Franklin, Tennessee. È l’alba e Jack White sta costruendo una steel guitar con un asse di legno, del filo di ferro e qualche chiodo, un pickup e una bottiglia di Coca Cola vuota: «E ora chi ha bisogno di comprare una chitarra elettrica?», dice soddisfatto. Nel frattempo, a Dublino è notte. Seduto sul bordo di una finestra della sua casa sul fiume, The Edge sta componendo alla chitarra il prossimo singolo degli U2, aiutato da un effetto elettronico. Infine a Londra, circondato da un muro di amplificatori, un fascinoso Jimmy Page suona soddisfatto e divertito la superba Ramble On: questa storia inizia in tre luoghi diversi. It Might Get Loud, il nuovo film di David Guggenheim (già noto per Una scomoda verità, il film di Al Gore sull’ambiente), ha una trama molto semplice e ruota intorno a un nucleo essenziale: il 23 gennaio 2008, a Los Angeles, tre icone del rock si incontrano in uno stabilimento industriale. Al centro è stato montato un palco quadrato, quasi a ricordare un ring. Vi sono stati sistemati poltrone, tavolini, chitarre, amplificatori e microfoni. I tre chiacchierano, raccontano esperienze, portano la propria prospettiva musicale, spiegano il loro background artistico, insegnano i loro lick agli altri, suonano insieme. Tutto il film tende a questo incontro. Parallelamente a quello del summit si sviluppano tre nuclei narrativi. All’interno di ognuno di essi i temi centrali sono il viaggio, il ricordo e naturalmente la musica. Prima di giungere all’incontro, infatti, ognuno dei tre protagonisti è presentato in una situazione dalla quale in seguito si sposta verso luoghi – reali o simbolici – della sua formazione e della sua carriera, mentre le loro voci fuori campo ripercorrono episodi e periodi significativi del passato. Prima di arrivare all’incontro, i tre artisti ritrovano luoghi e momenti “fatali” nella determinazione del loro destino di rockstar.
Jack White è al volante di una Cadillac bianca. Sta viaggiando su una placida strada della campagna americana mentre le note di Sitting On Top Of The World eseguita per piano e slide guitar riempiono l’aria. È vestito in perfetto stile anni 20, con una camicia e un cappello neri e con un gilet di raso e un papillon grigi. Sul sedile posteriore siede un bambino, vestito in modo identico: è Jack White all’età di 9 anni. È un viaggio che porta il leader di White Stripes e Raconteurs verso una vecchia casa di campagna nel sud degli Stati Uniti a insegnare il blues a se stesso bambino. Dice lo stesso White: «Nella musica ci sono regole che bisogna imparare a dimenticare. In questa scena insegno a me stesso come farlo perché ho sempre desiderato che qualcuno lo facesse con me, è molto importante». The Edge non visitava la sua vecchia scuola, la Mount Temple School di Dublino, da oltre vent’anni. Fu qui che trovò l’annuncio di un ragazzo, Larry Mullen Jr, che cercava elementi per un gruppo musicale, e fu in una classe di questa scuola che gli U2 iniziarono a fare le loro prove e tennero uno dei primi concerti di fronte a un pubblico, dice lo stesso chitarrista, «quasi pagante». Il regista David Guggenheim segue The Edge nel percorso che lo porta a ritrovare questo luogo così importante, e cattura la sua emozione mentre cerca di ricordare la parte di palco (in realtà un muretto rialzato) in cui si andò a collocare in occasione di quel concerto. Jimmy Page è invece rappresentato in viaggio verso il cottage di Headley Grange, dove si tennero le registrazioni di IV e dove fu composta Stairway To Heaven. Qui Page si riappropria di ricordi ancora più lontani, e l’emozione nel varcare la soglia della casa si dipinge in maniera inconfondibile sul suo volto, come se la storia dei Led Zeppelin e il suo passato gli si facessero di nuovo incontro.
