Se esiste un modo per imbrigliare i Fugazi in una definizione è quella di band del “qui ed ora”. Richiesto di individuare una meta prossima per un gruppo che ha superato da tre anni il decennale di carriera, MacKaye indulge in una pausa pensierosa, prima di chiarirci: “La mia prossima meta? Fare questa intervista”.
Ian MacKaye, chitarra, voce e quarto ‘razionale’ della band (che comprende l’altro chitarrista Guy Picciotto e, alla ritmica, Brendan Canty e Joe Lally) ama definirsi “un uomo che lavora”. Con lucidità che ha del miracoloso, può fornirvi le soluzioni di un rompicapo, come trovare il tempo per un’intervista mentre si divide instancabilmente tra le due basi della Dischord Records, l’etichetta da lui fondata vent’anni fa con l’amico d’infanzia Jeff Nelson. La Dischord ha da poco rinnovato il proprio sito web rendendo possibile gli acquisti on line per un catalogo che ha ormai largamente superato le cento unità, un’operazione che lancia l’etichetta direttamente nel futuro. La gestione della Dischord è comunque condotta in economia; le figure chiave (Amy Pickering e Cynthia Conolly alla gestione degli ordini e alla promozione e il consigliere finanziario Seth Martin) sono amici della band da sempre, i gruppi nel roster dell’etichetta non sono legati da un contratto discografico, né esiste copertura per quanto riguarda i diritti d’autore: i Fugazi sono l’unico grande gruppo davvero indipendente a vantare vendite considerevoli pur basandosi sul passaparola e selezionando accuratamente i propri canali promozionali, il che include la rinuncia ai proventi di un’entrata solida per ogni band che si rispetti, il merchandising. I Fugazi non vendono magliette ma efficienza.
A dispetto del loro nome (una contrazione slang che significherebbe “situazione incasinata”) i Fugazi hanno dimostrato nel tempo di poter esercitare un controllo rigoroso su tutti gli aspetti della propria carriera riservando alla propria arte il fuoco del caos primigenio. Il nome Fugazi è da anni per antonomasia simbolo di indipendenza dalle multinazionali (tutt’ora la band registra e produce il proprio materiale in prima persona, oltre a organizzare le proprie uscite live), ma la centralità di questo gruppo non si esaurisce qui. Ian MacKaye ha prestato la chitarra negli anni 90 ai Sonic Youth di Youth Against Fascism e lavorato con Al Jourgensen dei Ministry nel progetto Pailhead, Guy Picciotto (l’alter ego ‘lirico’ della band) figura come produttore del nuovo corso dei Blonde Redhead.
I Fugazi sono stati i primi a dichiarare battaglia alla Ticketmaster, mentre la Dischord ha lanciato gli embrioni di gruppi chiave per l’universo alternativo come Girls Against Boys e Make Up. E Ian MacKaye è divenuto, suo malgrado, una figura ‘mitica’ per Washington D.C., la città dove è nato e cresciuto e dove è cresciuta l’etichetta. Eppure il gruppo mantiene da sempre inusuale umiltà: MacKaye guida il van durante i tour, mentre il resto del gruppo carica e scarica gli strumenti. Chiunque abbia assistito ad uno show dei Fugazi esperimenta un rock’n’roll ridotto ai minimi termini: sul palco si libera un’energia selvaggia mediata al tempo stesso da una straordinaria concentrazione e controllo sulla materia sonora. Nel caso dei Fugazi controllo parrebbe sinonimo di naturalezza, la quale è frutto in realtà di un lavoro profondo di rinnovamento che riguarda la propria crescita come musicisti e la sfida costante che impongono a se stessi e al proprio pubblico.
The Argument, il nuovo lavoro, corre in avanti alla ricerca di quella verità immobile che per i Fugazi non esiste. Per raggiungerla, almeno in parte (come nei versi di un vecchio capolavoro, Long Distance Runner) occorre trovarsi in costante movimento. Le undici tracce del disco procedono in effetti verso lo studio di una forma canzone che incorpora influenze estranee alla tradizione rock in cui il gruppo si è spesso trovato incasellato. L’intelligente struttura canonica di Life And Limb rivela l’interesse inconscio per strutture derivanti dalla musica colta. Life And Limb appare come la versione giocosa e femminile dell’antenata Arpeggiator, monolitico inseguirsi di arpeggi del precedente lavoro End Hits.
