna New Orleans ha superato di gran lunga le mie aspettative».
Sì, ma perché aspettare fino a cinquant’anni anche per fare un disco? «Beh, perché non sono nato in Alabama, non ho mai raccolto un solo fiocco di cotone, né ho viaggiato su un treno merci. Il giorno in cui sono nato nessuna zingara ha predetto il mio destino, e per finire non ho mai incontrato il diavolo. Come se non bastasse, sono bianco, inglese e sono un attore! Scherzi a parte… mi è stato chiesto più di una volta di incidere un album, ma ho sempre rifiutato: “Non sono in grado di farlo”, dicevo. “Non sono abbastanza bravo”. Ma questa volta è stato proprio come il bungee jumping… ho deciso di accettare la sfida, anche se ero terrorizzato e non sapevo come sarebbe andata a finire. Di una sola cosa ero certo, non volevo giocare a nascondino. Ho avuto la possibilità di collaborare con dei grandi musicisti – Jay Bellerose (batteria), David Piltch (basso), Greg Leisz (chitarra, dobro, mandolino), Patrick Warren (tastiere), Kevin Breit (chitarra, chitarra tenore, mandolino) – ma chi non l’avrebbe fatto al mio posto? Però non volevo nascondermi dietro le loro splendide performance, aggiustare la voce con l’Auto-Tune o seppellirla sotto una valanga di cori. Volevo mettermi a nudo… Il disco infatti si apre con l’intro di St. James Infirmary, che suono da solo, al pianoforte. Ho fatto del mio meglio e ho cercato di realizzare un album che fosse onesto, senza trucco e senza inganno».
Se vi state chiedendo come si è preparato Laurie per questa grande sfida, «non ho preso lezioni di canto, anche se probabilmente avrei dovuto (ride, nda). Ho suonato molto il piano, ma lo faccio abitualmente. Ammetto anche di non aver fatto esercizi di scale, altra cosa che dovrei fare. Ho ascoltato moltissima musica, però… con Joe Henry ci siamo scambiati dischi e lunghe liste di canzoni che amiamo. Poi ci siamo seduti a un tavolo e abbiamo scelto quelle che ci sembravano più adatte, in modo da formare una track list coerente. In questo senso la preparazione è stata molto piacevole, anzi direi la parte più divertente in assoluto, anche se abbiamo dovuto escludere alcuni brani a malincuore e ce ne sono anche un paio che abbiamo registrato e poi deciso di non inserire nell’album. In definitiva, però, abbiamo creato proprio una bella famiglia di canzoni».
Il tocco magico di Joe Henry è evidente, e si percepisce fin dalle prime note: «Lavorare con Joe è stata una mia scelta, lo stimo molto. L’album che ha prodotto per Solomon Burke, Don’t Give Up On Me, è uno dei più bei dischi degli ultimi dieci anni. Adoro anche The River In Reverse, registrato con Elvis Costello e Allen Toussaint, e The Bright Mississippi, sempre di Toussaint. Mi affascina il modo in cui Joe lavora, è un vero maestro nel tessere complesse trame musicali facendole sembrare la cosa più semplice del mondo. Riesce sempre a creare un feeling unico».
E a proposito di Allen Toussaint, che ha curato gli arrangiamenti dei fiati, Hugh racconta che collaborare con lui «è stata un’esperienza incredibile. Abbiamo realizzato la maggior parte dell’album a Los Angeles e poi siamo venuti a New Orleans per registrare i fiati. È stata una vera gioia vederlo all’opera. Due sere fa abbiamo fatto le prove per lo show all’Ocean Way Studio B, con la band al completo e Allen che dirigeva i fiati. Quel posto è una specie di cattedrale, le sue fondamenta parlano… basta osservare le foto appese alle pareti per sentirsi piccoli. Ciò che ho provato è indescrivibile. L’altro giorno qualcuno ha definito Allen il Dalai Lama di New Orleans, e ti assicuro che è proprio così: suonare il pianoforte con lui che ti osserva ed elargisce preziosi consigli è una sensazione al tempo stesso terrificante ed entusiasmante».
Figuriamoci cosa deve aver provato Laurie quando ha registrato quello che lui considera il brano principe dell’album: «Tipitina significa molto per me, lo ritengo la quintessenza di questa musica e l’arrangiamento dei fiati è a dir poco strepitoso. È un pezzo di Professor Longhair che mi accompagna da sempre. Credo di averlo ascoltato un milione di volte in tutte le versioni possibili e immaginabili e, nonostante ciò, quando mi capita di sentirlo alla radio mi emoziono come la prima volta».