I tre protagonisti non hanno una sceneggiatura da rispettare o dialoghi da interpretare, né sono ripresi in semplicistiche immagini di jam live. Ciò che emerge è il vissuto della loro vita, il racconto della propria arte, delle proprie influenze musicali, lo sviluppo del proprio sound: è questo il solo copione seguito. È con questo stratagemma che si vuole far assurgere It Might Get Loud al rango di film non esclusivamente documentario. Lasciamo dire alla più competente critica cinematografica se questo sia un obiettivo effettivamente raggiunto. Quello che possiamo affermare è che It Might Get Loud è un film straordinario, certamente diverso da molti documentari. È un film che pone al centro dell’attenzione le potenzialità espressive della chitarra dal punto di vista di tre chitarristi dal successo planetario, strutturato tuttavia in modo tale da non indulgere in tentazioni narcisistico-virtuosistiche. È in grado di fondere storia della musica rock e immagini di performance live; di alternare momenti di personale introspezione artistica a spazi di approfondimento tecnico, senza perdere mai di ritmo, efficacia sonora e contenuti intellettuali.
Il racconto parallelo di tre storie differenti permette di far emergere altrettante concezioni musicali, background culturali di riferimento, differenze e punti di contatto, peculiarità, episodi. Tutto è rivestito di un fascino irresistibile: i luoghi dell’America, dell’Irlanda, le immagini di Page giovane session man durante gli Swingin’ Sixties.
La suggestione visiva e sonora cede presto il posto all’intensità del coinvolgimento intellettuale: nel racconto e nel ricordo i tre protagonisti concedono allo spettatore di accedere al senso della loro esistenza per la musica. Anzi, è nell’emergere delle loro differenze che l’intento indagatore del film inizia a delinearsi, marcato e rivelatore: pur provenendo da ambienti culturali differenti, i tre appaiono investiti da un’energia che li accomuna, da un’attitudine esploratrice e ribelle che altro non è che la scintilla primitiva del rock. E così le tre storie, differenti per epoca e riferimenti culturali e musicali, diventano oggetto di una sublimazione: in una convergenza che ha un naturale luogo fisico di incontro (l’America), It Might Get Loud simboleggia metaforicamente l’incontro di tre approcci che si ritrovano nell’evoluzione stilistica della storia del rock.
Chi conosce l’Irlanda e la forza della sua tradizione musicale sa quanto essa sia imprescindibile nella vena artistica di ogni musicista di quella terra. Non fa eccezione The Edge, che ha fatto della fusione tra gli stilemi ritmici della tradizione musicale irlandese e quelli del punk e dell’elettronica new wave il tratto caratteristico più forte del suo stile. La ritmica della musica irlandese, tradizionalmente affidata alle figure per sedicesimi eseguite dal violino, era un elemento talmente forte da essere conservato dagli emigranti irlandesi nel nuovo continente, quando si stabilirono nel nordest degli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento e diedero vita tramite le fiddle tunes (canzoni per violino) ai primi vagiti della old time country music. Ancora oggi, la somiglianza tra le “sviolinate” di derivazione irlandese e le ritmiche elettriche di The Edge, affidate al delay e all’effettistica, è curiosa e per certi versi impressionante.
Come gli irlandesi dell’Ottocento, The Edge compie il suo viaggio verso la terra promessa americana. Il suo viaggio avviene negli anni 70, verso New York, dove vivono i suoi genitori. «A quei tempi Dublino era economicamente al disastro», racconta The Edge nel film. «Credevamo che nulla sarebbe cambiato. Ci doveva essere qualcosa di più, quello che c’era non poteva essere la sola cosa in offerta». E rivive, con il trasporto di chi racconta un’esperienza mistica, una puntata particolarmente importante di Top Of The Pops, trasmissione britannica dedicata alla musica live, nella quale «se un’esibizione su dieci era buona, potevi ritenerti fortunato». Un giorno la trasmissione ospitò i Jam, la prima band di Paul Weller. In mezzo a tante melensaggini pop, quella fu devastante. «Era come se avessero acceso un interruttore», dice The Edge. «Fu la scintilla di un nuovo inizio». E la considerazione che segue è molto più che una semplice dichiarazione. È la nuova “poetica” punk che si impossessa del giovane chitarrista irlandese, in tutta la sua forza dirompente: «Credere in quello che facevamo era molto più importante di quanto sapessimo suonare. I nostri limiti di musicisti non sarebbero stati un problema».
