Il nipote immaginario di Brian Wilson è un irlandese con la faccia da ragazzino, grossi occhiali da aviatore anni 70 e capelli lunghi che cadono disordinatamente sul viso. È un tipo qualunque, non fosse per la capacità che possiede di scrivere splendide canzoni e arrangiarle con tessiture armoniche deliziose. Si chiama David Allen, ha 26 anni e, per dirla con le parole del suo idolo, non è fatto per questi tempi. Intanto non ha nulla della strafottenza annoiata dei campioncini della coolness che finiscono settimanalmente sulla prima pagina del New Musical Express. Quelli che “la musica parla da sé” e invece è muta mediocrità. David scrive canzoni spudoratamente fuori moda, ma d’una freschezza unica. S’appassiona per dischi incisi almeno trent’anni fa. È un provinciale, sì, ed è fuori dagli schemi. Uno da Jam.
Il disco d’esordio del suo gruppo, Hal, ha ricevuto lodi sperticate da parte della stampa inglese. È una splendida anomalia nel panorama musicale contemporaneo, il ritorno a un’era in cui scrivere una buona canzone significava scrivere una buona melodia. È frutto di un’immaginazione musicale sviluppata sui dischi dei Beach Boys, dell’isolamento dal mondo della musica, del talento della ventina di musicisti che l’hanno arricchito con pedal steel, whistle, mandolino, contrabbasso, fiati, violoncello, viola e violini. E naturalmente, di un pizzico di fortuna.
Killiney è un piccolo villaggio a 12 miglia a sud di Dublino. Sta in cima a una collina ed è letteralmente circondato dalla natura. Da lì vengono i fratelli David e Paul Allen, rispettivamente cantante/chitarrista e corista/bassista degli Hal (gli altri membri del gruppo sono il co-compositore e tastierista Stephen O’Brien e il batterista Brian Murphy). “Credo che la nostra musica abbia a che fare col fatto di crescere in un paesello di poche migliaia di abitanti sparpagliati su una collina” mi spiega David. “Eravamo lontani da qualunque scena. Isolati. Siamo sostanzialmente cresciuti con la collezione di dischi di papà e mamma: Joni Mitchell, Beatles, Beach Boys. Quella musica è sempre stata sullo sfondo, ma non l’ho scoperta davvero fino a quattro, cinque anni fa. Prima seguivo band americane come Pavement e Sonic Youth. Poi la folgorazione: Buffalo Springfield, Pet Sounds, Jefferson Airplane. Mi si aprì un mondo interamente nuovo”.
Gli Allen avevano in casa un piccolo registratore a 8 piste e un paio di microfoni comprati di seconda mano da alcuni amici. Non avevano nemmeno una chitarra elettrica. In compenso possedevano un piano e un mandolino. “Le limitazioni ci obbligarono a far lavorare la fantasia. Gli arrangiamenti li abbiamo letteralmente immaginati. Ci dicevamo: che cosa ci metteremmo qui se potessimo registrare un vero album? I demotape che spedimmo a Londra avevano perciò la traccia degli arrangiamenti suonati in modo sfigato con strumenti di fortuna. Registrammo fino a sei diverse versioni di una stessa canzone, riempiendo tutte le tracce che avevamo a disposizione. Ad esempio, sul demo di My Eyes Are Sore la parte che immaginavo dovesse essere degli ottoni la facevo io con la voce”.
David non sapeva trascrivere la musica che aveva in testa. Gli fu d’aiuto un amico londinese di nome Philip Sheppard, musicista professionista di matrice classica già autore di colonne sonore. “Ha anche suonato il violoncello per Jeff Buckley. Mi ha aiutato a reclutare gli strumentisti, dotati perlopiù di un background classico, e a trascrivere correttamente la musica che avevamo composto in modo che i musicisti potessero suonarla. Ci vollero un paio di giorni. Passavo interi minuti a spiegargli quale tipo di effetto desideravo, lui mi guardava e mi diceva: certo, si tratta di un glissando. Per lui era facile, per me una conquista”.
