Profeta del rock, profeta del punk, ha fatto dialogare la pratica del rock’n’roll con Michael Tilson Thomas. Le venature country della sua ugola antipatica con Kurt Weill. Le sue parole con il gemito della tromba di Chet Baker e i virtuosi assoli di Lee Konitz. La sua penna con quelle di Paul McCartney e Burt Bacharach. Se proprio lo si dovesse spiegare a un anziano signore che abbia interrotto i suoi ascolti musicali trent’anni fa, lo si potrebbe accostare a figure come George Gershwin o Leonard Bernstein o Aaron Copland. Elvis Costello però non si improvvisa mai. Dietro al suo lavoro c’è sempre un piano regolatore forte e una struttura solida. Arrogante e snob, o simpatico e affabile? Forse un po’ l’uno un po’ l’altro. Fatto sta che si innamora di amori impossibili e riesce sempre a conquistarli. Si tratta di un bisogno patologico di respirare e di esprimere quello che gli passa per la mente. A volte capita che si metta in testa di presentarsi al North Sea Jazz Festival dell’Aja accompagnato dalla Metropole Orkest condotta da Vince Mendoza. Di presentare una risignificazione valente del suo repertorio: ecco, questo è il recente My Flame Burns Blue in due parole e quattordici pezzi. A volte capita che incontra vecchi amici, tipo Allen Toussaint, arrangiatore, pianista, produttore, songwriter di New Orleans con un piede nel rock’n’roll e il corpo nel R&B. E che riescano a combinare l’organico degli Imposters con una sezione di fiati che è solita lavorare con Toussaint: qualche parola insieme, tanta musica dal respiro rhythm & blues e trame folk. Un altro di quei liberi pensieri che gli è passato per la mente e che confluisce in un lavoro che sarà pubblicato i primi di giugno in Italia: The River In Reverse (vedi box a pagina 61, ndr).
Ci sono due aspetti che colpiscono subito di My Flame Burns Blue. Il primo, ma forse è più esattamente un’impressione, è che una sequenza di estetiche confluiscono nel suo stile. Come lo definirebbe, questo stile?
Un autore di canzoni, credo sia il modo migliore per qualificare la mia esperienza di musicista. Se qualcuno mi chiedesse quali siano i miei autori preferiti, risponderei che non saprei proprio scegliere, mi sembra impossibile. La mia fortuna è di aver indirizzato il mio lavoro verso un buon numero di campi diversi, ho suonato musica negli stili più diversi, ho un certo numero di specializzazioni, e quando compongo posso permettermi di far emergere tutte queste mie esperienze. Non mi rimane da far altro che seguire l’ispirazione, comunque poi l’amo è gettato, le diverse estetiche abboccano da sole.
Il secondo punto è piuttosto delicato. In My Flame Burns Blue si presenta con una vera e propria big band; la forma e il contenuto è piuttosto divergente rispetto all’orchestra sinfonica che pur lei ha frequentato negli anni precedenti. Però il concetto di orchestrazione è comunque oramai una costante del suo operare, nel rock e pop, nel jazz e in altro. Ci racconta come ha sviluppato questa pratica?
Negli ultimi dieci anni più o meno ho scritto orchestrazioni per molti concerti, ma non da tanti anni ho inciso su disco questo tipo di materiale. Dopo aver realizzato Weird Nightmare, prima di incontrare Sue Mingus (vedova del contrabbassista Charles, nda) ho iniziato a lavorare con il Brodsky Quartet. Mi resi conto di che tipo di blocco mentale avevo riguardo la scrittura musicale (vedi box a pagina 63, ndr). Mi riusciva difficile comunicare le mie idee, nonostante abbia sempre cercato di spiegare la musica ai musicisti che hanno collaborato con me con stratagemmi spesso extra musicali, anche se avevo esperienza nella musica da film per la quale composi diversi temi in maniera classica, che però furono lavorati da orchestratori aggiunti. Poi improvvisamente mi sono sbloccato e ho assimilato la pratica della scrittura corale, per più strumenti, in maniera molto rapida. È stato un passaggio importante, perché devo ammettere che ho sempre avuto buon orecchio anche per l’armonia, però a scrivere è tutta un’altra storia, si conquista un margine di originalità davvero importante. Non ho più alcun dubbio: il fascino di alterare i colori delle orchestrazioni e avere la possibilità di concretizzare tutto ciò senza essere mal compreso da un altro orchestratore o dai musicisti coinvolti, è un’esperienza allettante.
Ritiene che l’attimo compositivo, l’illuminazione poetica perda significato con lo studio approfondito per l’orchestrazione?
È un procedimento diverso. Ma certamente non si può stabilire una graduazione di valore. Ogni forma rappresenta un’espressione a sé.
Nonostante si dedichi a musica dai contorni non decifrabili proviene dal punk-rock, come esperienza personale. Com’è visto dai musicisti di estrazione classica o jazz con i quali ha modo di lavorare?
Trovo molto rispetto in loro. Me ne sono reso conto specialmente quando ho immaginato la trama musicale de Il sogno. Non è una sinfonia e non si sviluppa come tale: non si basa su un tema unico che si trasforma in una struttura articolata. Credo obiettivamente fosse un lavoro piuttosto articolato, ben recepito dai musicisti che dovevano eseguirlo.
