30/04/2008

HAIL HAIL ROCK’N’ROLL!

Gli anni d’oro di Chuck Berry alla Chess Records

Quando nel 1977 la NASA spedì nello spazio la navicella spaziale Voyager I, al suo interno fu incluso il Golden Record, uno speciale disco contenente suoni ed esempi musicali della cultura del pianeta Terra. Tra questi vi erano, tra l’altro, composizioni di Beethoven, Bach, Mozart, Stravinsky, canti tradizionali indiani, cinesi, messicani e Johnny B. Goode. Poco dopo, come spiritosamente rivelato con humour surreale da Steve Martin al Saturday Night Live, arrivò il primo messaggio dagli extraterrestri: “Send more Chuck Berry!”.
Oggi che la prima ondata del rock and roll appartiene all’era paleozoica della musica rock è difficile riuscire a comprendere quanto la musica abbia contribuito alla rivoluzione culturale e sociale degli anni 50 che ha proiettato il mondo occidentale nel futuro. Era l’America che si lasciava alle spalle gli stenti degli anni 30 e le tragedie del secondo conflitto mondiale. L’America del boom di nascite ed economico che si proponeva quale faro della moderna democrazia affermando la supremazia del modello capitalistico su quello comunista. La grande nazione che apriva la questione dei diritti civili e si preparava a conquistare lo spazio. Come notato dal critico Peter Guralnick, “per capire veramente la magia del rock and roll bisognerebbe essere catapultati indietro nell’America di Eisenhower”. Quella che presto diventò l’America di Elvis, il messia che nei pochi attimi in cui per la prima volta ondeggiò il suo bacino fece invecchiare di colpo le generazioni precedenti, innescando la liberazione sessuale e stemperando i diversi colori della società americana nell’impetuoso canto liberatorio che attingeva senza alcun freno inibitorio alla tradizione nera. Ancora oggi nell’immaginario collettivo è rimasta l’America di Elvis, ma in musica nessuno la seppe interpretare e raffigurare meglio di Chuck Berry, il primo poeta del rock and roll. Ingenuità e ambizione. Amore per i dettagli e acuta capacità di osservare ciò che succedeva intorno a sé. Un grande talento nel saper distillare l’impatto sonoro dell’era dello swing, il feeling del blues e l’enfasi ritmica del country in uno stile chitarristico eccitante ed espressivo. Il black hillbilly che incuriosiva e attirava un pubblico multirazziale al Cosmopolitan Club di East Saint Louis (ancora oggi egli ricorda che “la semplice audacia di un nero che suonava country & western faceva diventare sensazionale lo spettacolo più semplice”) presto diventò il cantore della gioventù americana degli anni 50 raccontandone con vivide immagini la quotidianità. Nell’infinito panorama dei talenti dell’epoca, da Fats Domino a Roy Orbison, da Bo Diddley e Little Richard e Gene Vincent a Jerry Lee Lewis, fino a Eddie Cochran e Buddy Holly, l’opera di Chuck Berry si erge ancora come la quintessenza della magica formula del rock.
Senza fare inutili classifiche. L’arte è arte. Il feeling è feeling. Rock Around The Clock di Bill Haley segna ancora il tempo come poche canzoni hanno poi fatto. E decine di altri sconosciuti rocker hanno saputo raggiungere la perfezione, anche se solo per il tempo di un’unica canzone. Ma le intuizioni di Berry rimangono ancora come l’eredità più importante nell’economia di una musica che ha saputo evolversi nello stile e nei contenuti. Non è certo un caso che il primo singolo dei Rolling Stones, Come On, sia stata una canzone di Berry, visto che la prima volta che Jagger e Richards si rivolsero la parola fu perché uno di essi aveva alcuni dischi di Chuck Berry in mano. Ed è eloquente  che per aprire il loro primo concerto negli Stati Uniti, al Coliseum di Washington D.C., i Beatles scelsero Roll Over Beethoven.

È stato sottolineato che la qualità della produzione di Berry negli anni 50 è impressionante se si pensa che in soli quattro anni, dal maggio del 1955 al mese di luglio del 1959, il musicista di Saint Louis ha scritto e registrato decine di brani immortali. Adesso, finalmente, le incisioni di quel periodo vengono integralmente raccolte in un box retrospettivo (unica eccezione due rare incisioni effettuate quale session man l’anno precedente al suo esordio su Chess Records).
