Quando il disco ha finito di girare, avevo imparato qualcosa sul destino delle pop star, sul valore di un produttore e dei suoi musicisti, sull’incontro tra suono americano e inglese, su come la canzone d’autore possa incontrare il gospel, il country, il soul. Quando il disco ha iniziato a girare, del loro rapporto non sapevo nulla. Ho scoperto, poi, che s’erano incontrati quarant’anni fa. Nell’autunno 1970 Elton John era un inglese in cerca di un’occasione: Your Song non era ancora scoppiata e sulla copertina del secondo album sembrava un cantautorucolo senza speranza, occhialoni con la montatura spessa e faccia imbronciata che emergeva dal buio, una di quelle anime sensibili baciate dall’insuccesso. Leon Russell era un dio minore del rock, aveva suonato con questo e con quello, aveva fatto il capobanda del Joe Cocker migliore, quello di Mad Dogs And Englishmen, aveva scritto Delta Lady e Superstar, suonava in modo favoloso, manco fosse cresciuto in un honky-tonk. Quell’autunno s’incontrarono sul palco del Fillmore East di New York: una settimana di concerti, il ragazzo suonava per la prima volta in America e apriva per il maestro che ammirava. «Ma era così dinamico», ha ricordato Russell, oggi 68enne, «che pensai che la mia carriera fosse finita». Per quarant’anni i due si sono solo sfiorati. Fino a quando John non ha sentito «l’improvvisa esigenza» di fare un album con Russell per «tornare a quei tempi favolosi». Nel frattempo i ruoli si sono invertiti: l’inglese ha venduto 250 milioni di dischi, l’americano è diventato uno di culto che suona nel disinteresse generale. Il loro incontro è uno scambio alla pari: uno regala un altro giro sotto i riflettori all’altro, che ricambia infarcendogli d’America profonda il sound. Il risultato si chiama The Union, un gran disco. Chiunque abbia odiato John per le sue sdolcinatezze pop dovrà rimangiarsi gli insulti. Chiunque abbia snobbato Russell d’ora in poi dovrà fare un corso di recupero in storia del rock. Forse l’uomo di Mad Dogs non la pensa così (vedi intervista a pagina 9), ma The Union non è solo l’unione tra due grandi artisti: è una fusione eccitante di due concezioni musicali differenti, l’inglese e l’americana. Entrambi cantano. Entrambi scrivono (più Elton, in effetti), con l’apporto del paroliere Bernie Taupin. Entrambi suonano. Entrambi mettono le proprie idee, il proprio stile, la propria “anima”. Il merito della buona riuscita è loro, ma anche dei fantastici musicisti che l’accompagnano e del produttore T-Bone Burnett, uno che non sbaglia un colpo. Le performance musicali sono state registrate dal vivo in studio a Los Angeles, tre settimane dopo che Russell s’è sottoposto a un’operazione al cervello. «Riuscirò ancora a suonare?», si chiedeva. Raccontano John e Burnett che le sedute d’incisione l’hanno aiutato a recuperare: più le session avanzavano, più riacquistava confidenza. Ha finito per metterci il gospel che ascoltava da ragazzo, quando poco sapeva di musica, se non che quella roba lo stendeva. E poi il rhythm & blues, non quello asettico che va adesso, ma quello grasso e carnale d’un tempo. È il gusto che si ritrova in If It Wasn’t For Bad di Russell, con quei cori “neri” e certe favolose punteggiature di fiati. Oppure il finale di Hey Ahab, gospel e soul, elevazione e delirio. Il lato nero e “religioso” raggiunge il picco nella potentissima There’s No Tomorrow, con un organo d’altri tempi, una chitarra twangy e la voce di Mighty Hannibal. C’è poi la steel che fa filare il duetto Jimmie Rodger’s Dream: è country come lo potrebbe immaginare un Mark Knopfler. Uno dei pezzi forti è Gone To Shiloh, un brillante scovato da Elton John chissà dove: arriva da lontano, con un piano che pare trasmesso da una vecchia radio, diventa un mesto carillion, la voce di Russell ne fa un capolavoro, quella di Neil Young lo porta dritto nella storia. Sembra un pezzo importante anche The Best Part Of The Day, con un ritornello corale che starebbe bene nelle bocche dei tipi di The Band, quell’intreccio di organo e piano, quell’attacco: «Ti sento cantare I Shall Be Released come una sega elettrica che attraversa un capolavoro». Non so se Elton canti di Russell. Di sicuro quest’ultimo ha scritto The Hands Of Angels per regalarla all’inglese: chiude l’album su una nota di fragilità e pare di tornare al 1970, a un tempo senza tempo. In tutto il lavoro le voci dei due – così amabile e familiare l’una, così aspra e remota l’altra – convivono con facilità e creano un interessante contrasto. The Union è anche un disco di belle parti pianistiche, una sorta di sfida pacifica fra i due musicisti: Monkey Suit, per fare un esempio, è costruita a partire da un boogie dei due, la briosa A Dream Come True è suonata pensando a Mahalia Jackson. È un disco magnificamente suonato, questo, da gente come Booker T. Jones, il chitarrista steel Robert Randolph, Jim Keltner, Jay Bellerose, Marc Ribot. Anche Elton John sembra in grado di scrivere canzoni nel suo classico stile, ma più profonde del solito. Come Eight Hundred Dollar Shoes: Elton gira attorno a una melodia fin troppo familiare, Burnett costruisce attorno un mondo di suoni discreti – piatti, fill di chitarra, cori – che la nobilitano. Perché non sarà tutto originale, qua dentro, ma tutto è di primissima categoria.
The Union esce a fine mese. Burnett e John collaboreranno ancora, forse a un album di cover di pezzi minori anni 50 e 60. «Basta coi dischi pop», ha detto l’inglese. Intanto Cameron Crowe ha filmato le session per un documentario: il dvd verrà allegato all’edizione deluxe. Secondo Elton John, l’album è influenzato da Exile On Main Street dei Rolling Stones, da quel suo essere libero e grezzo, e dal suono di «velluto» di Modern Times di Bob Dylan. Il recupero di Russell l’ha reso ancora più interessante. «È come Crazy Heart», ha detto l’inglese a GQ, «ma senza alcol, né droga».
09/12/2010
ELTON JOHN & LEON RUSSELL
THE UNION (MERCURY / UNIVERSAL)