Il resto è storia del suo stile: non sceglie di sviluppare la tecnica chitarristica in direzione del solismo virtuosistico, bensì verso la ritmica di accompagnamento, in modo che fosse il più possibile ricca e protagonista. Il contenuto delle canzoni era poco gentilmente offerto dalla cruda realtà della violenza terroristica irlandese durante la recessione. Quanto alla musica… «Quindici minuti di assolo di chitarra, di tastiera, o di batteria: negli anni 70 c’era un’incredibile autoindulgenza», recita la voce fuori campo di The Edge, con un pizzico di amarezza. «Chitarristi professionisti che guardavano dall’alto i loro fan… quei vecchi colori erano morti».
Mentre nel nordest degli Stati Uniti, la piccola borghesia bianca danzava al ritmo delle fiddle tunes, dal delta del Mississippi si levava, gemente e disperata, la voce della sofferenza e della rabbia della popolazione nera. È dal blues delle origini, il cosiddetto Delta Blues, che nasce il richiamo verso la musica per l’americano chitarrista bianco Jack White. Sulle immagini di un raro video di Blind Gary Davis, la sua voce fuori campo racconta dell’esigenza dell’artista rock di cercare se stesso e le proprie origini. È l’esigenza di «scavare in profondità. E appena inizi a scavare, è come essere sopra un treno diretto verso il blues». Un mondo fatto di «rivolta contro l’establishment, uomini alla ricerca di se stessi, dolore. C’è un universo di tensione in quella musica». Ecco il contrasto, la rabbia che anima Jack White mentre insegna a se stesso bambino come canalizzare questa energia: «Devi lavorare duro, devi combattere con questi strumenti costruiti dall’uomo», e insegna a Jack bambino a calpestare la sua elettrica di plastica.
Spesso nella voce di Jack White si ritrovano gemiti di rabbia che si ispirano al blues degli esordi; altrettanto spesso la musica dei White Stripes è condita da un minimalismo musicale di marcata derivazione tradizionale. Una parte molto significativa del film è infatti dedicata alla rappresentazione della scoperta del blues da parte di Jack. È quello che viene intitolato un «viaggio a ritroso»: partendo dall’esperienza di vita a Detroit, città in cui vivere era difficile e suonare ancora di più («Non c’era nulla di meno figo che suonare la chitarra», dice con amarezza il musicista), passando attraverso il racconto dell’esperienza con gli Upholsterers, White arriva a raccontare il primo ascolto di Grinnin’ In Your Face di Son House, all’età di 18 anni. «È diventata la mia canzone preferita appena l’ho ascoltata e lo è ancora. Mi ha insegnato letteralmente migliaia di cose. Non sapevo che si potesse suonare e battere i piedi contemporaneamente. Era tutto, era l’essenza del rock’n’roll, della creatività e dell’arte. Un uomo contro il mondo, in una sola canzone. Non importava che andasse fuori tempo o che non ci fossero altri strumenti. Quello che abbiamo fatto negli anni io e Meg è stato, tutto sommato, cercare di risuonare quella canzone».
Fin dagli inizi della sua carriera, Jack White è affascinato da un minimalismo sonoro e di contenuti, che si accompagna a un’attitudine grezza, sgraziata e “sporca”, ma intensa, vitale e sanguigna (probabilmente, a nostro modesto parere, uno dei sussulti originali più degni di essere chiamato rock nell’ultimo decennio). È un duo quello con cui inizia le prime esperienze musicali (gli Upholsterers) ed è un duo quello che gli permette di raggiungere il successo planetario. Un minimalismo che, a dire la verità, lo rende quanto più distante da un chitarrista come The Edge, a sua volta definito da Page «architetto del suono». Dice White all’inizio del film: «La tecnologia ha distrutto quanto di vero ed emozionale è presente nella musica». Questa attitudine folk è un tratto caratteristico che pone White al riparo da tentazioni virtuosistiche dello strumento e lo porta invece ad accentuare al massimo l’espressività dei contenuti e delle sonorità. È un’attitudine che affonda le sue radici musicali nella nevrosi della vita urbana di Detroit (patria del protopunk degli MC5, è bene ricordarlo) e contemporaneamente nell’arcaico blues delle origini.