“Non ascolto abitualmente musica classica”, dice MacKaye, “ma ascolto blues, reggae, soul, Fela Kuti, gospel, jazz. Molti parlano di influenze classiche nella nostra musica, penso che Reclamation ne sia un esempio. Nel caso di Arpeggiator devo dire che lo sviluppo del pezzo è stato ispirato da una conversazione scaturita a proposito delle fughe di Bach. Che cos’è una fuga?, ci chiedevamo. Vogliamo scrivere una fuga!”
MacKaye, apparentemente autore di mol-te delle sinuose parti di basso, ha sottolineato in passato l’importanza di un duro lavoro intellettuale volto a non ripetere se stessi, che parte dalla combinazione di quattro personalità ambiziose e creative. Picciotto (particolarmente attivo come produttore), e il bassista Joe Lally hanno fondato due piccole etichette discografiche, Brendan Canty ha prestato i propri servigi in duo con la veterana della K Records, Lois Maffeo, con la quale è attualmente in tour. “Come band siamo competitvi emotivamente non tanto a livello musicale”, sottolinea MacKaye. “Abbiamo sensazioni forti riguardo alla musica e a quello che dovrebbe essere e quando proviamo a scrivere dobbiamo mediare tra le nostre quattro personalità. Quello che finisce su disco non è mai ciò che abbiamo a disposizione inizialmente quando qualcuno porta un’idea: quando tutto è finito l’idea iniziale risulta completamente rivoluzionata. È una collaborazione ed è il modo in cui lavoriamo, dobbiamo solo pensare a come combinare queste quattro visioni in qualcosa che abbia un senso.”
Nel gioco-lavoro combinatorio MacKaye non sembra sottovalutare comunque il ruolo fondamentale dell’ispirazione: “La musica scaturisce da me e non me ne rendo conto se non più tardi, ma ci sono momenti in cui lavoro molto duro per finire un pezzo; ti siedi e lavori duramente e non succede niente di interessante ma ne esci con qualcosa che chiarisce la strada per far nascere una buona idea; lavori sugli arrangiamenti e questo trasforma un pezzo completamente e poi lo lasci da parte ed ecco apparire qualcosa di ovvio e giusto, ma non c’è una formula; qualche volta riesco a scrivere cinque pezzi in pochi giorni e poi non ne scrivo nessuno per cinque mesi”.
Pur essendo per loro stessa definizione “maniaci del controllo”, i Fugazi possiedono sufficiente lucidità per lasciare che chi è chiamato a interpretare proceda per la propria strada. Nel caso del film Instrument uscito nel 1999 e assemblato dal regista Jem Cohen, la parola d’ordine è stata assoluta libertà di rappresentazione: “Per il film le immagini sono state raccolte dal regista e in realtà non eravamo sicuri di volere che queste fossero in qualche modo riferite ai versi che appaiono sullo schermo perché non vogliamo che chi ascolta interpreti i testi in modo molto letterale; le liriche possono essere ispirate da qualcosa in particolare, scritte su qualcos’altro e poi finiscono per essere qualcos’altro ancora; non c’è modo per controllare questo processo, l’arte è libertà”.