Parlando della sua performance vocale, Laurie confessa di non essere ancora soddisfatto della propria voce, «ma mi sto impegnando per migliorare. Vorrei raccontarti un aneddoto interessante: Dr. John, il mio più grande eroe musicale, ha accettato di cantare After You’ve Gone facendosi accompagnare da me al pianoforte… Non ne sono sicuro, ma credo sia la prima volta che collabora esclusivamente in veste di cantante. Questo mi ha fatto tornare alla mente che, a inizio carriera, la sua idea era di far cantare qualcun altro, perché non era sicuro della sua voce. Fortunatamente qualcuno gli ha fatto cambiare idea e, a mio avviso, oggi è uno dei migliori cantanti blues viventi. Dio mio, è stato un grande onore poterlo accompagnare al piano… tutto ciò che so fare lo devo a lui».
Ma Dr. John non è l’unico super ospite di questo progetto. Hanno collaborato anche Irma Thomas (John Henry) e Tom Jones (Baby, Please Make A Change): «Credo che loro siano un po’ più sicuri di sé come cantanti… (ride, nda). È il loro strumento… il potere, l’estensione e la forza delle loro voci sono stupefacenti. Ed è così da quando erano teenager… Certo, avranno lavorato sodo, ma sono entrambi talenti naturali: cantare per loro è come respirare. Irma Thomas è la regina del soul di New Orleans, una delle più grandi dive dei nostri tempi. Mentre Tom Jones… è Tom Jones. Non posso che sentirmi fortunato, onorato e privilegiato per aver avuto la possibilità di collaborare con loro».
Joe Henry è sicuro che «la gente rimarrà stupita scoprendo non solo quanto tempo Hugh ha consacrato alla sua vita musicale, ma anche quanto è interessante il suo approccio alla musica e a questo genere in particolare».
L’intera vita di Laurie sembra essere scandita a ritmo di blues: «Ho fatto mettere un pianoforte nella roulotte che uso quando lavoro. Quando non è richiesta la mia presenza sul set mi rifugio lì e cerco di imparare una canzone di Memphis Slim o un riff di Little Brother Montgomery. Passo le mie giornate così, tra il set di Dr. House e il pianoforte».
Verrebbe naturale pensare che essere un attore lo abbia facilitato in questa sfida musicale, e invece «non ne sono sicuro», dice. «In un certo senso credo sia stato più difficile perché l’attore, solitamente, si nasconde dietro al personaggio che interpreta, è nella sua natura. Nella musica, al contrario, bisogna mettersi a nudo e sforzarsi di essere onesti. Credo sia questo fattore che innesca una risposta da parte del pubblico, se sei fortunato… Dunque la sfida più grande non è stata quella di interpretare un bluesman, ma essere me stesso e non alterare l’essenza delle canzoni. Questa esperienza mi ha insegnato molto… Puoi ascoltare mille volte un brano e pensare di conoscerlo, ma non capirai mai i suoi oscuri meccanismi finché non proverai a suonarlo. La cosa più importante che ho imparato è che non c’è niente come la semplicità, e che “semplice” non significa “facile”. Credo sia stato Thelonious Monk a dire che chiunque può trasformare una cosa semplice in una complicata, ma solo un genio può fare il contrario. Però ti confesso che, stando in uno studio di registrazione con dei musicisti provetti, ho desiderato con tutto me stesso tornare indietro nel tempo a quando avevo 10 anni per imparare da quegli splendidi maestri».
E adesso che ha trovato il coraggio di compiere il primo passo nel mondo della musica, quali sorprese riserva il futuro? «Ovviamente mi piacerebbe portare avanti questo discorso, ma bisogna vedere come va il disco. La gente potrebbe amarlo oppure odiarlo. Aspetterò e mi regolerò di conseguenza».
Tra la fine di aprile e la metà di maggio è prevista una serie di concerti in Germania, Inghilterra e Francia e l’eccitazione è già palpabile nella voce di Laurie: «Sai, un conto è suonare il piano nella band di qualcuno, ma stare al centro della scena, con tutti gli occhi puntati addosso è tutta un’altra cosa. Sei intimidito ma al tempo stesso elettrizzato da una tale sfida». Insieme a lui, sul palco, ci saranno per lo più gli stessi musicisti che hanno suonato nel disco. «Gireremo tutti insieme per l’Europa, probabilmente a bordo di un tour bus. Avrò a disposizione una band fantastica. Mi sento come se mi avessero dato le chiavi di una Ferrari dicendomi: “Vai Hugh, fatti un giro… divertiti”».