Johnny B. Goode: His Complete ‘50s Chess Recordings prende spunto dai primi cinquant’anni della canzone che è stata scelta per dare il titolo al box. E che ancora oggi meglio lo rappresenta nell’immaginario collettivo. Pubblicata il 31 marzo 1958, Johnny B. Goode contiene in particolare due elementi chiave che la rendono così affascinante: il testo, che per la prima volta celebra il sogno americano nel rock and roll, e le pirotecniche figure di chitarra, che diventeranno uno degli standard più eseguiti e influenti della musica popolare moderna.
Berry raccontò che la canzone gli fu ispirata in occasione di uno dei suoi primi concerti a New Orleans, il luogo in cui secoli prima erano giunte le navi cariche di schiavi. Vedere ora la città tappezzata con i manifesti in cui era riportato a grandi lettere il suo nome gli fece pensare al tempo passato e ai cambiamenti in atto nella società americana. Nel box retrospettivo la canzone viene presentata nelle due versioni che permettono di notare come fu realizzata. Nella prima registrazione furono incisi la voce e tutti gli strumenti. La chitarra di Berry, oltre alla ritmica, esegue la prima parte dell’introduzione e i celebri break strumentali. Nella seconda Berry sovraincise le altre parti di chitarra che si vanno ad incastrare perfettamente con le parti solistiche già incise e che, nel loro insieme, rappresentano una perfetta sintesi del suo stile. Il glissato iniziale richiama in mente lo slide di Elmore James, l’uso dei bicordi ricerca le sonorità delle sezioni fiati dei Tympani Five di Louis Jordan, i bending ripetuti con accenti in controtempo arrivano direttamente da T-Bone Walker. Una magica sintesi che contribuì a far prendere in mano lo strumento a migliaia di ragazzini: tra questi c’erano Eric Clapton, Jimmy Page e Jimi Hendrix che attraverso la sua musica risalirono poi alle origini del blues.
Anche il testo di Johnny B. Goode presenta alcune curiosità: nella stesura originale della canzone il protagonista era un “coloured boy”, poi purificato in “country boy” per non rischiare di alienarsi i passaggi in radio. E l’apertura “deep down in Louisiana close to New Orleans” era stata ispirata da “I’m goin’ down in Louisiana, baby, behind the sun”, da Louisiana Blues di Muddy Waters. Il grande bluesman di Chicago era forse il principale eroe di Chuck Berry e questi, nella primavera del 1955 riuscì a incontrarlo dopo un’indimenticabile serata in cui, girando per i club della città, aveva visto in concerto anche Howlin’ Wolf ed Elmore James. E fu proprio Muddy Waters a indirizzare l’intraprendente Berry alla Chess Records. Invitato a tornare con materiale originale pochi giorni dopo, Berry si presentò con qualcosa che alle orecchie di Leonard Chess suonava davvero speciale. Era un brano che fondeva la velocità del country con l’intensità del R&B, Ida May. Nel corso della prima seduta di registrazione cambiò il titolo in Maybellene e, appena pubblicata, fu programmata senza sosta da Alan Freed (il deejay e promoter che affermò nella cultura giovanile il termine rock and roll) spingendola in cima alle classifiche nazionali. È un piacere risentire la canzone finalmente rimasterizzata con un suono all’altezza. Mentre scorrono i primi capolavori del suo repertorio, da Thirty Days e You Can’t Catch Me (in cui già canta di “radio tuned to rock and roll”) a Brown Eyed Handsome Man, Roll Over Beethoven e Too Much Monkey Business, l’unico dispiacere è dato dalla totale mancanza di inediti del primo periodo, poiché sembra che per risparmiare alla Chess riciclassero i nastri per le nuove incisioni. Questo naturalmente finché, col successo delle prime uscite di Berry, il cash flow non iniziò a farsi più interessante… In compenso troviamo due registrazioni dal vivo al Camel Rock And Roll Dance Party di New York, presentate da Alan Freed e che probabilmente trovano al pianoforte Count Basie. Particolare di poco conto però visto che l’audio è letteralmente dominato dall’impressionante entusiasmo del pubblico che fa rivivere per un momento l’incredibile atmosfera di quel periodo. Fin dalle prime incisioni è evidente il grande apporto di Johnnie Johnson, pianista straordinario e perfetto partner artistico nell’economia stilistica dei brani, che mostra la maggiore originalità soprattutto nei brani più veloci come Maybellene, Thirty Days e Brown Eyed Handsome Man (il primo pezzo che celebrò in musica l’orgoglio nero), nei quali il pianoforte sembra andare per i fatti suoi, seguendo linee melodiche diverse che ampliano la struttura armonica delle canzoni sottolineandone l’afflato liberatorio.