“Qualcuno vuole la politica, qualcun’altro l’arte”, diceva MacKaye analizzando il proprio seguito ai raggi X tra le maglie singhiozzanti di Closed Captioned. La sfida virtuale posta al proprio pubblico dal nuovo corso degli ultimi tre lavori (capostipite dei quali è il modernismo di Red Medicine del 1995) pare sorgere, in primis, dall’interno. “Cerchiamo di sfidare noi stessi, quindi probabilmente sfidiamo anche chi ci ascolta; il punto è che molto di quello che la gente prende dal mondo è quello che vuole; quindi qualcuno prende la politica e quindi tutto è politico, altri vogliono l’arte e quindi tutto è artistico, è cultura; nella mia testa”, precisa, “parlavo non tanto del pubblico ma della comunità; non considero le persone a cui parlo un pubblico, quanto una comunità ed è questo quello di cui stavo parlando.” Il concetto di comunità informa anche l’attivismo della band, il quale sembra saltare a piè pari le grandi platee e concentrarsi piuttosto a livello locale: il gruppo lavora da anni col collettivo Positive Force, baluardo dell’impegno alternativo della capitale, che opera a sostegno dei senzatetto e per assicurare diritti fondamentali (al nutrimento, salute ed educazione), “crede nel potere dei giovani di cambiare il mondo” e promuove “uno spirito di ribellione creativa e flessibile”. “La rivoluzione può cominciare adesso”, afferma il manifesto dell’organizzazione e i Fugazi lo mettono prontamente in pratica nella propria città. “Tieni presente che gli Usa sono un grande paese e per avere un impatto a livello nazionale devi poter contare su una presenza forte e tutto questo è completamente controllato dalle major. Penso che il nostro lavoro non avrà mai accesso a quel tipo di esposizione, ma all’interno del nostro mondo sappiamo che quello che facciamo sarà di buon uso; è all’interno della comunità in cui viviamo, è la nostra responsabilità; siamo cresciuti qui, questa è la nostra città e cerchiamo di sostenere le persone impegnate a risolvere problemi con cui devi confrontarti continuamente; è un po’ il nostro servizio sociale. E, insieme, vorremmo ispirare gruppi in altre città a fare lo stesso. Perciò alla fine tutto ciò avrà un impatto a livello nazionale; tutto quello che possiamo fare è agire per conto nostro e sperare che altri lo prendano ad esempio.”
Nel parlare dell'”avidità delle multinazionali” come causa dei problemi del mondo e di un possibile uomo del cambiamento come il candidato dei Verdi Ralph Nader, MacKaye traspira la passione e il fervore di una persona che vuole credere: “Ormai voto da vent’anni e Nader è l’unico candidato con cui mi sia trovato davvero d’accordo e l’unica persona che abbia avuto il coraggio di dire che la pena di morte è sbagliata, l’unico che dica: ‘Vedi, i problemi di questo paese sono stati largamente causati dall’avidità delle multinazionali’. E anche in quello che sta succedendo adesso in Afghanistan e in Medio Oriente: c’è un interesse vergognoso da parte delle compagnie petrolifere e Nader è l’unica persona che realmente abbia dato voce a queste posizioni. È un candidato credibile? Sì. Penso che si debba sostenerlo? Certo. Penso che possa governare questo paese? Perché no, ma il fatto è che ci sono persone che hanno conquistato enorme potere e muovono un osceno mucchio di soldi controllando l’economia e potrebbero rendergli la vita molto, molto difficile, per cui se lui possa essere efficace come presidente questo proprio non lo so”.
La lotta dei Fugazi comunque non è una lotta contro i mulini a vento. MacKaye è un uomo di 39 anni che ama e cerca il confronto con la vita vera. “Ho delle ambizioni per il gruppo ma non ci penso; penso piuttosto: che cosa dobbiamo fare adesso, per essere certi che tutto vada bene? E lo faccio; così ora che la bambina di Joe è nata due settimane fa ci siamo presi una pausa e non suoneremo probabilmente fino alla fine dell’anno. Siamo convinti che la vita viene per prima cosa nel nostro mondo, quindi dobbiamo dare a Joe e ad Antonia, sua moglie, il tempo di cui hanno bisogno per conoscere questa bambina e a lei di conoscere loro; è difficile, perché naturalmente vogliamo anche suonare, ma perché questo funzioni dobbiamo essere sicuri che possiamo fermarci e dar loro il tempo e quando saranno pronti allora la band ricomincerà di nuovo a funzionare a quel livello.”
I Fugazi sono sopravvissuti a dieci anni di duro lavoro senza risparmio di energie, anzi: ancor oggi trasudano e ispirano fervore, passione, impegno. In una vecchia nota del suo diario, Henry Rollins, amico d’infanzia di MacKaye, scriveva: “Ian ha ventun’anni. Non posso crederci”. E oggi ha paura di invecchiare? “No”, replica senza esitare, “perché aver paura? È inevitabile… ho 39 anni adesso, non ho mai pensato a cosa avrei fatto quando avrei avuto quarant’anni. Perché devo preoccuparmi di quello che farò a sessanta? Tutto ciò che posso dire è che mi sveglio e penso a che giorno è oggi.”