Patterson Hood ci fa salire sul tour bus dei Drive-By Truckers, posteggiato a un passo da locale milanese dove la band suonerà di lì a poco. È un omone, disponibile e socievole, anche se bisognerebbe essere miopi per non cogliere un po’ di spossatezza nei suoi gesti. È stato poco bene a Manchester, qualche giorno prima. E il tour, molto applaudito ma con poche pause, si sta rivelando più tosto del previsto (e qualche giorno dopo questa intervista verrà definitivamente interrotto per lo svenimento e lieve trauma cranico del sinora inossidabile Mike Cooley).
Quando inizia a parlare con quella sua inconfondibile voce dolcemente stridula, segno distintivo della musica dei Drive-By Truckers, capace sul palco di esprimere taglienti emozioni, gli racconto di aver letto che somiglia a quella di un cantante dust bowl, che gracchia da un 78 giri d’epoca. «Se avessi potuto avere il dono di decidere quale voce avere» replica divertito «probabilmente ne avrei scelta un’altra, ma non avendo questa facoltà ho dovuto inventarmi un modo per renderla utile». Sul tavolino metallico accanto ai divanetti su cui ci sediamo si notano due cubi di Rubik, con le sei facciate svolte e due bottiglie di Jack Daniel’s. A naso (ma poi me lo conferma lui stesso: «Siamo tutti dei buoni bevitori, ma non più come una volta») sono portato a credere che Patterson sia interessato più alle scorte di Daniel’s che al rompicapo che ha fatto scervellare mezzo mondo…
Go-Go Boots è stato registrato durante le session per The Big To-Do. Lo consideri un lavoro completamente separato o trovi che ci siano affinità fra i due?
«Penso che siano due lavori agli antipodi. Sono fiero di entrambe le produzioni, ma credo che il materiale inciso per Go-Go Boots sia più originale e gratificante. Almeno per me. Perché sono canzoni che vanno per la prima volta direttamente ad attingere al sound delle mie radici. Parlo di Alabama sound, ma anche degli artisti che hanno creato l’edificio musicale nato nei Muscle Shoals, del lavoro che in quegli studi ha fatto mio padre David con gli Swampers nel 1969 e per i primi anni del decennio successivo».
Raccontaci di più di tuo padre e di Eddie Hinton, di cui avete inciso due cover presenti nella track list del nuovo album…
«Mio padre David Hood era il bassista degli Swampers (citati dai Lynyrd Skynrd nella loro canzone più nota: Sweet Home Alabama, nda), ma ha suonato anche con Bobby Womack, Aretha Franklin, lo stesso Eddie Hinton. Un tipo supercool, mio padre. Ha 66 anni, è in ottima forma e suona ancora, sarà con noi sul palco per il concerto di Capodanno che terremo a New York. Eddie è stato un grande musicista soul/R&B del giro Shoals e mio padre era suo amico e collaboratore. Ha avuto una storia tragica, fra istituti psichiatrici e un pezzo di vita da homeless, ma era assolutamente un genio. È morto più o meno quando abbiamo dato vita alla band. Siamo stati tutti suoi fan e in qualche modo volevamo rendergli omaggio».
Alcuni dei vostri album (Southern Rock Opera, The Dirty South, Decoration Day) sono costruiti intorno a cicli tematici, mentre altri lavori sono più liberi e meno “intenzionali”. Go-Go Boots a che schiera appartiene?
«Credo che sia più un disco a tema, ma non è voluto. Obiettivamente c’è un’ambientazione molto Bible Belt, un termine che noi americani utilizziamo per indicare quell’insieme di stati del sud molto religiosi e conservatori. Le storie che raccontiamo nel disco, storie connesse tra loro, parlano di quella cappa culturale dove il potere e l’autorità, divina o terrena che sia, inciampa nei suoi stessi peccati».
Alcune canzoni tratte da Go-Go Boots, a cominciare dalla cover di Hinton Everybody Needs Love e dal singolo Used To Be A Cop, fanno parte del vostro repertorio live attuale. Avete in programma un tour vero e proprio?
«Abbiamo in programma di tornare con una serie di show specificamente legati al nuovo disco proprio quest’estate».
A proposito della vostra vita on the road, di recente avete aperto per Tom Petty And The Heartbreakers…
«Ti assicuro che fanno una vita on the road completamente diversa da quella che vedi qui intorno (ride, nda)… Loro arrivano allo show direttamente con l’aeroplano, noi abbiamo il nostro tour bus. Comunque l’entourage ci ha accolto con estrema gentilezza e ci ha permesso di suonare un’ora intera e di allestire il nostro equipaggiamento audio al completo. È stata un’esperienza memorabile».
Una delle caratteristiche tipiche del sound di alcuni vostri album è la scelta di virare sempre verso un “calore” che riporti in qualche modo all’estetica del vinile. Ho letto che per far questo utilizzate un equipaggiamento specifico di tipo analogico. Lo raccomanderesti anche alle band che utilizzano d’abitudine solo hardware e supporti digitali?
«Se te lo puoi permettere economicamente – è un sistema costoso – la mia risposta è sì. Quando abbiamo incominciato non potevamo lavorare presso gli studios e ci siamo accaparrati i primi tools digitali a disposizione sul mercato. Pizza Deliverance (1999, secondo disco della band, nda) è stato registrato nel mio salotto di casa con quell’attrezzatura. Siamo andati avanti così per qualche anno fino a che non abbiamo avuto i soldi per trasferirci in studio e registrare con macchine più interessanti. In ogni caso raccomanderei a chiunque suoni e voglia registrare di fare ogni cosa necessaria per realizzare il tipo di disco che si ha in testa, piuttosto che fissarsi sul sistema di registrazione. Ma incidere in analogico è fantastico».
04/01/2011
DRIVE-BY TRUCKERS
Alabama analogica