La storia si ripete (quasi) sempre. Si potrebbe dire che ci siamo tristemente rassegnati all’accostamento “artista di talento – rehab”, che ci siamo abituati alla creatività che è (quasi) sempre legata alla vulnerabilità, che abbiamo imparato ad aspettare, e a rispettare i tempi di tutti quei grandi artisti che tra un disco bello e l’altro si fermano per ritrovare loro stessi e per curare i mali delle loro anime fragili, fragili come quelle di ogni altro essere umano. Ma qualche volta di più. Per fortuna, però, per una Amy che quell’ostacolo non riesce a superarlo e ci lascia con l’amaro in bocca dell’occasione non sfruttata e dell’opera incompiuta, c’è una Florence che si ferma, si lascia aiutare, e rinasce.
“Perché scrivi solo cose tristi?”, aveva chiesto un giornalista, “Perché quando sono felice esco”, aveva risposto Bruno Lauzi. Il nuovo disco di Florence + The Machine non è triste, ma è sicuramente profondo, intimo e particolarmente intenso. Ed è impregnato di speranza, nei suoni e nelle parole; non a caso si intitola High As Hope. Come succedeva nei primi anni Sessanta, con una giovanissima Joan Baez che combatteva sempre in prima fila per la pace e l’uguaglianza, Florence sembra una paladina moderna della speranza, che ci invita ad uscire dalla nostra solitudine, perché anche quando non lo ammettiamo apertamente è così che ci sentiamo, soli, e ci spinge ad unirci, e ad amarci. It’s such a beautiful thing to love, dice la Welch. Un amore che non è mai stata abituata a dimostrare ad alta voce, quindi stavolta prova a cantarlo: Grace, uno dei brani più toccanti del disco, è dedicato a sua sorella, “la mia sorellina”, a cui Florence chiede scusa a modo suo per “averle rovinato il compleanno”, per non averle permesso di essere la sorella minore, perché era sempre lei ad aver bisogno di cure e attenzioni. Sono stati anni difficili, questi ultimi, per la rossa britannica, la ragazza della porta accanto, con la bellezza senza tempo e con i mostri da combattere. Sembra abbia vinto lei, e questo disco lo dimostra, perché Florence si confessa.
June apre l’album nella maniera più delicata – hold on to each other, stringiamoci gli uni con gli atri – per lasciare poi spazio ad Hunger, che insieme a Patricia, un’ode a Patti Smith, che la Welch chiama “North Star”, richiama l’energia di pezzi “vecchi” come Shake It Out e How Big How Blue How Beautiful. South London Forever è un salto indietro nel tempo, a quando Flo era una teenager e l’alcol e le droghe erano compagni di collage; Big God e Sky Full Of Song sono i singoli che hanno anticipato High As Hope, e sono un altro delicato esempio di un dolore e un disagio interiori esorcizzati attraverso una preghiera o una semplice richiesta d’aiuto (hold me down, I’m so tired now). 100 Years racconta tra le righe il suo sentirsi a volte debole e indifesa, mentre la chiusura è affidata al solo pianoforte che accompagna la voce della cantautrice in The End Of Love e No Choir.
Questo disco sembra dire “sono qui”, il tentativo di Florence di dar forza prima di tutto a se stessa, e il suo modo di comunicarlo anche a noi. E forse non è un caso che la co-producer di questo disco sia Emilie Hayne, perché il tocco di quella sensibilità tipicamente femminile si sente tutto, ed è il quid vincente.
Florence è tornata.
“Perché scrivi solo cose tristi?”, aveva chiesto un giornalista, “Perché quando sono felice esco”, aveva risposto Bruno Lauzi. Il nuovo disco di Florence + The Machine non è triste, ma è sicuramente profondo, intimo e particolarmente intenso. Ed è impregnato di speranza, nei suoni e nelle parole; non a caso si intitola High As Hope. Come succedeva nei primi anni Sessanta, con una giovanissima Joan Baez che combatteva sempre in prima fila per la pace e l’uguaglianza, Florence sembra una paladina moderna della speranza, che ci invita ad uscire dalla nostra solitudine, perché anche quando non lo ammettiamo apertamente è così che ci sentiamo, soli, e ci spinge ad unirci, e ad amarci. It’s such a beautiful thing to love, dice la Welch. Un amore che non è mai stata abituata a dimostrare ad alta voce, quindi stavolta prova a cantarlo: Grace, uno dei brani più toccanti del disco, è dedicato a sua sorella, “la mia sorellina”, a cui Florence chiede scusa a modo suo per “averle rovinato il compleanno”, per non averle permesso di essere la sorella minore, perché era sempre lei ad aver bisogno di cure e attenzioni. Sono stati anni difficili, questi ultimi, per la rossa britannica, la ragazza della porta accanto, con la bellezza senza tempo e con i mostri da combattere. Sembra abbia vinto lei, e questo disco lo dimostra, perché Florence si confessa.
June apre l’album nella maniera più delicata – hold on to each other, stringiamoci gli uni con gli atri – per lasciare poi spazio ad Hunger, che insieme a Patricia, un’ode a Patti Smith, che la Welch chiama “North Star”, richiama l’energia di pezzi “vecchi” come Shake It Out e How Big How Blue How Beautiful. South London Forever è un salto indietro nel tempo, a quando Flo era una teenager e l’alcol e le droghe erano compagni di collage; Big God e Sky Full Of Song sono i singoli che hanno anticipato High As Hope, e sono un altro delicato esempio di un dolore e un disagio interiori esorcizzati attraverso una preghiera o una semplice richiesta d’aiuto (hold me down, I’m so tired now). 100 Years racconta tra le righe il suo sentirsi a volte debole e indifesa, mentre la chiusura è affidata al solo pianoforte che accompagna la voce della cantautrice in The End Of Love e No Choir.
Questo disco sembra dire “sono qui”, il tentativo di Florence di dar forza prima di tutto a se stessa, e il suo modo di comunicarlo anche a noi. E forse non è un caso che la co-producer di questo disco sia Emilie Hayne, perché il tocco di quella sensibilità tipicamente femminile si sente tutto, ed è il quid vincente.
Florence è tornata.