Questione di “Feeling”: Pino Daniele secondo Gianni Valentino
Colonnese pubblica il lavoro del giornalista napoletano sull’indimenticato musicista
«Ai fan di Pino suggerirei di andare dritti verso i brani meno ascoltati. Ad esempio, se mettono sul piatto Vai Mo’, consiglierei di saltare Yes I Know My Way per concentrarsi su canzoni meno note. Quelle che hanno altre storie da raccontare». È l’invito accorato che Gianni Valentino, durante l’ultima presentazione del suo nuovo libro Feeling. Pino Daniele (Colonnese Editore) alla Ubik di Benevento, ha rivolto al pubblico. È anche il modo migliore per introdurre il lettore in questa sua ultima fatica (già in ristampa), nella quale l’attenzione è rivolta a dodici brani dell’indimenticato musicista napoletano, raccontati in chiave trasversale e originale. Ne parliamo con Gianni, firma di «Repubblica».
Ventuno album, centinaia di canzoni, per non parlare di concerti, tour e collaborazioni. Il lascito artistico di Pino Daniele è smisurato, però per raccontarlo hai puntato a una selezione di dodici canzoni. In base a quale criterio le hai scelte?
Spesso dico che il merito della scelta appartiene alle canzoni stesse. Tutto dipende dai contenuti della sua discografia che avevo intenzione di irradiare. Il proletariato, Ca calore; le parolacce strepitose, Je so’ pazzo; la convivenza tra mamma Africa e musica elettronica, Via Medina; Pino produttore, con Stop Bajon composta per l’esordio solista di Tullio De Piscopo; Pino pacifista attraverso Pigro che viene inclusa nel disco dei madrigali del ‘500; Pino della parlesia con ‘O fra; Pino reporter giornalistico di Stella nera. E via dicendo, abbinando ciascun titolo ai rispettivi mesi dell’anno in un rigoroso calendario. Giocando come se le lettrici avessero un jukebox stagionale a disposizione e quindi vivendo un atlante in compagnia del musicista partenopeo.
In questo periodo Pino è al centro dell’attenzione mediatica tra tv, iniziative di vario genere. Non è semplice scrivere ora un libro su di lui. Fanno bene sempre e comunque queste commemorazioni o pensi sia meglio lasciare spazio alla sola musica?
Mi spaventano le commemorazioni perché rischiano di diventare ripetitive, noiose, gassose, vuote. Questo principio mi ha salvato fin dal primo giorno di ricerche e interviste per scrivere Feeling. Non avrei mai realizzato un libro commemorativo, celebrativo, schiavo del mio amore poetico e ritmico per Pino. La volontà era studiare la produzione di Daniele e portare alla luce retroscena e notizie mai rivelate prima, in ognuna di queste 12 tracce, proprio per illuminare la sua storia creativa con la complicità di decine di artisti internazionali e italiani che ne hanno condiviso il viaggio tra studi di registrazione, tour, album, session casalinghe, festival, incontri, ospitate televisive. Ecco perché ho invitato – e ricevuto in maniera sublime la loro fiducia – a raccontare cosa c’è dietro e dentro queste canzoni artisti trasversali e addetti ai lavori come Gigi De Rienzo e Peppe Lanzetta, Peter Erskine e Antonio Capuano, Fabio Massimo Colasanti e Tullio De Piscopo, Ernesto Vitolo e Lino Vairetti, Claudio Poggi e Lucio Guzzo, Phil Palmer e Raiz, Gianni Guarracino e Enzo Gragnaniello, etc etc etc.
Mi ha colpito il titolo, secco e diretto: Feeling. Dietro questa parola magica c’è un modo di fare che parte da Bob Dylan, attraversa la rivoluzione di Battisti e arriva a tanti artisti contemporanei che cercano ancora di suscitare emozioni in chi ascolta. Qual è stato il feeling che Pino ha cercato di evocare in quasi quarant’anni di musica?
Da giornalista e scrittore/studioso provo a risponderti dicendo che il suo feeling era nell’instancabile e naturalissimo desiderio di voler mescolare ogni volta le onde del suono a prescindere dalla geografia natia, esplorando qualsiasi tentazione estetica, osando, azzardando, non rinunciando all’inseguimento di melodie inattese figlie delle sue passioni. La canzone popolare e il blues-rock. Il funk e il flamenco. Il mood mediorientale, afro e quello sudamericano/caraibico. Elvis Presley, Eric Clapton, John McLaughlin, Johnny Winter e Santana; Earth, Wind & Fire, Airto Moreira, Weather Report, Eumir Deodato, Gilberto Gil e Chick Corea. Poi i madrigali e la musica elettronica, il pop e il reggae (su quest’ultimo ambito, invito a rintracciare una versione di Napule è arrangiata in modo speciale e jamaicano da Gigi De Rienzo).
Hai scelto canzoni popolarissime come Je so’ pazzo ma anche brani “minori” e dell’ultima fase come ad esempio Pigro. Cosa voleva comunicare Pino con questo languido esempio di soul-bossa del 2004?
Esatto, appena Je so’ pazzo e Alleria dei cosiddetti superhit. Le restanti sono quelle meno ‘sputtanate’ ma, per me, preziosissime. E evidentemente non soltanto per me, stando alle reazioni di chi sta leggendo il libro. Tra questi brani non immediatamente famosissimi ecco a questo punto Stella nera, Chillo è nu buono guaglione, Toledo e Pigro, che è l’emblema del Pino Daniele pacifista. Come lo era stato già in Questa primavera, soave serenata che brilla di fiducia nel dialogo straniero. Peraltro Pigro, in aggiunta al pregio degli arrangiamenti e della composizione assolutamente live che ha assunto nell’album Passi d’autore – e basterebbe leggere quel che mi ha rivelato Peter Erskine – incorpora anche un altro valore narrativo e storico: è la personalità di Daniele nei riguardi dei suoi discografici. Se ha intenzione di compiere un azzardo, nun se mette maje scuorno d’ ‘o ffà. E va per la sua strada. Può fallire e può far detonare un universo imprevisto. Qui sta la sua coscienza d’artista. Business o non business.