Un’altra figura fondamentale nel forgiare il sound di Hal è quella del produttore Ian Stanley, un inglese trasferitosi in Irlanda già al fianco di Tori Amos. “È stato lui a, come dire, espandere il suono del demo fino a ottenere il risultato finale. Ha portato le canzoni a un nuovo livello: è stato come vedere un film prima in tv e poi al cinematografo. Ci vide in uno dei nostri concerti a Dublino e ci offrì di usare il suo studio gratis. Un tipo della Rough Trade suggerì invece di andare a incidere a Nashville con Brad Jones, il produttore di Josh Rouse. Non ci piaceva l’idea di andare negli Stati Uniti e vivere in un albergo. Volevamo respirare aria di casa”.
Il concetto di armonia è stato praticamente emendato dai dischi rock. Una linea melodica, un accompagnamento più o meno rudimentale alla chitarra elettrica e due dichiarazioni ribellistiche sono elementi sufficienti per far scattare elogi sperticati. David e Paul non la pensano così. Sono loro i responsabili delle parti vocali dell’album degli Hal. “Il fatto di vivere sotto uno stesso tetto e di avere a disposizione un registratore multitraccia ci ha spinti a sperimentare con le armonie vocali. Il nostro è il tipico processo di try and error. Riempiamo la canzone di armonizzazioni e poi vediamo quale funziona meglio. Ci incoraggiamo vicendevolmente a sperimentare nuove idee. Il nostro punto di riferimento? Crosby Stills & Nash: stupefacenti. E i Beach Boys, ovviamente. Ascolti Pet Sounds per la centesima volta e ci senti cose nuove. Di certe incisioni di Brian Wilson mi piace l’ingenuità con la quale sembra esplorare territori sconosciuti”.
Anche a David piace sperimentare. Almeno finché durano i soldi… “Facevamo anche 15 o 16 take della stessa canzone” racconta “e registravamo tutto su nastro, che oggigiorno costa un occhio della testa. Il produttore Ian Stanley ci fece notare che andando avanti di quel passo avremmo impiegato tutto il budget in nastri. Così siamo stati costretti a utilizzare una tecnica mista, registrando per metà su nastro e per metà su computer, in digitale. Un metodo decisamente più pratico. Abbiamo attinto da una cinquantina di idee musicali che avevamo inciso nel nostro studio personale, idee sonore, spunti, piccole sinfonie tascabili”.
Come quella di My Eyes Are Sore, una delle canzoni più elaborate dell’album. “È nata sulla chitarra. Poi abbiamo sostituito la chitarra con il piano. Quindi abbiamo registrato quest’ultimo al contrario – ed è esattamente il suono che senti all’inizio della canzone – mettendoci sopra un’introduzione di armonica a bocca sullo stile di quella usata da Ennio Morricone nelle colonne sonore dei film spaghetti western. Ci abbiamo lavorato su a singhiozzo. Per finirla ci sono voluti tre mesi”.
In altre canzoni, il processo è stato meno elaborato e i mezzi usati più rudimentali. “Prendi la parte di chitarra alla fine di Keep Love As Your Golden Rule. La chitarra di per sé era vecchia, un vero catorcio. Per di più, passa attraverso un amplificatore da 15 euro piccolo come una borsetta da donna. Se lo tieni a un volume alto e ci metti davanti un microfono esce un suono ultradistorto”.
Sul disco, spiega orgogliosamente David, la batteria è suonata da Clive Deamer del gruppo di Robert Plant. “Sai, quando incidemmo l’album Brian non stava bene: soffre di dolori allo stomaco d’origine psicosomatica e lo stress l’ha messo ko”.
Decisamente poco rock’n’roll.
Hal è un album dallo spirito positivo. Si canta di amicizia e supporto reciproco. Non è un disco figo: niente alienazione estrema, nessun “fuck”, bando ai testi indecifrabili. “Alcune canzoni parlano di che cosa significa crescere, uno dei processi più affascinanti dell’intera esistenza: la vita ti sbatte in faccia certi accadimenti e tu non sai come reagire. Pensi di percorrere una strada dritta, e invece è piena di curve. E quella strada non ti porta dove pensavi di andare”.
Una delle curve impreviste che David e Paul hanno dovuto affrontare è stata la morte della madre una dozzina d’anni fa, quand’erano a malapena quattordicenni. La ribellione è un lusso che i due fratelli non si sono mai potuti permettere. “Io ho 26 anni, Paul 24. La gente ci dice: siete giovani, dovreste ribellarvi. Noi rispondiamo: mamma è morta che eravamo ragazzini e papà s’è fatto in quattro per farci crescere in modo decente. È forse verso di lui che dovremmo ribellarci?”.