Torniamo un attimo sulla sua scrittura, però. Il forte legame, anche affettivo, che la lega a Diana Krall crede abbia influenzato la sua calligrafia musicale?
Iniziamo col dire che non mi sono mai sentito meglio dal punto di vista affettivo e che con Diana inizialmente credevo di avere solamente un’ottima amicizia e di provare affinità nel lavoro e in tanto altro, finché poi non è accaduto qualcosa. Comunque, non credo abbia modificato la mia scrittura in quanto tale, ritengo abbia influenzato il senso di libertà che provo. Fino a qualche tempo fa non riuscivo a riportare nelle canzoni circostanze della mia vita in maniera così diretta e senza filtri.
Può toglierci una curiosità: conosceva musicalmente Diana prima di incontrarla e di portarla sull’altare?
Eccome se la conoscevo, avevo comprato tutti i suoi dischi e ne ho sempre apprezzato le qualità di impegno, vivacità e sincerità. Detto francamente, credo che lei invece non conoscesse molto bene la mia musica.
La sua infanzia è molto legata al jazz.
Mia madre vendeva dischi, e quando mi sono ritrovato a incidere Someone Took The Words Away (da North, nda) mi ricordavo perfettamente dei vecchi vinili di mia mamma. Mio nonno paterno era un buon trombettista, ricordo che suonava sulle navi e mio padre Ross (MacManus, nda) era un cantante di successo di big band ed è considerato uno dei primi ad aver interpretato il be bop in Inghilterra. In effetti sono cresciuto con molto jazz e mi sono presto appassionato a quegli interpreti di canzoni pop che possedevano un forte afflato jazz: da Frank Sinatra a Mel Tormé, Peggy Lee, Ella Fitzgerald e Billie Holiday.
Cosa conserva di questi grandi nomi nella sua estetica?
Amo far suonare una rock band con una forte dose di improvvisazione come si è soliti fare nel jazz. Più in particolare l’uso del vibrato nel canto è una pratica che ho ereditato dal jazz.
Il materiale di My Flame Burns Blue è tutto raccolto dal vivo. Progetto ambizioso.
Non mi permetterei mai di dire che non ci sono dei piccoli errori, delle cose che a risentirle mi viene una gran voglia di ritoccare e qualche volta anche il rimpianto di non averlo fatto e di essere intervenuti solo sulla pulizia del suono, le dinamiche dei volumi e le tecniche di mixaggio. Però amo la spontaneità della vita, tutto ciò che viene dai sentimenti ha secondo me più valore che non la ragione esasperata, che può togliere colore alla vita. Allora, per rendere l’idea del momento, per ripescare nel mare dei sentimenti puri credo che non ci sia nulla di meglio che un bel disco dal vivo.
E della Metropole Orkest non vuole parlare?
Certo, certo. È un’orchestra favolosa, può esprimersi in chiave rock, nel jazz, nella musica da camera, in quella classica. La varietà timbrica, con la presenza costante della sezione di archi, gli incastri, la bravura dei singoli: è davvero impressionante e gratificante lavorare con loro.
Il repertorio è affidato a una serie di arrangiatori, come mai non una scelta sola?
Perché sarebbe stato un lavoro più monotono, così ha una gran diversità, un assortimento di gusti. Ci sono Bill Frisell, Sy Johnson, Mike Mossman e Vince Mendoza, che è anche il direttore dell’Orkest e unico nel suo campo, in grado di qualificare un lavoro dal respiro profondo e ampio.
E il suo fedele collaboratore, Steve Nieve.
Sicuramente quello a cui sono legato da più tempo è Steve Nieve (ex pianista degli Attractions nda), che suona benissimo il pianoforte nel disco. Steve ha un grande cervello e ottimo carisma, spesso scriviamo canzoni insieme.
The River In Reverse uscirà tra qualche tempo, immagino che sia prematuro parlarne, vuole però anticipare qualcosa?
Allen Toussaint è arrivato a New York dopo esser dovuto fuggire da New Orleans, così ci siamo incontrati. Abbiamo recuperato straordinario materiale del suo repertorio infinito e ci siamo dedicati alla composizione di alcuni brani insieme, che per il disco poi sono diventati cinque, sui quali ho aggiunto dei testi. E poi c’è il brano che dà il titolo al disco, di mia composizione. Ci conosciamo da tanti anni, negli anni 80 lavorammo insieme in un paio di occasioni, nonostante non ci vedevamo da molto tempo. Dovremmo partire in tour per l’inizio dell’estate.
È un disco meno impegnativo dei suoi precedenti?
Al contrario, l’impegno non si può misurare con il numero dei musicisti o il lavoro da svolgere sulla canzoni. Dipende dalla volontà e dall’ispirazione che ti può abbandonare da un momento all’altro, allora non riesci a raggiungere lo scopo per cui fai musica, cioè emozionare quanta più gente possibile.
Prima però è impegnato in un’altra tournée dai contorni alquanto personali. Vuole raccontare qualcosa?
Si tratta di un tour di un paio di mesi con diverse orchestre sinfoniche, si chiama Symphony Tour. Da un lato sono molto felice di esibirmi con diverse orchestre, dall’altro sono spaventato, intanto perché ritengo che sia impossibile eguagliare o almeno riproporre il lavoro del disco con ensemble diversi dalla Metropole Orkest, e poi sarà un problema dal punto di vista organizzativo ed economico.