Libertà, indipendenza, movimento, conquista, l’automobile come simbolo dell’emancipazione e via di fuga verso una propria dimensione. Sono questi i temi che dominano le canzoni di Berry e che lo hanno portato ad essere paragonato a Walt Whitman, lo storico autore di Foglie d’erba, che cento anni prima aveva già celebrato l’equazione viaggio = libertà per il significato che riveste il semplice fatto di essere sempre in movimento al di là dell’importanza di avere una qualsiasi destinazione.
Il tema dell’indipendenza diventerà una costante in tutta la sua opera, celebrato splendidamente in Almost Grown e, più tardi negli anni 60, con No Particular Place To Go e la celebre You Never Can Tell, brano che molti anni dopo verrà proiettato per sempre in una nuova dimensione con l’inclusione in Pulp Fiction. Con l’innata capacità di osservare il cambiamento, il cantautore rock ante litteram si sintonizza ancor più sui temi cari agli adolescenti americani. Roll Over Beethoven e Rock And Roll Music sono il punto di svolta in cui la musica comincia a costruire l’identità del rock and roll.
È un processo importante, perché prende coscienza di sé ed afferma i propri valori. “Roll Over Beethoven, and tell Tchaikowsky the news!”, “just let me hear some of that rock and roll music!”, sono le prime celebrazioni del nuovo idioma. “Infila la moneta nella fessura, hai bisogno di sentire qualcosa di veramente forte”, suggerisce in School Day al termine di una dura giornata sui banchi di scuola. “Long live rock and roll, the beat of the drum is loud and bold”. Il battito forte e fiero della batteria colpisce su diversi livelli: è il beat della nuova musica, che proprio in School Day presenta per la prima volta i marcati accenti tipici del rock che verrà nel decennio successivo, ed è forse anche la reminiscenza dei tamburi di Congo Square a New Orleans, quando agli schiavi neri veniva permesso di riunirsi la domenica mattina per suonare e cantare. “Deliver me from the days of old!” è l’auspicio finale, e anche in questa frase il messaggio può essere decodificato con diverse chiavi di lettura: per i teenager è la liberazione dal mondo degli adulti, per i neri potrebbe essere da ciò che la segregazione razziale comportava.
L’anno appena concluso aveva visto l’inizio della stagione delle lotte per i diritti civili che aveva trovato appoggio in una sentenza della Corte Suprema e nella conclusione della vicenda di Rosa Parks, insegnante di colore che si era ribellata alle regole segregazioniste dell’Alabama. Anche Berry diventerà oggetto di pregiudizi e ingiustizie per il suo essere poco incline a lasciarsi inquadrare nei contorni dell’antico stereotipo del nero sottomesso e ignorante. Intraprendente anche in altri settori, Berry aveva aperto un locale dalla clientela multirazziale nel centro di Saint Louis e acquistato una grande tenuta ai margini di Wentzville, Missouri, battezzata Berry Park, con l’intenzione di farne un grande parco giochi e organizzarvi concerti. L’establishment di Saint Louis lo prese subito di mira e alla prima occasione, nel 1960, fu condannato al carcere per aver portato una minorenne dal Texas al Missouri al fine di farla lavorare nel suo locale. Il carattere testardo e la chiara propensione a mettersi nei guai hanno poi causato alcune esperienze negative che hanno contribuito a creare il personaggio scontroso che rifugge interviste e vive ai margini dello show business. E questo sarebbe un aspetto da approfondire per riuscire a capire meglio l’uomo e l’artista. È senz’altro rivelatorio che un’autentica icona della musica popolare contemporanea da trenta anni non abbia più un contratto discografico. L’ultimo disco contenente nuove canzoni originali è stato Rock It, uscito nel 1979 per la Atlantic. Da quel momento si sono ciclicamente rincorse voci di nuove uscite discografiche regolarmente disattese nei fatti. Negli anni 80 un incendio a Berry Park sembra aver distrutto alcuni master pronti per la pubblicazione e nel 2001 si sa per certo che Berry abbia inciso nuove canzoni in uno studio di Saint Louis. Ma poi non se ne è saputo più nulla. La spiegazione, implicitamente, l’ha data lo stesso Berry in una recente intervista: “In un certo senso penso non sarebbe molto educato cercare di superare me stesso. La musica che suono ormai è diventata un rituale, qualcosa che sta a cuore alla gente in un modo speciale. Non vorrei rischiare di interferire con questo speciale rapporto”.