Così come Battiato all’inizio degli anni ’80 creò la sua factory con un team produttivo che fece scalpore, così Pino con la sua Bagaria lavorò con e per altri. Un esempio che hai citato è la memorabile collaborazione con Richie Havens in Common Ground. I cultori ricordano Gay Cavalier, tratta da quel disco, mai ristampato in cd o digitale. Che significato ebbe per Pino quel connubio?
Bada anzitutto al titolo di quella comunione: Common Ground. Terra nostra, terra comune in sostanza. L’altalena ci riporta rapidamente a Terra mia, l’esordio di Pino datato 1977. Anche in questo capitolo è stato emozionante e divertente attraversare gli anni a ritroso e riacchiappare i ricordi di un paio di amici di classe di Pino, ai tempi della Ragioneria al Diaz, o di Gianni Guarracino e Tullio De Piscopo, che dopo avermi evocato la genesi di Alleria, Hotel Regina e Appocundria, Stop Bajon e Assaje, infilano pure luci epocali sospese tra New York City e la produzione di Bella ‘mbriana.
A proposito di connubi e collaborazioni, un altro classico è Stop Bajon. Come ti spieghi la popolarità postuma del brano e anche il suo successo in area clubbing e dancefloor?
Più che spiegarmi la popolarità postuma o contemporanea del brano, so soltanto che non mi meraviglio. Quando Stop Bajon è stato pubblicato io avevo appena 8 anni e al primo ascolto ho percepito una felicità rara. Funziona nel ritmo, è efficace nella filastrocca, penetra le generazioni, mantiene intatto il suo groove ancestrale, affascina i dj e i producer (come E mo e mo di Peppino Di Capri e Depsa) e, soprattutto dopo aver raccontato la verità riassunta nel testo, la amo più di ieri. Probabilmente accadrà anche a coloro che leggeranno il libro, quando sapranno la storia che Tullio dichiara essere alla radice del testo. E, ribadisco, questo capitolo dedicato al Pino-produttore non poteva avere differente epifania. Pino scrive, compone, arrangia e produce questa perla per il suo amico confidente, per il suo polmone di palcoscenico. Con cui poi condivide anche un’ennesima gioia creativa quando arriva Nanni Loy per girare Mi manca Picone. Ma questa, racchiusa nel mese di luglio nella canzone Assaje, è veramente tutt’ n’ata storia.
Sarà banale, ma non si possono capire la musica e la poetica di Pino senza conoscere Napoli, la sua storia, il suo tessuto profondo. Mi viene in mente Stella nera – dallo splendido Musicante del 1984 – che ha a che fare con il fenomeno del contrabbando…
È il capitolo di giugno: dal mare degli innamorati al mare padrone, dal mare nostalgico o figlio di Anna Maria Ortese al mare tomba-killer. In parte hai ragione, a pormi questa domanda. Eppure credo esistano in ogni creazione – cinema, teatro, installazioni, poesia, musica, danza – più e più strati di comprensione, fruizione, emozione. Se ti avvicini a un’opera, ritengo prioritario farlo con uno spirito di abbandono e percezione delle emozioni. Dopo, viene la comprensione e il contenuto. Quindi pure chi non intende al millimetro il significato del napoletano, vivendo questa canzone mi sa che percepisce all’istante il senso di mistero, avventura, cupezza e paura che custodisce.
A proposito di territorialità. È capitato di frequente che non genovesi abbiano scritto ottimi libri su De André, così per non romani su De Gregori e Baglioni o non astigiani su Paolo Conte. Eppure la letteratura su Pino pare sia appannaggio esclusivo di firme partenopee. Come mai secondo te?
Probabilmente per la medesima paura che citavo un minuto fa. O perché forse Pino è maggiormente e, oniricamente, da setacciare e indagare. Io stesso ho vissuto i miei 49 anni in pieno credo sensoriale di Pino e dei suoi affreschi/ritratti/personaggi: tanto nelle situazioni familiari quanto viaggiando per andare ai suoi concerti; o seducendo, piangendo e baciando femmene ca scenneno a mare. Incontrando e perdendo amici. Tant’è che il saluto a inizio libro è per Costabile, che è partuto tropp’ ampress’. Feeling è potenzialmente il compimento di tutto ciò, o il primo movimento di una suite da dedicare a questo musicista.
La sua musica permea la mia vita in ogni stagione. Ti cito un ricordo lampo: ero in viaggio a Amburgo con Pier Luigi, Mauro e Massimiliano. Autunno 2015: in quelle ore in cui noi siamo felicissimi delle zingarate tra i moli in cui era stato ambientato I magliari di Francesco Rosi, i docks del porto, i musei con Klee e Munch e il sapore delle kumpir, avviene la sequela di attentati Isis a Parigi. Immediatamente, il mio stato d’animo cerca una canzone per sopportare quel sentimento squilibrato e la intercetta in Maggio se ne va. Così accade nel libro: dal focus su ogni singola traccia entrano ed escono, come spigole d’oro, tante altre canzoni. Ed è talmente un libro ricolmo di musica, che le stesse pagine hanno esondato e sono diventate una sorta di performance. Cioè Feeling the Reading. Che fin qui ho tenuto già a Roma e a Lamezia Terme, e presto accadrà in Toscana e a Napoli.