Anche le radici della leggenda di Jimmy Page affondano nel folk. Il “nido” musicale di Page è un genere del tutto particolare che imperversava nell’Inghilterra degli anni 60: lo skiffle, simile al country classico. Di quel periodo Page afferma con tutta chiarezza: «Non avevo neanche la minima idea che la musica mi avrebbe portato da qualche parte». Era facile trovare a Londra gruppi dell’ambiente skiffle con cui suonare, ma il giovanissimo Jimmy Page pensava alla musica solo come a un piacevole passatempo. «All’epoca ascoltavo qualunque cosa che contenesse la chitarra. Fu quando mi capitò fra le mani Rumble di Link Wray che sentii per la prima volta un’intenzione, un’attitudine diversa». E sull’onda di quell’attrazione, anche per Page la strada era segnata in direzione “contraria” verso il blues e il rock americano. Attorno ai 15 anni la sua bravura di chitarrista lo porta in contatto infatti con band blues oriented, dedite soprattutto a performance live. Il catalogo della Chess, fatto essenzialmente di blues, era il principale bacino di influenze di Page.
Dopo un’esibizione live al Marquee, arrivano le prime proposte di lavoro come session man presso gli Olympic Sound Studios di Londra. Ma se per White e The Edge la composizione originale e la scrittura della musica vengono scoperti quasi come un privilegio al quale si accorgono di avere accesso, Page vi arriva dopo aver sperimentato la vita del musicista di studio in tutti i suoi aspetti di routine e di totale assenza di creatività: scrivere musica originale diventa per lui un’esigenza della quale non può più fare a meno.
Se l’espediente narrativo scelto da It Might Get Loud è quello del viaggio nello spazio e del ricordo nel tempo, il tema è certamente costituito dalla chitarra. Pur correndo il rischio di perdersi nell’universo di possibilità narrative offerte da questo strumento, Guggenheim non indulge in questa tentazione. Il regista si serve infatti della biografia artistica di tre chitarristi unici e dalle forti peculiarità. Tre chitarristi dal «forte carattere«, come dice Jimmy Page all’inizio del film; tre musicisti originali e portatori di energie di rinnovamento.
Riflettendo su quanta inventiva abbiano saputo portare al servizio del rock, non si può non ricordare come Jimmy Page sia stato in grado di creare una miriade di riff tuttora riferimento per generazioni di chitarristi, e quanto, grazie ai suoi lavori con l’acustica, abbia saputo infondere nelle composizioni dei Led Zeppelin un contributo non indifferente al folk britannico. Non si può non considerare quanto importante sia stato il ruolo di The Edge nella costruzione del sound degli U2, in grado di riprendere la tradizione irlandese e allo stesso tempo di superarla nel segno di un linguaggio fatto di punk, new wave, rock e pop. E infine non si può tacere l’importanza della riscoperta dell’attitudine blues grazie al contributo di Jack White, capace di parlare di moderno disagio con un linguaggio antico.
Il film si limita a utilizzare la chitarra come oggetto di narrazione nell’analisi di tre individualità artistiche uniche, poiché è attraverso essa che trovano espressione. È in questo approfondimento che emerge uno degli intenti principali di Guggenheim: definire, almeno in parte, la sostanza del rock colta nei suoi elementi di essenzialità, nei messaggi forti e pregnanti; una sostanza fatta di rabbia, innovazione, vitalità e creatività. Ecco il valore di It Might Get Loud: attraverso la presentazione originale e inconsueta della concezione artistica di tre importanti chitarristi, emerge il nucleo originario, la scintilla vitale della pulsione musicale. E per raccontare tutto questo, Guggenheim si serve della forza simbolica del viaggio come ritorno alle radici. Radici del blues, nel caso di Jack White, radici della rabbia punk delle giovani generazioni anglosassoni nel caso di The Edge, radici dell’urgenza creativa di Jimmy Page in quel contesto irripetibile che fu Londra alla fine degli anni 60.
L’indagine introspettiva e retrospettiva di Guggenheim porta così a trovare tre ingredienti fondamentali per la nascita dell’artista rock: rabbia, creatività, semplicità. L’emergere di questi elementi – e non del virtuosismo – permette al film di fornire agli ascoltatori un punto di vista differente con cui approcciarsi al rock e rende questi tre chitarristi “generazionali” i protagonisti ideali.