Mentre altri monumenti della musica americana, come B.B. King, Jerry Lee Lewis e Fats Domino sono stati oggetto di progetti celebrativi, Berry continua ad essere il cane sciolto che cerca di evitare le luci di una ribalta in cui sono gli altri a condurre il gioco. Così la sua attività da oltre vent’anni è ormai incentrata sull’attività dal vivo, con alti e bassi. Da qualche anno, grazie ai figli Charles e Ingrid che suonano con lui, va in giro con la stessa band e la qualità media delle sue esibizioni, quando è con loro, ne ha guadagnato molto. Ma per lungo tempo il suo modo di intendere la musica dal vivo ha dato luogo ad aneddoti sui quali si potrebbero scrivere interi libri. Infastidito dagli effetti collaterali che alcol e droghe causano nell’economia delle rock band, Berry fin dagli anni 60 iniziò ad andare in giro da solo con la sua chitarra, chiedendo in ogni città una band che lo accompagnasse. “Le mie canzoni hanno una struttura semplice e qualunque musicista rock le dovrebbe conoscere”. In fondo non aveva torto visto che erano uscite centinaia di cover. Il fatto è che non si presentava mai al soundcheck per le prove e, una volta salito sul palco, non comunicava ai musicisti né la scaletta dei brani, né la tonalità in cui sarebbero state eseguite. Un’introduzione di chitarra e via. È rock and roll, come direbbe Ricky Gianco. Celebre è il racconto che ha fatto Bruce Springsteen nel film Hail! Hail! Rock’n’Roll, bellissimo documentario di Taylor Hackford su Chuck Berry, quando ricorda divertito una lontana serata del 1973 quando si trovò ad accompagnarlo con la sua band. Il Boss racconta che a un certo punto Berry si rivolse a loro incitandoli a suonare bene e dicendo “Forza ragazzi, guadagnatevi la paga!”. Fingendo forse di non sapere che probabilmente il promoter li aveva fatti suonare gratis. Il rapporto di Berry con gli organizzatori meriterebbe un capitolo a parte. Dopo aver preso, come molti altri musicisti di colore, molte fregature all’inizio della sua carriera, Berry decise di fare il manager di sé stesso. Un giorno, racconta nella sua autobiografia, viaggiò per duemila miglia per poi trovarsi a suonare per poche decine di ragazzini davanti a un chiosco di gelati. Al termine del concerto l’organizzatore gli allungò una manciata di dollari dicendo “C’era poca gente. È tutto quel che posso darti. Mi dispiace”. Così prese una semplice precauzione che nel giro di pochi anni iniziò ad essere comunemente chiamata nel giro del rock business come il “Chuck Berry deal”: 50% del pagamento al momento in cui si fissa la data del concerto e il restante 50% prima di salire sul palco. A partire dagli anni 80, addirittura, la tranche finale deve essere pagata per contratto ancora prima che salga sull’aereo che lo porterà a destinazione. Ne sanno qualcosa i malcapitati organizzatori di un concerto che avrebbe dovuto tenersi a Milano nel novembre del 1990. Teatro Orfeo tutto esaurito e della leggenda neanche l’ombra: aveva lasciato la Germania, dove si trovava in tour, ritornando direttamente negli Stati Uniti visto che il pagamento previsto che doveva ricevere dagli organizzatori italiani non era stato eseguito. Guai a non rispettare il suo contratto. Dove è sempre previsto che gli si faccia trovare una lussuosa Mercedes con cambio automatico all’aeroporto, che poi, ancora oggi, guida personalmente. Bo Diddley, il suo compagno d’avventura negli esordi alla Chess che è stato letteralmente derubato dei suoi diritti d’autore, ha sempre manifestato la sua ammirazione per il suo modo di trattare gli affari. Ma, per quanto possa sembrare poco credibile, i soldi non sembrano essere tutto per Chuck Berry. Ho avuto la fortuna, in diverse occasioni, di poterlo osservare da vicino e, un paio di volte, anche di conversare con lui in un ambito familiare. Ciò che più mi ha colpito è stato il suo profondo rispetto e affetto per gli appassionati della sua musica. Nonostante ciò che egli stesso a volte induce gli altri a pensare, Chuck Berry trova ancora le sue buone vibrazioni con la chitarra in mano. In questo senso, vederlo al 100 Club di Londra presentarsi al soundcheck ed ascoltarlo suonare per oltre 30 minuti senza che vi fosse alcuna esigenza tecnica (i suoni li avevano già fatti James Marsala e il figlio Charles) è stato rivelatorio. Quando ha attaccato l’iniziale Rockin’ At The Philarmonic mi è sembrato di essere proiettato indietro nel tempo nel 1957, come Marty McFly in Ritorno al futuro, immaginando di trovarmi negli studi Chess di Chicago, con Willie Dixon al contrabbasso, Fred Below alla batteria e Johnnie Johnson al pianoforte. Era la session di Reelin’ And Rockin’ e Sweet Little Sixteen. Quest’ultima fu il suo più grande successo di classifica negli anni 50: “They’re really rockin’ in Boston, in Pittsburgh P., deep in the heart of Texas and ‘round the Frisco Bay, all over St. Louis, way down in New Orleans, all the cats wanna dance with Sweet Little Sixteen”.
Una perfetta istantanea della rock and roll craze in cui per la prima volta utilizzava la tecnica di menzionare diversi luoghi geografici, che riprenderà poi in Back In The U.S.A. e Promised Land, al fine di innescare processi di identificazione negli ascoltatori. Nel nuovo box di Sweet Little Sixteen si può scoprire la genesi in sala d’incisione, attraverso ben cinque versioni consecutive. Ed è interessante notare come Leonard Chess alla fine decise di accelerare leggermente il brano, per la realizzazione del master finale, al fine di far risultare la voce di Berry su di un registro più alto, quasi certamente al fine di farlo “suonare” più vicino agli adolescenti che erano il chiaro target del disco. Johnnie Johnson aggiunge eccitazioni ed enfasi al risultato finale.
Molto è stato detto riguardo all’apporto di Johnson nelle composizioni di Berry. E nel 2001 vi è stata un’amara coda nel loro rapporto quando il pianista, mal consigliato, aveva fatto causa a Berry chiedendo il riconoscimento di una parte dei diritti d’autore per qualche decina di canzoni. La corte si è poi pronunciata negativamente sostenendo che erano passati troppi anni per poter giudicare. Il fatto che Johnson non abbia mai scritto un brano significativo prima, durante o dopo il rapporto con Berry può essere indicativo, anche se la sua scarsa ambizione e i suoi problemi con l’alcol ne avevano limitato le possibilità durante l’intero arco della carriera. Johnson, che è scomparso nel 2005, si era riconciliato con Berry e il frutto della loro collaborazione rimane uno dei più squisiti nell’intera storia del rock anche se non bisogna dimenticare che altri pianisti come Otis Spann (in You Can’t Catch Me e No Money Down) e Lafayette Leake (in Rock And Roll Music e Johnny B. Goode) hanno suonato con esiti altrettanto brillanti nelle canzoni di Chuck Berry. Piuttosto, ascoltando due lunghe jam strumentali presenti nel nuovo box, nelle quali domina la scena lo stile pianistico di Johnson, viene spontaneo chiedersi come mai alla Chess non abbiano mai pensato a pubblicare qualche disco di questo grande pianista.
Così come in Sweet Little Sixteen, è interessante notare anche per Rock And Roll Music la progressione dell’idea in diverse takes. E il brano che verrà ripreso con successo da Beatles e Beach Boys, prima che Etta James ne inventi la versione più bella nel film Hail! Hail! Rock’n’Roll, ha in ogni take un diverso fascino con variazioni di ritmo e arrangiamento. Mostrando così che a fianco della tipica freschezza e spontaneità dello stile di Berry vi era uno sforzo di produzione non indifferente al quale contribuivano in modo determinante Willie Dixon e Leonard Chess. Altrettanto curiose sono le registrazioni di Almost Grown nelle quali erano presenti ai cori un giovanissimo Marvin Gaye e la stessa Etta James, che prima di girare Hail! Hail! Rock’n’Roll Berry ricordava a malapena, salvo poi rimanere assolutamente conquistato dalla sua bravura e tributarle l’omaggio più sincero nel corso del concerto filmato da Hackford.

Ciò che appare evidente ascoltando la globalità delle incisioni Chess degli anni 50 è la commistione di influenze musicali (blues, boogie, hillbilly, swing, calypso e musica latina) che sono poi state distillate nei suoi brani più famosi, e scoprire chicche spesso poco conosciute. È il caso del bellissimo blues strumentale Deep Feeling, eseguito alla steel guitar, a cui evidentemente si ispireranno i Fleetwood Mac per comporre Albatross, o l’originale Havana Moon con la voce in primo piano e un accompagnamento elegantemente minimalista. È anche illuminante scoprire che Berry, come un pioniere del DIY, ha suonato tutti gli strumenti quando ha inciso due classici come ‘Round And ‘Round e Memphis Tennessee, quest’ultima registrata addirittura nel suo ufficio di Saint Louis. Con tanti capolavori nella sua discografia è deludente che l’unico numero uno in classifica della sua carriera sia stato raggiunto con My Ding-A-Ling: una filastrocca dai piccanti doppi sensi registrata dal vivo (dalla sua casa discografica ma a sua insaputa) in Inghilterra nel 1972 che scandalizzò i benpensanti britannici e fu messa al bando dalla bacchettona Mary Whitehouse. In compenso lasciò al secondo posto della classifica niente meno che Burning Love di Elvis Presley e, soprattutto, gli fruttò un mucchio di soldi. D’altronde, in una delle sue frasi più celebri Berry ha affermato sardonicamente che il momento più emozionante della sua carriera è stato quello in cui la BMI (la SIAE americana, se così si può definire) gli staccò un assegno da un milione di dollari. Il successo di My Ding-A-Ling e dell’album The London Rock And Roll Sessions aveva rilanciato la sua carriera aumentando vertiginosamente le richieste dal vivo. Di quel periodo, nell’agosto del 1972, fu il leggendario London Rock And Roll Show nel quale Berry si esibì dopo una line up impressionante composta da Bo Diddley, Jerry Lee Lewis, Bill Haley e Little Richard.
In fondo, se si analizza bene la parabola di Chuck Berry, si può giungere alla conclusione che la sua dimensione ideale è sempre stata quella live. Una volta trovata la fama e scritti i suoi brani più celebri nella cosiddetta golden decade, che va dal 1955 al 1964, Berry ha sempre preferito stare su un palco, davanti al suo pubblico, piuttosto che chiudersi in uno studio di registrazione. Viaggiare, suonare, senza troppi vincoli. Divertendosi ad andare in giro per il mondo rappresentando con esibizioni estemporanee la sua icona e il vero spirito del rock and roll. Un flash: Roma, era il mese di luglio del 1987 e le scalinate del Palazzo Civiltà del Lavoro dell’Eur erano state divise in due settori per il suo concerto. Aveva una grande band. Con Johnnie Johnson al pianoforte e la stessa sezione ritmica di colore che un anno prima aveva suonato con lui al Cosmopolitan di Saint Louis nelle scene iniziali di Hail! Hail! Rock’n’Roll. Dopo soli pochi secondi della sua celebre introduzione di chitarra, come se fosse una chiamata alle armi, il pubblico del settore più economico scavalca e abbatte letteralmente transenne e security riversandosi con impetuoso entusiasmo sotto il palco e iniziando a ballare sulle note di Roll Over Beethoven. Un lampo di profonda soddisfazione brilla nei suoi occhi mentre osserva quella scena. Il ritmo della sua musica si fa più intenso. Poco dopo si accovaccia sulla sua Gibson e nell’acrobatico duck walk attraversa tutto il palco proteso in avanti tra il boato del pubblico.
Era il grande Chuck Berry.

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